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Mentre infuria ancora il dibattito sull'ordine emesso da Trump, un anno fa, che impedisce alle persone transgender di fare parte dell'esercito americano, eccetto che per «circostanze limitate», un nuovo rapporto pubblicato da Usa Today mette in luce l'aspetto economico della situazione che non è certo meno difficile e problematico di quello antropologico e dal quale emerge che il Pentagono ha speso quasi 8 milioni di dollari per curare oltre 1.500 truppe transgender dal 2016. Nei trattamenti, i cui costi sono stati sostenuti dal governo, rientrano ben 161 procedure chirurgiche tra cui riduzione del seno, aumento e riassegnazione del sesso biologico.
A partire dal 1 febbraio, a ben 1.071 membri dell'esercito, appartenenti a corpi diversi: marina, aeronautica, corpo dei marines e guardia costiera, è stata diagnosticata la disforia di genere e per di più la maggior parte di loro è costituita da personale di alto livello, tra cui 20 alti ufficiali maggiori e comandanti.
UN RISCHIO CONSIDEREVOLE PER L'EFFICACIA DELL'ESERCITO
Se si calcola che il budget complessivo del Pentagono, per la sanità, è di 50 miliardi di dollari l'anno di cui 2,1 milioni destinati all'esercito e che le truppe transgender rappresentano lo 0,7 per cento della forza totale, si ha una vaga idea di come, in futuro, se si dovesse nuovamente garantire l'accesso a personale militare Lgbt le spese potrebbero enormemente e velocemente aumentare. Ma quella economica non è l'unica motivazione che ha spinto Trump a diffondere questo divieto: in una nota della Casa Bianca che spiega il perché del provvedimento adottato dal presidente, si sottolinea che mantenere soldati che richiedono un trattamento medico frequente e importante «presenta un rischio considerevole per l'efficacia dell'esercito».
Comunque, lo scorso mercoledì, la sottocommissione per il personale dei servizi militari della Camera, a Capitol Hill, ha ascoltato testimonianze a favore e contro la decisione dell'amministrazione Trump: Blake Dremann, presidente del gruppo militare transgender Sparta, che è stata in marina per 14 anni e ha parlato in base alla sua personale esperienza, in quanto lesbica prima e transgender dopo, ha affermato che «i grandi leader plasmano le loro squadre per superare le aspettative perché non importa se sei femmina o Lgbt. Ciò che conta è che ciascun membro sia capace e focalizzato sulla missione». Ma il vice ammiraglio Raquel Bono, direttore dell'Agenzia per la difesa della salute, ha testimoniato, al contrario, che l'esercito ha rilevato diverse situazioni problematiche relative alla disforia di genere, come un maggior numero di visite psichiatriche e più frequenti pensieri di suicidio, che organismi come l'American Medical Association non riescono a riconoscere o ad ammettere e che finirebbero per danneggiare, di fatto, le operazioni militari.
IL PARADOSSO DEI DALTONICI
Tra l'altro, c'è anche da dire che il divieto di Trump che ha fatto tanto discutere certi "ambienti", non è stato diffuso a cuor leggero, ma in seguito a una seria indagine all'interno dell'esercito, condotta da alti dirigenti militari e civili, compresi i soldati veterani, dunque gente di lunga e grande esperienza.
Così come di grande esperienza è sicuramente l'ex istruttore dell'esercito John Burk, un veterano dell'Iraq e dell'Afghanistan, il quale, in un video del 2017, divenuto virale, in cui commentava negativamente la notizia dell'ingresso delle persone Lgbt nell'esercito americano, sottolineava con forza che il servizio militare non è né un obbligo né un diritto, affermando: «Un disordine psicologico vi esonera da qualsiasi tipo di servizio militare. Indovina un po'? Il daltonismo ti squalifica dall'esercito [...]. Siamo "discriminatori" nei confronti dei daltonici?»; chiudendo di fatto, con questa domanda basata sulla nuda e cruda evidenza dei fatti, l'incredibile questione.
Nota di BastaBugie: ecco altre notizie dal "gaio" mondo gay (sempre meno gaio).
PILLON CONDANNATO PER DIFFAMAZIONE
Nel 2014 l'on. Simone Pillon della Lega aveva denunciato l'indottrinamento gender avvenuto in un liceo di Perugia perpetrato dall'associazione gay Omphalos, la quale era ricorsa poi ai giudici. Un paio di giorni fa è arrivata la condanna da parte del Tribunale di Perugia: 1.500 euro di multa a cui si devono aggiungere 30 mila euro (di cui 20 mila a titolo di provvisionale) a Michele Mommi, responsabile delle attività per i giovani di Omphalos e alla stessa associazione Omphalos.
Pillon ha così commentato la sentenza all'uscita del Tribunale: «Difendere le famiglie dall'indottrinamento costa caro. E' un primo grado non una sentenza definitiva. Ci sarà spazio per l'appello». E su Facebook ha scritto: «Sono stato condannato in primo grado per aver osato difendere la libertà educativa delle famiglie, che a quanto pare non possono più rifiutare l'indottrinamento gender propinato ai loro figli. Ricorreremo in appello, ma è proprio vero che certe condanne sono medaglie di guerra. Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario, diceva Orwell. Beh, io non mollo. E non mollerò mai».
La condanna di Simone Pillon per avere denunciato l'indottrinamento gay nelle scuole; ma anche il drammatico caso del vescovo di Alcalá de Henares, indagato e minacciato perché non accetta l'ideologia gender; e inoltre la vicenda dell'intellettuale conservatore inglese Roger Scruton, costretto a lasciare un posto governativo per aver criticato l'impero Soros e aver sfidato il tabù dell'islamofobia. C'è ormai un virus che ha colpito l'Europa e si chiama dittatura del politicamente corretto, è l'imposizione di valori estranei alla cultura e alla tradizione dei popoli europei. E chi si oppone è condannato nei tribunali e bannato dalla vita pubblica.
(La Nuova Bussola Quotidiana, 13 aprile 2019)
CHIESTE DIMISSIONI DEL PRESIDENTE PARI OPPORTUNITÀ PERCHÉ DIFENDE LA FAMIGLIA
Patrizia Del Giudice è presidente della commissione Pari opportunità della Regione Puglia. Qualche giorno fa ha lasciato un commento su Facebook a proposito del Congresso mondiale per la famiglie: "Tentare di continuo di censurare il mio pensiero di famiglia naturale non mi istigherà a diventare violenta nè nel mio linguaggio né nel mio modo di essere. Se ne facciano una ragione".
Le realtà gay allora lanciano un hashtag, #tunonmirappresenti per chiederne le dimissioni. La Del Giudice risponde ai microfoni del Tgr di Rai3: "Sono stata la prima che ha voluto affrontare il tema della denatalità, e trovo che Verona sia il luogo giusto per capire quale sarà il futuro per la mancanza di nascite. Io sono per la famiglia naturale, se avessi potuto e avessi avuto tempo sarei andata a Verona, sarebbe stato giusto per erudirsi".
(Gender Watch News, marzo aprile 2019)
VIA LIBERA A GAY PRIDE? LA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE NON È ASSOLUTA
Per il prossimo 8 giugno, dopo una serie di manifestazioni in varie parti della regione Friuli Venezia Giulia, è previsto a Trieste il Gay Pride. Antonella Nicosia, presidente di Arcigay Arcobaleno Trieste Gorizia, ha detto che non verranno richiesti patrocini né al comune di Trieste né alla Regione, ma saranno richiesti ad altri comuni.
Per Trieste si tratterebbe della prima volta di un Gay Pride al quale, da quanto si legge dai media locali, non ci sono opposizioni, tranne qualche sparuto e coraggioso consigliere comunale. L'idea diffusa anche tra coloro - istituzioni o singole persone che siano - che dissentono dalla Cirinnà e dal riconoscimento pubblico delle unioni civili tra persone omosessuali, è che comunque la manifestazione omosessualista va permessa e accettata in quanto manifestazione libera di libere opinioni.
La signora Nicosia non chiede il patrocinio a Comune e Regione perché sa bene che le attuali amministrazioni non lo concederebbero, però queste stesse amministrazioni non impediscono né contrastano la manifestazione, come si vuol dire, di un libero pensiero.
Mi chiedo se accettare una simile manifestazione pubblica sia in linea con la Dottrina sociale della Chiesa o meno. Non mi riferisco al tema del riconoscimento giuridico dell'omosessualità, né alla parificazione per legge delle unioni civili al matrimonio, né al presunto diritto di introdurre la concezione omosessualista nei programmi scolastici. È assodato che tutto ciò contraddice la Dottrina sociale della Chiesa. Mi chiedo, piuttosto, se la manifestazione del Gay Pride sia ammissibile da parte dell'autorità politica che, come è noto, ha come scopo il bene comune.
La risposta ad una simile domanda è no: l'autorità politica non dovrebbe consentire tale manifestazione perché così facendo concederebbe ad una visione disordinata delle relazioni sessuali una "dignità" pubblica che non può avere. Il Gay Pride "promuove" l'omosessualismo, considera l'esclusività pubblica della relazione tra uomo e donna una discriminazione, diffonde (anche in modo sguaiato ma non è tanto questo che importa...) una cultura dei diritti che non esiste, promuove il relativismo in un settore molto delicato e che sta alla base della convivenza sociale, diffonde una cultura anti-familiare.
All'omosessualismo sono collegati anche l'adozione di minori da parte di coppie gay, la fecondazione artificiale, l'utero in affitto, ossia pratiche e tendenze innaturali che apertamente contrastano con il bene comune.
Così dicendo si incontra un argomento, quello della libertà di espressione, che era molto presente nella Dottrina sociale della Chiesa preconciliare e che è invece quasi scomparso da quella postconciliare. La libertà di espressione non è un diritto assoluto, come sembra essere per le democrazie moderne figlie dell'ideologia illuministica. Oggi non si censura più niente, ma ci sarebbe molto da censurare.
Non per spirito repressivo o dittatoriale ma per difendere il bene della comunità. Ciò deve valere anche per le manifestazioni pubbliche come un Gay Pride. Chi si sentirebbe di approvare questo principio? Tutte indistintamente le manifestazioni pubbliche devono essere tollerate come diritto di espressione. Anche una manifestazione di pedofili? Anche una manifestazione di uomini e donne nudi? Anche una manifestazione di sostenitori delle camere a gas per qualche categoria di persone? È evidente che se qualche tipologia di manifestazione pubblica non è ammissibile, allora vuol dire che il diritto di espressione non è assoluto.
L'ambito pubblico non è l'ambito della libertà senza criteri, ma l'ambito della libertà responsabile e, quindi, non individualista ma solidale. La libertà responsabile significa che c'è un uso illecito della libertà, quando questa si sgancia da un ordine di doveri oggettivi che sorgono dalla natura stessa della persona e della società. L'autorità politica non è lì per garantire la libera espressione di una libertà scriteriata, come testimonia il fatto che molte manifestazioni non vengono autorizzate, ma per garantire il rispetto dei valori fondamentali che fanno di quella politica una comunità: sono i valori e i doveri morali a tenerci insieme e non i diritti.
(Stefano Fontana, La Nuova Bussola Quotidiana, 26 gennaio 2019)
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