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Le letture di questa sesta domenica di Pasqua ci offrono l'occasione per una profonda riflessione su quello che deve essere l'impegno missionario di ogni cristiano. La prima lettura parla della Comunità cristiana di Samaria, sorta in seguito alla predicazione del Diacono Filippo, il quale, animato da grande spirito missionario, si recò ad annunziare il Vangelo ai Samaritani che erano i più disprezzati non solo dagli Ebrei, ma anche dai cristiani. Il messaggio del Vangelo si doveva rivolgere anche a loro.
Come allora, anche oggi esiste la forte tentazione di fare delle preferenze e di escludere qualcuno dai propri interessi apostolici. Al contrario, la carità cristiana deve abbracciare tutti: nessuno deve essere escluso dal cuore del missionario.
«Le folle – afferma la prima lettura –, unanimi, prestavano attenzione alle parole di Filippo» (At 8,6) e ci furono molte conversioni. Allora giunsero in Samaria Pietro e Giovanni a confermare con l'imposizione delle mani, ovvero con il Dono dello Spirito Santo, l'operato di Filippo. Questo particolare ci ribadisce come l'opera missionaria del singolo deve comunque essere controllata e confermata da chi nella Chiesa esercita l'autorità.
La seconda lettura ci dà dei preziosi insegnamenti su come deve essere la nostra testimonianza evangelica. San Pietro, nella sua Prima Lettera, ci esorta ad essere sempre pronti «a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (3,15).
I fratelli che vivono attorno a noi, che incontriamo ogni giorno per la strada, che vivono nello stesso nostro palazzo, che sono vicini di porta, hanno mille interrogativi su Dio, sulla Chiesa, sul dolore innocente di tanti bambini, sulle tante ingiustizie che colpiscono l'umanità.
Il cristiano, con il suo comportamento e con le sue parole umili e rispettose, deve essere luce per tanti fratelli, conducendoli alla conoscenza della verità. Ognuno di noi, con un minimo di preparazione, deve saper rispondere alle tante domande che cercano una soluzione convincente. Per far questo, prima di tutto dobbiamo assimilare bene il Vangelo, e, inoltre, dobbiamo leggere e approfondire il Catechismo della Chiesa Cattolica.
Tuttavia, questo «sia fatto con dolcezza e rispetto» (ivi). Non sarà certo per le nostre parole che tanti nostri fratelli troveranno la luce della verità, ma per l'umiltà, la carità e la mitezza che dimostreremo nei loro confronti. Una parola altezzosa, anche se veritiera, allontana da Dio; una parola umile penetra i cuori e conduce a salvezza.
San Pietro ci insegna a rispettare il nostro interlocutore, a non volersi imporre, a non pretendere di "spuntarla" ad ogni costo con verbosa arroganza. La missione è opera d'amore e deve essere animata dall'amore soprannaturale che dobbiamo portare verso il prossimo. I nostri fratelli si devono sentire amati, allora accoglieranno le nostre parole, anche se povere e disadorne.
Inevitabilmente, non incontreremo solo accoglienza e successo, ma anche chiusura e delusione. Il missionario deve mettere in conto tutto questo, pensando che è impossibile riscuotere sempre un buon esito. Spesso il missionario sarà incompreso, deriso e respinto. Ma, come ricorda san Pietro in questa seconda lettura, «se questa è infatti la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male» (1Pt 3,17).
L'esempio ce lo ha dato Gesù stesso «morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio» (1Pt 3,18); l'esempio ce lo hanno dato gli Apostoli, che hanno coronato un lungo e fruttuoso apostolato con la corona del martirio; l'esempio, infine, ce lo hanno dato i missionari in questi duemila anni di Cristianesimo, i quali hanno dovuto affrontare difficoltà di ogni genere, non esclusa la morte.
La risorsa del missionario è Cristo, «messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito» (1Pt 3,18). Partecipe del mistero della Croce, il missionario sarà anche partecipe del mistero della Risurrezione.
Dal Vangelo di oggi si può comprendere quella che deve essere l'anima del nostro apostolato. Il brano inizia con una frase molto bella e profonda: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti» (Gv 14,15). È una esigenza dell'amore: se amiamo il Signore, mettiamo volentieri in pratica la sua Volontà, anche quando ciò comporta sacrificio da parte nostra.
Quando si ama il Signore si sente il desiderio di mettersi al suo servizio, per farlo conoscere e amare da tutti. Ecco dunque la fonte dello zelo missionario: l'amore di Dio. Il Signore ci dice di essere suoi testimoni e, se lo amiamo realmente, ciò non ci sarà difficile. Se togliamo l'amore, la missione cade nel nulla e sarà impossibile l'osservanza di tutti gli altri Comandamenti.
Se amiamo, non siamo mai soli: il Signore ci dona il suo Spirito. Lo Spirito di verità che Gesù ha promesso ai suoi discepoli sostiene il missionario nelle difficoltà del compito a lui affidato. Egli deve dimorare in noi, deve agire in noi, e servirsi di noi per illuminare il mondo.
Da questo si capisce il primato della vita contemplativa rispetto a quella attiva. Non possiamo dare ciò che non abbiamo. Se saremo "imbevuti" di Dio, come una spugna gettata nell'acqua, allora potremo beneficare tanti nostri fratelli. La ricchezza di vita interiore traboccherà necessariamente in una vita missionaria piena di buoni frutti.
Chi ama il Signore osserva i suoi Comandamenti e «chi ama me – dice Gesù – sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui» (Gv 14,21). La missione deve essere una risposta a questo amore di Dio per noi. Gesù si manifesterà allora nella nostra vita e sarà il protagonista del nostro apostolato. Lasciamolo agire in noi: più saremo uniti a Lui per mezzo di una preghiera continua, tanto più Lui si manifesterà in noi e tanto più i nostri fratelli potranno "vedere" Dio nella nostra vita.
Chiediamo alla Vergine Maria la grazia di ottenere tutto questo, per la maggiore gloria di Dio e per il bene del prossimo.
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