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Il primo impatto fa pensare a uno scherzo. L'advertising compare così, tra i contenuti proposti da Facebook, come tanti, come fosse un profumo, una palestra a cui iscriversi, un prodotto da supermercato.
Ma qui il "prodotto" proposto è... un essere umano. La fotografia mostra un bimbo di pochi mesi sdraiato su un divano, jeans, sneakers, bretelle e occhiali da sole. Sulla destra un bollino con scritto: «A partire da 8.995 euro» e accanto: «Il tuo transfer embrionario in Italia. Garanzia di gravidanza e nascita». A questo punto qualunque persona abbia conservato un minimo di buon senso pensa ad un meme di cattivo gusto, a un fake, come si dice oggi, e invece no. Il contenuto esiste veramente ed è della pagina Fiv Milano, accompagnato da poche righe: «La tua clinica di eterologa in Lombardia. In un momento ancora così incerto abbiamo la soluzione per te. Fiv Milano non lascia soli e da oggi sarà possibile realizzare i transfer anche in Italia. La tranquillità di sapere che insieme a noi ce la farai». Sulla pagina Facebook collegata, nella presentazione, si legge: «Nuovo concetto di clinica di riproduzione assistita, un gruppo multidisciplinare di professionisti uniti ad un unico fine, raggiungere la tua maternità».
I DESIDERI DIVENTANO DIRITTI
Evidentemente il «nuovo concetto di clinica» prevede che un bambino possa essere pubblicizzato e soprattutto tariffato come fosse un prodotto in saldo. Con tanto di prezzo in promozione.
È il progresso, bellezza, dove i desideri diventano diritti. Il desiderio di avere un bambino come quello di non averlo, desiderio che passa sopra alla più indifesa delle vite, che adesso in Italia può essere eliminata con una pillola anche fuori dall'ospedale, a casa o in qualunque altro luogo si trovi la madre, in modo che quella vita sia la meno visibile possibile per la società intera, solo perché ha avuto la "sfortuna" di essere generata dentro il ventre di una donna che "non lo desidera", per i motivi più diversi. È sempre comunque il desiderio che ha la meglio, sia quando il bambino lo si vuole, sia quando non lo si vuole. Come se fosse appunto un prodotto, come se avesse un prezzo.
Non stupisce che qualche giorno fa il quotidiano britannico Times abbia pubblicato un articolo dal titolo «Possiamo e dobbiamo dare un prezzo alla vita umana», occhiello: «Questa pandemia ha messo a fuoco una questione che i cristiani da secoli ci spingono a eludere».
TUTTO POSSIBILE
Nell'articolo Matthew Parris sostiene che sia «del tutto possibile che, con il senno di poi, arriveremo a capire che le misure per controllare la diffusione del virus abbiano accorciato o terminato più vite nel lungo periodo di quante ne abbiano salvate nel breve periodo». Di fatto, secondo l'editorialista, tendiamo a far prevalere il nostro lato emotivo quando, più o meno inconsciamente, preferiamo salvare persone, anziane o fragili, che percepiamo in pericolo in questo momento, piuttosto che pensare ad una persona astratta che non conosciamo e che potrebbe aver bisogno di essere salvata domani. Secondo Parris questo di fatto costituisce il presupposto di un compromesso che siamo chiamati ad accettare, ovvero che le vite valgono in maniera diversa, e quindi anche... costano diversamente. Concetto che già oggi viene concretizzato nel modus operandi di diversi sistemi sanitari e che è diametralmente opposto a quello che pensa un cristiano, ovvero che la vita, qualunque vita, abbia un valore incommensurabile.
L'articolo è lungo e articolato, forse anche meno spietato di come può sembrare dal titolo, ma con un tocco cinico quel tanto che basta per farci comprendere che l'idea di dare un prezzo alla vita umana non solo non è fantascientifico, ma è molto più vicino alla realtà di quanto possa sembrare.
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