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Il 22 febbraio 2017 il Washington Post adottò per la prima volta un motto sotto la testata: «La democrazia muore nell'oscurità». In tanti ci hanno visto una risposta alle accuse che Donald Trump, presidente in carica da appena un mese, aveva cominciato a rivolgere ai «fake news media». Se riguardava davvero lui, lo slogan si può considerare un flop visto che le ultime elezioni presidenziali sono state le più partecipate degli ultimi 120 anni negli Stati Uniti. Ma è il motto in se stesso a sembrare ormai obsoleto: la realtà di questi giorni dimostra infatti che la democrazia può morire benissimo in pieno giorno, alla luce del sole, illuminata dalle telecamere di mezzo mondo.
LE LIBERTÀ CARPITE UNA DOPO L'ALTRA
Ieri tutti i deputati democratici di Hong Kong hanno deciso di dimettersi dal Parlamento. Lo hanno fatto per inscenare un'ultima, eclatante e disperata protesta contro un regime che, giorno dopo giorno, sopprime incontrastato una dopo l'altra le libertà dei cittadini. La legge sulla sicurezza nazionale, proprio come previsto, si è rivelata la pietra tombale sul modello "Un paese, due sistemi". Pechino aveva giurato, firmando un trattato internazionale con il Regno Unito, di lasciare «ampia autonomia» alla città fino al 2047. Invece dopo appena 13 anni dalla restituzione dell'isola, e con ben 27 d'anticipo sulla scadenza prevista, il Partito comunista cinese ha deciso di farsi beffe dello stato di diritto, instaurando la dittatura che già vige nella Cina continentale anche al di là del fiume Sham Chun.
Xi Jinping si è preso Hong Kong con la forza utilizzando, come nella migliore tradizione sovietica, una legge per scardinare tutte le altre. Violando tre o quattro articoli della Costituzione della città, Pechino ha imposto all'isola una norma che prevede pene fino all'ergastolo (da scontare in Cina) per chiunque osi anche solo contraddire il verbo del Partito comunista. In soli cinque mesi ha abolito di fatto la libertà di espressione e di insegnamento, di stampa e di assemblea, ha cancellato l'indipendenza della giustizia, ha proibito manifestazioni pacifiche, ha rinviato le elezioni, minacciato i cittadini desiderosi di scendere in politica per opporsi al governo, ha fatto espellere i primi deputati democratici, ha trascinato in tribunale gli attivisti, costretto all'esilio i dissidenti, ha fatto arrestare studenti e giornalisti, parlamentari e insegnanti, bambini e adulti, a volte solo per aver esposto un cartello bianco, senza scritte, simbolo della censura che vorrebbe ridurre al silenzio ogni coscienza.
LA LIBERTÀ A HONG KONG È MORTA
Ma il regime non ha fatto tutto questo di nascosto. Ormai si sente così forte e inattaccabile da agire alla luce del sole. E due giorni fa è davanti alle telecamere dei più importanti quotidiani del mondo che Wu Chi-wai, presidente del Partito democratico di Hong Kong, ha annunciato le dimissioni sue e di tutti i suoi colleghi, scegliendo parole drammatiche: «Negli ultimi sei anni abbiamo visto la Cina estendere il suo dominio progressivamente sulla nostra città e questo è il risultato. Per combattere contro un governo centrale autoritario, noi dobbiamo stare dalla parte della popolazione di Hong Kong e combattere per la democrazia nel lungo periodo. Oggi hanno squalificato i nostri colleghi senza alcuna ragione e la cosa peggiore è che la Costituzione di Hong Kong prevede la separazione dei poteri rispetto a Pechino e invece oggi abbiamo capito che il governo centrale vuole prenderseli tutti. Carrie Lam è solo una marionetta nelle mani di Pechino. Oggi è la fine del modello "Un paese, due sistemi". In questo periodo così incredibilmente difficile, non cederemo, combatteremo per la nostra democrazia».
Il regime è andato su tutte le furie per le dimissioni dei democratici, che hanno osato «sfidare» l'autorità cinese e rendere manifesta l'illegittimità di un Consiglio legislativo dove ormai siedono solo le «marionette» del governo. Pechino avrebbe preferito continuare ad agire indisturbato coperto da una parvenza di legalità. Ora anche l'ultimo paravento è stato tolto, la democrazia a Hong Kong è morta e l'annuncio funebre è stato dato in conferenza stampa. Ma con un'Unione Europea egoista e incapace di prendere posizione sulla scena internazionale e un'America troppo impegnata a farsi la guerra da sola, chi è disposto ad ascoltare il grido di Hong Kong?
Nota di BastaBugie: Leone Grotti nell'articolo seguente dal titolo "A Hong Kong ormai comanda la dittatura di Pechino" intervista Wu Chi-wai, presidente del Partito democratico della città di Hong Kong.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 16 novembre 2020:
Ci hanno messo «meno di dieci minuti» i parlamentari democratici di Hong Kong a prendere una delle decisioni «più difficili» della loro vita: dimettersi in massa dal Consiglio legislativo della città e lasciarlo interamente nelle mani dei deputati fedeli a Pechino. «Non avevamo altra scelta», spiega a tempi.it Wu Chi-wai, presidente dal 2016 del Partito democratico di Hong Kong. «Le regole del gioco sono cambiate, il modello "Un paese, due sistemi" è morto. Per continuare la nostra battaglia per la democrazia dobbiamo guardare ai paesi dell'Europa dell'est che hanno conosciuto la dittatura sovietica».
Perché avete deciso di dimettervi?
Il comitato permanente del Congresso nazionale del popolo [il "Parlamento" cinese, ndr] ha dato il potere al governo di Hong Kong di espellere qualunque parlamentare, in base a criteri soggettivi, dal Consiglio legislativo. Questa decisione, che viola la Basic Law, [la Costituzione di Hong Kong, ndr], ha cambiato completamente il panorama politico della città. Dimetterci era l'unico modo per protestare con forza contro il governo centrale.
Quando un parlamentare può essere espulso?
Sostanzialmente chiunque cerchi di opporsi a una decisione del governo centrale può essere espulso. Ormai bisogna scegliere tra obbedire a Pechino ed essere cacciati. La governatrice Carrie Lam può sbarazzarsi di qualunque parlamentare, se non le va a genio. Come si può fare opposizione a queste condizioni?
Carrie Lam non dovrebbe difendere l'autonomia della sua città?
Certo che dovrebbe, ma ha abdicato alle sue funzioni e ha capitolato completamente davanti a Pechino. Già nel 2014, quando era a capo della task force per lo sviluppo costituzionale della città, non ha protestato davanti alla decisione del governo cinese di non concedere, come promesso in precedenza, il suffragio universale alla città. Da governatrice, poi, ha cercato di introdurre la legge sull'estradizione e ha ignorato la voce del popolo, sceso in massa in piazza a protestare. Ormai a Hong Kong vige uno stato di polizia, secondo i sondaggi la popolazione non si fida più delle forze dell'ordine. Di chi è la colpa? Di Carrie Lam, che ha distrutto la città. Ormai è solo una marionetta nelle mani di Pechino.
Perché sostiene che il modello "Un paese, due sistemi" «è morto»?
La Costituzione di Hong Kong prevede la separazione del potere esecutivo e legislativo, l'articolo 73 poi prevede un sistema di pesi e contrappesi perché l'azione del governo venga controllata. Ora invece il governo può espellere i parlamentari se questi non appoggiano Pechino. Così cambia completamente la struttura politica di Hong Kong e il senso stesso dell'azione politica, che si basa sul mandato popolare.
Come si è arrivati a questo punto?
Con l'introduzione a luglio della legge sulla sicurezza nazionale la legge di Pechino ha preso il sopravvento su quella di Hong Kong, mettendo fine allo stato di diritto. Il nostro sistema non è più diverso da quello della Cina continentale. Tutto è stato distrutto.
Che valore avrà d'ora in poi il Consiglio legislativo a Hong Kong?
Non molto diverso da quello che ha in Cina. Senza opposizione, restano soltanto i deputati che obbediscono a Pechino. Agiranno in base agli ordini che ricevono e per entrare in Parlamento dovrai essere fedele al governo centrale. Non è più un Parlamento, è una marionetta.
Qualcuno vi obietterà che dimettendovi non otterrete niente, mentre lascerete campo libero a Pechino.
Hanno espulso quattro parlamentari. Si trattava solo di una questione di tempo prima che arrivassero a tutti noi. La verità è che avevamo un potere davvero limitato, il governo non ci permetteva di fare nulla. Quando hanno cominciato a espellerci abbiamo capito che non aveva più senso combattere per la democrazia in Parlamento. Dovevamo unire le forze e concentrarle su altri obiettivi. È stato difficile, ma ci abbiamo messo meno di dieci minuti a prendere la decisione.
Il vostro è stato quindi un atto simbolico?
Sì, volevamo attaccare frontalmente il governo centrale. Proseguiremo la nostra battaglia per la democrazia, ma con altri mezzi.
Questo significa che se mai ci saranno nuove elezioni, e i dubbi rimangono visto che le ultime sono state rinviate a data da destinarsi, non parteciperete?
Dobbiamo parlarne, di sicuro fare politica non avrà più lo stesso significato di prima. Partecipare alle elezioni potrebbe però essere ancora un modo per dare la possibilità ai cittadini di esprimersi contro il governo. Sarebbe come un referendum contro chi ci ha derubato dei nostri valori e principi.
Qual è la conseguenza più grave della legge sulla sicurezza nazionale?
Oggi chiunque può essere arrestato a Hong Kong e processato solo perché non piace a Pechino. Ma la cosa più grave è che può essere processato e incarcerato nella Cina continentale. Questa è la cosa peggiore per noi: la popolazione soffrirà molto per questo motivo. Hong Kong ormai non è più governata dalla Costituzione, ma dalla legge cinese.
C'è ancora speranza per il futuro di Hong Kong?
Io credo di sì. Dobbiamo continuare a combattere per la democrazia e prendere ad esempio i paesi dell'Europa dell'Est che sono vissuti per 40 sotto la dittatura sovietica. Sappiamo che ci vorrà molto tempo, ma siamo determinati a resistere. E alla fine, un giorno, vinceremo noi.
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