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CINQUE MOTIVI PER CUI L'ECONOMIA VERDE E' UN GRANDE IMBROGLIO
di Paolo Togni
 

La spinta assai propagandata alle modifiche dei sistemi economici, nazionali ed internazionali, giustificata con la necessità di muovere verso una "economia verde" è un fatto. Ma che significa "economia verde"? Quali conseguenze deriverebbero dal perseguire questo obiettivo? Il discorso è abbastanza complesso, ma vale la pena mettere in rilievo alcuni punti fermi.
1. Muoversi verso l'"economia verde" significa innanzitutto convertire il sistema energetico, producendo una notevole percentuale dell'energia necessaria da fonti rinnovabili; diminuire drasticamente i consumi; rinunziare ai prodotti provenienti da lontano; trasformare la struttura produttiva energetica, attualmente accentrata in pochi grandi impianti, in una struttura distribuita, nella quale le singole comunità possano produrre ed utilizzare l'energia della quale hanno necessità. Prospettiva anche accattivante, nella quale le comunità di base acquisterebbero una maggiore autonomia e potrebbero porre le basi per una vita più semplice.
Peccato che questo possa avvenire solo al prezzo di un obbligato ritorno all'economia curtense che caratterizzò il primo medioevo, ed ai relativi livelli di benessere materiale. Da quell'epoca un rapido miglioramento quali-quantitativo delle produzioni e degli scambi ha garantito un innalzamento senza precedenti delle condizioni di vita degli uomini,  fondato sulla progressiva crescita dei centri di produzione e dei trasporti, che nell'ottica "verde" dovrebbero essere pressoché azzerati.
Mi sembra difficile, oltretutto in assenza di certezze sugli esiti positivi di questo processo, che intorno alla prospettiva descritta possa raccogliersi il consenso di masse significative di cittadini: oltretutto un forte aumento della mortalità infantile e l’abbassamento drastico delle aspettative di vita ne sarebbero conseguenza inevitabile.
Nonostante ogni indicazione derivante dal buon senso insito in quanto scritto sopra c’è un gruppo di persone che seguitano a pontificare e trovare udienza, e vengono considerate oracoli dalle teste deboli di tutto il mondo. Posso citare tra questi Jeremy Rifkin e Amartya Sen, che vanno imperversando su televisioni e giornali di tutto il mondo, e vengono citati da personaggi di tutti gli schieramenti politici: ma che volete farci, l’imbecillità e l’ignoranza non hanno casa, e sono trasversali.
2. Anche l'economia ha sue leggi inderogabili che inevitabilmente giungono ad effetto: la prima è che non è possibile ripartire ciò che non è stato prodotto:  la priorità nel circuito economico è indiscutibilmente della produzione, e ad essa, prima e più che alle fasi dell'uso sociale, della ripartizione e dell'attivazione del flusso della spesa pubblica, va riservata ogni cura per garantire che sia adeguata alle attese di benessere presenti nel tessuto sociale, e costantemente crescente in produttività. Secondo il Vangelo, lo stesso Nostro Signore Gesù Cristo, prima di poter distribuire ai fedeli pani e pesci, dovette moltiplicarli,  confermando nei fatti la priorità della produzione. Sono molti coloro che non hanno chiaro questo concetto, e invertono le priorità: ma il dividere ciò che non è stato prodotto, cioè nulla, non porta benefici a nessuno.
Si aumenta la ricchezza di una società solo se si generano, tramite il lavoro, materiale o intellettuale che sia, beni prima non esistenti, o esistenti in forma non immediatamente fruibile. È corollario evidente di questa affermazione che il processo di produzione deve essere organizzato in modo tale che i beni o le risorse prodotte abbiano un valore superiore alla somma del valore dei beni e delle risorse impiegati a produrli, altrimenti si ha distruzione - non creazione - di ricchezza. Questa regola accetta un'eccezione nel caso, che deve essere previamente conosciuto e accettato per scelta cosciente, in cui si ritenga utile all'interesse generale avviare un determinato tipo di produzione o di attività: in questo caso può essere accettato un sacrificio immediato in vista di un maggiore beneficio futuro.
Quanto sopra si realizza, necessariamente ed esclusivamente,  in una libertà di concorrenza tra quanti intendano intraprendere un processo produttivo, tutelata ferreamente e senza eccezioni, determinando e mantenendo una situazione di parità; condizione questa che, a sua volta, postula l'esistenza di un notevole livello di libertà, non solo sul piano economico. Vale la pena di ricordare che la libertà esiste non in quanto garantita, ma in quanto esercitata: la costituzione dell'URSS, che formalmente garantiva tutte le libertà, era in effetti la maschera dietro la quale si celava il regime più sanguinario, illiberale e tirannico mai conosciuto nella storia dell'umanità.
3. Da questo punto di vista  non è affatto sana la cosiddetta “economia verde”, che costituisce un vero e proprio imbroglio concettuale ed una truffa a danno dei cittadini e della comunità nazionale. Infatti non può dichiararsi  fattore di sviluppo il fare ricorso ad energia proveniente da fonti rinnovabili, se non si dice chiaramente che tale energia costa sei volte (l’eolica) o sessanta volte (la fotovoltaica)  di più dell’energia prodotta da sistemi a combustione interna, e dieci o cento volte più di quella da nucleare. Onestà vorrebbe che tali dati fossero dichiarati, e che si motivasse l’eventuale decisione di privilegiare le rinnovabili con motivazioni ambientali,  ammettendone il costo e consentendo ai cittadini di valutare l’opportunità della spesa a ragion veduta.
4. Ma gli equivoci dell’economia verde non si fermano qui, anzi si aggravano se si parla di occupazione. Dire che la trasformazione del sistema economico secondo principi verdi determinerà un aumento di posti di lavoro non è falso, è semplicemente la prima parte della verità: la seconda, e mancante, è quella riguardante il costo di questi posti, che va conteggiato nella spesa pubblica, e quindi posto a carico di tutti i cittadini, perché non determinano produzione, ma distruzione di ricchezza.
I più anziani ricorderanno che nell’ultimo dopoguerra furono istituiti i cosiddetti “cantieri di lavoro”, nei quali si pagavano degli operai perché facessero dei lavori inutili; in tal modo, a carico dello Stato, si offriva una forma di aiuto agli strati più deboli della popolazione. Ciò avveniva in un momento nel quale la produzione non era ancora ripresa, e le necessità erano molte e diffuse.
Ed oggi? Oggi abbracciare l’”economia verde” significa solo produrre meno, pagando in compenso prezzi più alti. Potrebbe essere una scelta da fare per ottenere (forse) una migliore qualità dell’ambiente, ma i mentori dell’economia verde non ci prendano in giro parlando di nuovo sviluppo e di rilancio.
5. Una questione non marginale è anche la frustrazione tipica degli economisti. Il motivo è semplice: sono sicuri di avere nella loro testa la soluzione di tutti i problemi del mondo, e di essere quindi i più qualificati per governarlo, e invece solo a pochissimi di loro è concesso di entrare nelle stanze dei bottoni, e per lo più non per gestire le cose, ma per dare suggerimenti che spesso non vengono ascoltati. Questo stato di cose genera in loro una propensione a suggerire soluzioni nelle quali l’intervento dello stato sia significativo: ciò permetterebbe loro, in quanto consiglieri del principe, di avere le mani in pasta almeno un po’. Molto spesso, nell’ansia di raggiungere questo obiettivo, giungono perfino a dimenticare dati essenziali ed evidenti dei problemi che si candidano a risolvere.
Proprio questo sta succedendo a proposito di “economia verde”: vengono trascurati dati (dis)economici evidenti per prospettare soluzioni miracolistiche a problemi seri che stiamo attraversando.
Probabilmente alla base di tutto questo sia anche il maledetto contagio che le idee socialiste hanno sparso nel mondo, e che, a vent’anni dal giorno benedetto in cui Giovanni Paolo II e Ronald Reagan hanno fatto crollare le strutture materiali che ne costituivano l’attuazione concreta, seguita ad esercitare la sua fetida influenza sulle menti poco o male strutturate. Eppure dovrebbe essere chiaro a tutti che un’economia comunque diretta dallo stato significa, senza eccezioni, fallimento e disastro.
A proposito di stato imprenditore credo di poter riprendere le  esemplari parole di Giuseppe Togni, Ministro per il coordinamento delle attività economiche del Governo nel 1947, che ne definiva le condizioni di accettabilità: “… una gestione a sfondo privatistico che implichi la necessità di quadratura dei bilanci, di determinazione di utili … continuo confronto di gestione tra le aziende di Stato e le aziende di proprietà privata; … minore tentazione di ricorrere a particolari privilegi e sottrarsi ad oneri fiscali …”. Chiarezza e distinzione di ruoli, quindi: senza le quali sono assicurati l’insuccesso e il tracollo.
L’”economia verde” è proprio una forma di economia di stato, aggravata dal fatto che non sono neanche soggetti pubblici a gestirla, ma amici e amici degli amici. Per esempio, affidare a un soggetto composto da imprese interessate la redazione di un piano di settore che dovrà essere adottato dalla Pubblica Amministrazione, non è una furbizia, ma una sciocchezza e una scorrettezza.

 
Fonte: Svipop, 25-6-2009