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Il 26 marzo 2009 sarà ricordata come una giornata nera per la libertà di manifestazione del pensiero. In quella data il Consiglio ONU per i diritti umani, con sede a Ginevra, ha approvato, infatti, la risoluzione n° 62/154 intitolata “Combattere la diffamazione delle religioni”. In realtà il documento, presentato su istanza del Pakistan dall’Organizzazione della Conferenza Islamica, tutela esclusivamente la religione musulmana, incoraggiando, di fatto, l’imposizione della sharī’a anche nei Paesi occidentali e rendendo più difficile la denuncia delle violazioni dei diritti umani commesse in nome della jihad. Chiunque criticherà l’Islam sarà dunque passibile di azione legale.
Il testo della risoluzione richiama il documento programmatico della conferenza di Durban (2001), accolta come «un solido fondamento per l’eliminazione di ogni manifestazione di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e relative intolleranze». Successivamente, però, viene stigmatizzata «la proiezione negativa di certe religioni da parte dei media» e vengono condannate «le leggi e le misure amministrative» che, secondo l’Onu, discriminano «in modo particolare le minoranze musulmane a seguito degli eventi dell’11 settembre 2001 e minacciano di impedire il pieno esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali».
La risoluzione impone dunque «la necessità di combattere la diffamazione di tutte le religioni e l’incitamento all’odio religioso in generale e contro l’Islam e i Musulmani in particolare». La risoluzione è passata con 23 voti a favore, 11 contrari e 13 astensioni. Tale approvazione, in virtù della sola citazione dell’Islam, ha suscitato «profonda preoccupazione» presso la Santa Sede, secondo quanto riferito a Radio Vaticana da mons. Silvano Tommasi, osservatore permanente vaticano presso l’ufficio ONU di Ginevra.
Secondo il rappresentante pontificio, «se si comincia ad aprire la porta ad un concetto di diffamazione che si applica alle idee, poi, in qualche modo, lo Stato entra a decidere quando si è diffamata una religione o no, e questo, alla fine, tocca la libertà religiosa».
Infatti, come ha ricordato il presule, «il riconoscimento giuridico del concetto astratto di diffamazione della religione può essere utilizzato per giustificare le leggi contro la blasfemia, che sappiamo bene come in alcuni Stati siano utilizzate per attaccare minoranze religiose, in maniera anche violenta».
Mons. Tommasi ha poi confermato che sono più di 200 milioni i cristiani – cattolici e non – che «si trovano in situazioni di difficoltà, perché ci sono delle strutture legali o delle culture pubbliche che portano, in qualche modo, ad una certa discriminazione nei loro riguardi». Pertanto, «la comunità cristiana è la più minacciata al mondo», ha aggiunto il rappresentante diplomatico vaticano.
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