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Dal 1° settembre, a Pechino, entreranno in vigore 76 nuove Misure finalizzate a rafforzare il controllo del governo cinese sulle attività religiose. Si tratta di un ulteriore giro di vite che ha lo scopo reprimere il "sottobosco" delle organizzazioni religiose riluttanti a farsi risucchiare dal "mercato rosso" delle religioni ufficiali in Cina, ovvero le cinque associazioni permesse dal Partito Comunista Cinese, il quale ne nomina pure i responsabili: l'associazione buddista, l'associazione taoista, l'associazione musulmana, l'associazione protestante (la Chiesa delle Tre Autonomie) e l'associazione cattolica (l'Associazione patriottica cattolica cinese)
Di più, le nuove misure convertiranno i luoghi di culto in veri e propri rami del sistema di propaganda del Partito Comunista Cinese, come riporta Bitter Winter. Infatti, queste Disposizioni sostituiscono quelle del 2005 e confermano che i luoghi in cui si svolgono le attività religiose (monasteri, templi, moschee e chiese) dovranno trasmettere attivamente la propaganda del Partito Comunista Cinese, altrimenti rischieranno la liquidazione. Sono state stabilite disposizioni più severe per includere contenuti di propaganda addirittura nei sermoni e per creare gruppi di studio che si formino sui documenti del Partito Comunista Cinese in tutti i luoghi di culto. Viene inoltre sottolineato che «è vietato costruire grandi statue religiose all'aperto al di fuori di templi e chiese» e il divieto vale anche per privati cittadini o donatori.
Di fatto tutto questo si configura come l'ennesimo tentativo di uniformare il credo dei cittadini alla propaganda di Stato, anche se nell' Articolo 1 si ha il coraggio di affermare «Queste misure sono formulate [...] per proteggere le normali attività religiose e salvaguardare i diritti e gli interessi legittimi dei luoghi di culto e dei cittadini credenti». Lo spirito liberticida che pervade queste norme emerge bene dall'Articolo 3, in cui si legge «I luoghi in cui si svolgono le attività religiose devono sostenere la leadership del Partito Comunista Cinese e del sistema socialista, attuare completamente l'ideologia del socialismo di Xi Jinping con caratteristiche cinesi per la nuova era, rispettare la Costituzione, le leggi, le norme e i regolamenti e le disposizioni pertinenti la gestione degli affari religiosi, praticare i valori fondamentali del socialismo, aderire alla direzione della sinicizzazione delle religioni cinesi, aderire al principio di indipendenza, autonomia e autosufficienza e salvaguardare l'unità del paese, l'unità nazionale, l'armonia religiosa e la stabilità sociale».
Ovviamente anche gli insegnanti di religione dovranno adeguarsi all'ideologia del Partito: nell' Articolo 6 si legge che nei luoghi di culto «vi è un insegnante di religione che deve presiedere alle attività religiose in conformità con le norme e i regolamenti del gruppo religioso nazionale». Dopo aver stabilito a chiare lettere, nelle prime disposizioni, il totale subordinamento delle attività religiose al regime di Pechino, nelle norme successive, vengono fornite una serie di indicazioni burocratiche minuziose riguardo i luoghi di culto: all' Articolo 66 si specifica, ad esempio, che «il Dipartimento degli affari religiosi deve supervisionare e ispezionare i luoghi in cui si volgono le attività religiose in termini di conformità alle leggi».
Insomma, l'ennesimo sistema creato ad hoc che costringa le comunità religiose a far passare tutte le loro iniziative al vaglio del regime di Pechino. Un sistema di cui il Dipartimento per gli affari religiosi rappresenta la longa manus con il suo controllo continuo, fatto passare per "assistenza e supervisione". In soldoni, non c'è scampo per chi non si adegui al regime. Anzi questo forse rappresenta il vero e proprio colpo di grazia alla libertà religiosa in Cina.
Nota di BastaBugie: Riccardo Cascioli nell'articolo seguente dal titolo "Nuovo vescovo a Shanghai, in Cina decide solo il Partito comunista" parla della nomina a vescovo di Shanghai che è stata presa senza il consenso della Santa Sede, in violazione dell'Accordo del 2018.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 6 aprile 2023:
La Cina decide e la Santa Sede abbozza. È ormai questa la trama dei rapporti tra Pechino e Vaticano da quando nel 2018 è stato firmato l’accordo segreto sulla nomina dei vescovi. E l’ennesima conferma è arrivata in questi giorni con la nomina del nuovo vescovo di Shanghai, monsignor Giuseppe Shen Bin, decisa dal regime attraverso la voce del Consiglio dei vescovi cinesi (la Conferenza episcopale non riconosciuta dalla Santa Sede), di cui lo stesso Shen Bin è presidente. L’ingresso in diocesi è avvenuto il 4 aprile e i preti erano stati invitati alla celebrazione senza rivelare il nome del prescelto, mentre la Santa Sede - come afferma un comunicato vaticano - era stata informata della decisione solo pochi giorni prima e ha saputo dell’insediamento solo a cose fatte e dai media internazionali.
Shanghai è una sede episcopale importantissima per la Chiesa cinese, qui c’era la comunità cattolica più vivace quando i comunisti arrivarono al potere alla fine degli anni ’40 e qui c’è stata immediatamente la repressione più dura. Arcivescovo titolare di Shanghai era allora il cardinale Ignazio Kung Pin-mei, figura eccezionale del cattolicesimo, che fu arrestato nel 1955 e rilasciato solo dopo 30 anni di carcere per poi essere esiliato negli Stati Uniti, dove morì nel 2000. Fu creato cardinale “in pectore” da Giovanni Paolo II nel suo primo Concistoro nel 1979 e ricevette la porpora nel 1991.
Nel territorio della diocesi c’è anche il santuario nazionale mariano di Nostra Signora di Sheshan, a cui Benedetto XVI chiese di rivolgersi nella Giornata di preghiera per la Chiesa in Cina istituita nel 2007 e ricorre ogni anno il 24 maggio.
La sede di Shanghai era vacante dal 2013, quando morì monsignor Aloysius Jin Luxian, vescovo patriottico che solo nel 2005 chiese e ottenne di tornare nella piena comunione con il Papa. L’anno prima, nel 2012, la Santa Sede - con il consenso di Pechino, aveva nominato come vescovo ausiliare monsignor Taddeo Ma Doqin, ma subito dopo l’ordinazione fu posto agli arresti domiciliari per aver manifestato l’intenzione di dimettersi dall’Associazione Patriottica della Chiesa cattolica, l’organismo con cui il regime comunista guida le attività della Chiesa. Da allora monsignor Ma Doqin è confinato a Sheshan, anche se poi è tornato sui suoi passi riguardo al rapporto con l’Associazione patriottica. In ogni caso i fedeli di Shanghai si aspettavano che fosse lui a essere nominato arcivescovo della diocesi.
Ma l’elemento più importante è certamente il fatto che il regime cinese abbia preso la decisione senza consultare la Santa Sede, una chiara intenzione di riaffermare il proprio potere che non può essere limitato da nessuno, men che meno da quella che viene percepita come una potenza straniera. Era già successo pochi mesi fa, novembre 2022, poche settimane dopo il rinnovo dell’accordo sino-vaticano, quando monsignor Giovanni Peng Weizhao, dal 2014 vescovo di Yujiang, è stato nominato dal regime cinese come vescovo ausiliare della diocesi dello Jiangxi, un raggruppamento di cinque diocesi non riconosciuto dalla Santa Sede.
Allora dal Vaticano arrivò una nota di protesta, a cui però non c’è stato seguito. In questo caso invece la Sala Stampa della Santa Sede ha detto che non ci sono dichiarazioni riguardo alla valutazione dell’accaduto. È però facile prevedere che prevarrà ancora una volta la volontà di mantenere l’accordo inalterato non alzando i toni e accettando il fatto compiuto.
Lo dimostra l’immediato intervento dei “pompieri” - intellettuali, giornalisti e movimenti grandi sponsor dell’accordo con il regime cinese - sempre pronti a giustificare Pechino. Ne è un esempio l’analisi di Agostino Giovagnoli, docente di Storia Contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore ed esponente di spicco della Comunità di Sant’Egidio, pubblicata da Avvenire. Pur (delicatamente) rimproverando a Pechino l’incapacità di cogliere la «natura universale propria della Chiesa», tende a minimizzare la gravità della decisione di Pechino notando anzitutto che nel caso di Shen Bin si tratta di uno spostamento da una diocesi all’altra e non di una nuova ordinazione. Monsignor Shen Bin era infatti vescovo dal 2010 - nominato dalla Santa Sede con il consenso di Pechino - di Haimen (Jiangsu): «Nulla a che vedere, dunque, con le tante ordinazioni illegittime che ci sono state in Cina dal 1958 al 2018».
Il che è vero, ma non si può far finta di non sapere che anche la destinazione è parte dell’ordinazione, quindi anche gli spostamenti da una diocesi all’altra sono prerogativa del Papa e quindi devono essere necessariamente parte integrante dell’Accordo. Poi riferendosi al caso di monsignor Ma Daqin ricorda che questi era stato nominato vescovo ausiliare di Shanghai e non coadiutore con diritto di successione, perciò «la nomina del nuovo vescovo a Shanghai non è in contrasto con le leggi della Chiesa».
Infine si sottolinea i ruoli importanti in patria e il profilo internazionale di monsignor Shen Bin (certo, ha partecipato agli incontri promossi dalla Comunità di Sant’Egidio) per sostenere che si tratta di una scelta positiva per «risolvere la complicata situazione di Shanghai», che è nell’interesse sia della Cina che della Santa Sede. Il fatto che nel discorso d’insediamento abbia insistito sulla necessità di portare avanti la «sinicizzazione della Chiesa», secondo le direttive del capo supremo Xi Jinping, viene appena sfiorato.
In ogni caso, quella che appare evidente è l’ostentazione del regime cinese nel mostrarsi al di sopra di qualsiasi altra entità, accordi o non accordi. Un messaggio che deve essere chiaro anzitutto per i cattolici cinesi, che vedono ancora una volta il Partito Comunista decidere sulla vita della Chiesa, con la Santa Sede accettare in silenzio questi soprusi. A oltre quattro anni dall’entrata in vigore degli Accordi Cina-Vaticano, la situazione per i cattolici cinesi è decisamente peggiorata.
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