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Un primo chiarimento all'articolo "Delusi da Roma, ma seguire i lefebvriani non è la soluzione" è d'obbligo. Allorché si afferma la prerogativa esclusiva del Papa di nominare un vescovo, non si intende che spetti direttamente al Papa eleggere un vescovo. La modalità elettiva ha conosciuto e conosce concretizzazioni diverse: elezione del candidato da parte di un Sinodo (per le chiese orientali), del Capitolo cattedrale, presentazione di una terna da parte di una Conferenza episcopale, etc.
Quello che rimane sempre fermo e non derogabile è il diritto del Papa di nominarlo e concedere il mandatum apostolicum, senza il quale la consacrazione, pur essendo valida, risulta illegittima. Nessun vescovo può essere consacrato contro la volontà del Papa, né può esercitare il suo ministero se il Papa non ne accetta la consacrazione, unendolo in tal modo al Collegio dei vescovi. Ora, nel caso di mons. Lefebvre, Giovanni Paolo II aveva esplicitamente rifiutato di conferire il mandatum ‒ e spiace davvero che, all'inizio del rito consacratorio, l'allora Superiore della FSSPX, l'abbé Franz Schmidberger, avesse invece confermato di avere il mandatum apostolicum. Inoltre, una volta avvenute le consacrazioni, lo stesso Papa non ha accolto questi vescovi nel Collegio.
Nemmeno si può invocare l'analogia con i vescovi ausiliari: i quattro vescovi consacrati nel 1988 non sono ausiliari, in quanto mons. Lefebvre non era un Ordinario; né la FSSPX aveva alcun diritto di incardinare i propri membri sacerdoti (ordinati illecitamente). E se pure li si considerasse arbitrariamente tali, si deve ricordare che anche i vescovi ausiliari devono essere nominati (non eletti!) dal Papa, necessitano del mandatum apostolicum e devono essere confermati dalla Sede apostolica.
Si è visto come la revoca delle scomuniche da parte di Benedetto XVI non abbia comportato alcun cambiamento quanto alla situazione scismatica. Ma, scisma o non scisma, un altro punto fondamentale da comprendere è che i sacerdoti della FSSPX esercitano un ministero illegittimo.
Proprio quel Papa che aveva deciso di rimettere la più grave sanzione canonica ai quattro vescovi consacrati da mons. Lefebvre, aveva anche spiegato che «finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri - anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica - non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa».
Si tratta di una mera questione disciplinare? Di una semplice "irregolarità canonica"?
LA STRUTTURA GIURIDICA DELLA CHIESA
La Chiesa cattolica insegna che per esercitare legittimamente il proprio ministero, il clero dev'essere parte della struttura giuridica della Chiesa; non è sufficiente un'ordinazione valida, ma è necessario ricevere una missione giuridica, da parte del Papa per i vescovi, e da parte dell'Ordinario per i sacerdoti e i diaconi (incardinazione). Per evitare fraintendimenti, sottolineiamo subito che non si tratta di semplici questioni di diritto ecclesiastico: alla base c'è la dottrina sulla Chiesa, un'ecclesiologia, che si distingue nettamente da quella protestante, proprio perché afferma la necessità di essere parte della Chiesa cattolica visibile, mediante il triplice vincolo della vera fede, dei veri sacramenti e della sottomissione alle legittime autorità. L'appartenenza alla struttura giuridica della Chiesa è requisito necessario e per il clero si traduce nel fatto di ricevere una missione canonica da parte delle legittime autorità.
Di nuovo, non è una questione puramente "formale", se con questo termine si intende qualcosa di non essenziale; è il Concilio di Trento, nei canoni sul sacramento dell'Ordine, a colpire con l'anatema quanti affermano che «quelli che, senza essere stati regolarmente ordinati o inviati (rite ordinati nec missi sunt) dall'autorità ecclesiastica e canonica, ma provenendo da altri, sono legittimi ministri della parola e dei sacramenti» (Denz. 1777). Dunque è questione di fede e non di semplice disciplina; o, meglio, di quella disciplina che nasce dalla retta fede.
Pio XII, nella Mystici Corporis, spiegava il senso profondo della dimensione giuridica della Chiesa. Parlando del «modo con cui Gesù Cristo vuole che l'abbondanza dei suoi doni dalla propria divina pienezza affluisca nella Chiesa», sottolineava che la Chiesa dev'essere intesa «secondo tutto il suo modo di vivere, quello visibile e quello invisibile». Questa visibilità della Chiesa si connette con la sua struttura giuridica, da cui deriva la missione giuridica. Per questo, Pio XII poté affermare che è «in virtù di quella missione giuridica per la quale il divin Redentore mandò nel mondo gli Apostoli come egli stesso era stato mandato dal Padre (cfr. Gv 17, 18; 20, 21)», che nella vita della Chiesa è Cristo stesso «che battezza, insegna, governa, assolve, lega, offre, sacrifica, per mezzo della Chiesa».
Come si può notare, l'elemento giuridico è tutt'altro che secondario e discutibile: esso appartiene alla costituzione stessa della Chiesa, così come Cristo l'ha voluta, e connette la gerarchia con la missione che Egli ha ricevuto dal Padre: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21). I successori degli Apostoli devono, come gli Apostoli stessi, ricevere questa missione da Cristo, a cui «è stato dato ogni potere in cielo e in terra» (Mt 28, 18). Senza quell'«andate dunque e ammaestrate...» (Mt 28, 19), ricevuto da Cristo per mezzo del suo Vicario in terra, nessuno può esercitare alcun legittimo ministero. Nella Chiesa cattolica si può trasmettere solo se prima si ha ricevuto; un vescovo non può "mandare" i suoi sacerdoti se a sua volta non è stato "mandato" dal Papa, né tanto meno un vescovo o un sacerdote possono inviare se stessi.
NEL CUORE DELLA CHIESA
Si comprende che qui siamo nel cuore della Chiesa, nel cuore della sua unità: la sua natura giuridica e la missione giuridica sono strettamente collegate e sono inseparabili. Se si colpisce la seconda, se la si ignora, se la si disattende inevitabilmente si colpisce la natura stessa della Chiesa, perché la Chiesa di Cristo è la Chiesa cattolica visibile, e riconoscibile proprio grazie agli elementi visibili che scaturiscono dalla natura giuridica.
Ora, la FSSPX, dalla sua soppressione nel 1975, non ha alcuna realtà giuridica nella Chiesa cattolica. I suoi sacerdoti non sono incardinati e i suoi vescovi non hanno alcuna missione canonica. È per questa ragione che il loro ministero rimane illegittimo. Nella visione cattolica, non basta che i sacramenti siano validi: devono essere anche legittimamente amministrati.
Qualcuno potrà sollevare l'obiezione che queste siano tutte considerazioni ormai inutili, dal momento che papa Francesco ha concesso loro la giurisdizione per il sacramento della Penitenza e l'autorizzazione agli Ordinari «perché possano concedere anche licenze per la celebrazione di matrimoni dei fedeli che seguono l'attività pastorale della Fraternità» (la delega è concessa ad un sacerdote della diocesi e, solo dove ciò non sia possibile, direttamente ad sacerdote della FSSPX).
Iniziamo con la cosa più evidente: se il Papa ha concesso queste autorizzazioni «in modo da assicurare la validità e la liceità del sacramento da loro amministrato e non lasciare nell'inquietudine le persone», lo ha fatto perché senza queste autorizzazioni i due sacramenti non sono validi. Con questo atto, il Papa non ha riconosciuto la validità di quei sacramenti fino ad allora amministrati, ma li ha resi validi; anteriormente al 27 marzo 2017, non lo erano. Purtroppo. La FSSPX, di nuovo, ha usurpato un diritto che appartiene solo al Papa e all'Ordinario, "prendendosi" la giurisdizione per le confessioni e le deleghe per assistere ai matrimoni, giurisdizione che nessuna legittima autorità ha dato loro.
In secondo luogo, facciamo notare che ritenere che la discutibile decisione di papa Francesco significhi che la FSSPX non sia più in scisma o che i suoi sacerdoti possano esercitare legittimamente il loro ministero (e dunque che i fedeli vi possano ricorrere) è del tutto errato. Che si condivida o meno la decisione del Papa, la Chiesa può dare facoltà per singoli sacramenti anche a sacerdoti scismatici in situazioni particolari, per il bene delle anime. Questo è evidente nel can. 844 §2, dove si riconosce la validità del sacramento della Penitenza da parte dei ministri delle chiese orientali non in comunione con la Chiesa cattolica. Il che significa che il Papa ha concesso a questi sacerdoti giurisdizione per questo sacramento, che altrimenti sarebbe invalido (ricordo che la Penitenza e il Matrimonio sono gli unici due sacramenti che per essere validi, devono anche essere legittimamente amministrati).
Questa decisione del Papa ha certamente creato molta confusione; ma rimane il fatto che egli ha la potestà di conferire giurisdizione per ascoltare le confessioni anche a sacerdoti non in comunione con la Chiesa, senza che questo atto comporti che allora quei sacerdoti rientrino nella comunione con la Chiesa. La Chiesa, per esempio, conferisce la facoltà di assolvere anche ad un sacerdote dimesso dallo stato clericale qualora si trovi di fronte ad un morente che non può ricorrere ad un sacerdote legittimo; e va da sé che questo non significa che questi possa conferire lecitamente anche gli altri sacramenti. E dunque anche il ministero dei FSSPX, eccettuati questi due sacramenti (con la precisazione sul matrimonio di cui sopra), rimane illegittimo, per volontà della stessa Fraternità che ha sempre rifiutato la regolarizzazione canonica.
Nota di BastaBugie: l'autrice del precedente articolo, Luisella Scrosati, nell'articolo seguente dal titolo "Lo stato di necessità da solo non legittima la FSSPX" spiega che la scusa invocata dai sacerdoti "lefebvriani" al sostegno del proprio ministero non vale in quanto esso è privo di missio canonica.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 22 agosto 2023:
Allorché si ragiona sulla situazione canonica della FSSPX, è necessario tenere sempre presente sullo sfondo alcuni essenziali elementi storici. Non è "Roma" a non voler dare un posto nella Chiesa alla FSSPX, ma è la Fraternità che ha sempre rifiutato di entrarvi.
Accadde così nel 1988 con il suo fondatore, Mons. Marcel Lefebvre, che firmò il protocollo del 5 maggio 1988 ed il giorno dopo mandò al Cardinale Ratzinger una comunicazione nella quale dichiarava di voler ritirare la firma; nella stessa comunicazione imponeva alla Santa Sede l' ultimatum che la consacrazione episcopale concessa da Roma avvenisse al più tardi il 30 giugno. Il 24 maggio, Lefebvre alzava la posta, richiedendo 3 vescovi. Il 30 maggio, Ratzinger comunicava a Lefebvre che avrebbe fatto accelerare l'abituale procedura per la nomina di un vescovo, in modo che la consacrazione potesse avvenire il 15 agosto. Lefebvre rifiutò, procedendo alla consacrazione di quattro vescovi nella data da lui voluta.
I contatti successivi della Fraternità con la Santa Sede sono stati all'insegna dell'ambiguità, con l'allora Superiore Generale, mons. Bernard Fellay, che dapprima rifiutava un accordo pratico, e poi dava il via libera proprio ad un accordo pratico. Poi puntualmente respinto.
Poi il cambio della guardia ai vertici. Pochi mesi dopo la sua elezione a Superiore Generale, don Davide Pagliarani chiudeva definitivamente il discorso, mostrando con estrema chiarezza la volontà di non voler arrivare ad alcuna regolarizzazione: «anche se un domani le autorità romane ritornassero sui loro passi, proponendoci una dichiarazione in via di principio accettabile, cosa ci garantirebbe che, il giorno dopo, questa dichiarazione resterebbe ancora sufficiente per i nostri interlocutori?».
Per giustificare la propria posizione, la FSSPX presenta un'argomentazione che sostanzialmente si basa sull'intreccio tra stato di necessità, salus animarum e virtù dell'epicheia. In sostanza, la gravità dell'attuale crisi - che noi della Bussola non neghiamo, anzi - giustificherebbe la sospensione di alcune leggi canoniche per poter raggiungere il fine della salvezza delle anime, che è la suprema lex della Chiesa. Dunque, per raggiungere il fine supremo cui mira la legge - la salus animarum - è lecito a volte andare contro la lettera della legge.
Partiamo proprio dall'epicheia. È lo stesso principio richiamato inopportunamente da papa Francesco in Amoris Lætitia § 304 per consentire (in certi casi) la Comunione ai divorziati-risposati. Ora l'epicheia è quella virtù che permette di vivere secondo il bene inteso dalla legge, quando questa, a motivo della sua universalità, non riesce a prevedere alcune situazioni particolari.
Prima considerazione: l'epicheia non si applica né agli assoluti morali, né alla legge divina. Trascuriamo i primi, che qui non ci servono e veniamo alla seconda. La legge divina, avendo come legislatore supremo Dio stesso, è perfettamente in grado di prevedere tutte le situazioni; alla legge divina non sfugge alcuna situazione particolare e dunque nessuna circostanza autorizza a contraddirla. Questa è la ragione fondamentale per cui nessun potere umano, nemmeno la plena potestas del Papa, può contrastare la legge divina. Si pensi al matrimonio sacramentale rato e consumato. La salus animarum si adempie perciò sempre perfettamente conformandosi alla legge divina. E questo anche quando a noi sembra il contrario. Prendiamo il caso di un bambino non battezzato che sta morendo. Se io ho solo del chinotto e non dell'acqua, non lo posso battezzare, anche se in ballo c'è la salute della sua anima; il battesimo sarebbe invalido. Perché? Perché la materia del sacramento del battesimo è di diritto divino e la Chiesa non può dispensare.
Ora, il punto è proprio questo: è Cristo stesso che ha conferito ai successori di Pietro il diritto di istituire i vescovi, in modo diretto o delegato, in virtù del fatto che è tramite Pietro che i vescovi ricevono tutto quello che hanno, esercitando poi con piena autorità e non semplicemente come "delegati" del Papa. E questo a prescindere dalle forme storiche in cui ciò si realizza; ma è un dato di fatto che, anche quando non c'era il mandatum apostolicum, il Papa poteva rifiutare un'elezione, deporre un vescovo, impedire una consacrazione. Era ed è nella sua piena facoltà, in virtù del potere delle chiavi dato da Cristo a Pietro. Questa è la visione cattolica. Né vale l'obiezione che è stato solo con Pio XII che le consacrazioni senza mandato vengono colpite con la scomunica (a dire il vero, San Tommaso già prevedeva una scomunica). La Sede Apostolica può aumentare o alleggerire le sanzioni, ma questo non cambia la specie dell'atto scismatico ed il fatto che sia un'usurpazione del diritto che il Papa ha ricevuto da Cristo.
Strettamente collegato al primo punto è il fatto che è proprio per il bene comune della Chiesa che non è possibile consacrare dei vescovi contro la volontà del Papa, perché si porrebbe in essere un attacco diretto all'unità della medesima. San Tommaso spiega che il fine della legge e l'intenzione del legislatore è il bene comune; «se quindi si danno dei precetti che implicano la conservazione stessa del bene comune, oppure l'ordine stesso della giustizia e dell'onestà, tali precetti contengono l'intenzione stessa del legislatore: quindi non ammettono dispensa» (Summa Theologiae, I-II, q. 100, a. 8). E questo è proprio quello che riguarda i precetti sulla consacrazione dei vescovi, così come ritroviamo nei testi del Magistero (alcuni dei quali citati nei precedenti articoli).
Terzo ed ultimo: l'epicheia interpreta l'intenzione oggettiva del legislatore. Ma è proprio il legislatore - ossia il Papa - ad essersi espresso contrariamente alle consacrazioni episcopali di mons. Lefebvre, in virtù di un diritto che gli è stato dato da Dio stesso, e a non aver mai accettato le successive giustificazioni della FSSPX quanto alla sua interpretazione della suprema lex e dell'epicheia. L'epicheia si applica quando il legislatore è inaccessibile, almeno nel momento in cui si deve operare una scelta; e nel caso della FSSPX il legislatore non solo era accessibile, ma era stato anche effettivamente più volte raggiunto.
La FSSPX rivendica altresì una giurisdizione di supplenza - Ecclesia supplet - proprio in ragione dello "stato di necessità". Il riferimento è al can. 144 §1: «Nell'errore comune di fatto o di diritto, e parimenti nel dubbio positivo e probabile sia di diritto sia di fatto, la Chiesa supplisce, tanto nel foro esterno quanto interno, la potestà di governo esecutiva». Ora, questa supplenza che proviene dal Papa può essere esplicita o implicita. Nel primo caso viene appunto esplicitata nella normativa canonica, come nel caso del sacerdote dimesso dallo stato clericale che riceve esplicitamente giurisdizione dal Papa per assolvere un morente. Nel secondo caso, perché la Chiesa supplisca è necessario supporre il consenso implicito del legislatore, dunque del Papa. Ma nel caso della FSSPX, le consacrazioni episcopali non sono avvenute semplicemente senza il mandatum, ma esplicitamente contro la proibizione del Papa, che dunque ha esplicitamente rifiutato di conferire la missio giuridica, da cui dipende la giurisdizione.
La Chiesa dunque non può supplire se il suo Capo rifiuta la supplenza, ma supplisce solo se il Papa la concede esplicitamente o almeno implicitamente. Lo stato di necessità da solo non è sufficiente a rivendicare la supplenza. L'«errore comune di fatto o di diritto» richiamato dal can. 144 non può essere chiamato in causa nemmeno per sostenere la validità delle assoluzioni conferite dalla FSSPX prima del 2017. La Fraternità ha indebitamente esteso questo concetto ai fedeli che frequentano le loro cappelle, ma il canone - come ha spiegato in modo cristallino John Salza - si applica «quando la maggioranza di una comunità può concludere che il sacerdote in questione ha la giurisdizione abituale autorizzata dall'Ordinario locale». In pratica, una comunità parrocchiale trova nel confessionale della propria chiesa un sacerdote che ritiene avere l'abituale giurisdizione. I fedeli infatti che frequentano le chiese e i santuari cattolici non sono tenuti ogni volta a chiedere al sacerdote se abbia o meno la giurisdizione. Se però quel preciso sacerdote non ha la giurisdizione per confessare, la comunità si trova perciò in un errore di giudizio, in presenza del quale la Chiesa supplisce. Il canone esiste precisamente per proteggere la comunità cattolica in comunione con la Chiesa, non per legittimare il ministero di chi non è in comunione con la Chiesa.
Il punto decisivo è che i fedeli devono ritenere che il sacerdote in questione abbia la giurisdizione abituale, non quella di supplenza; e lo suppongono in virtù del fatto che trovano il confessore nelle parrocchie e nei santuari, e non in edifici adibiti a cappelle di comunità che non hanno giurisdizione. Questo fatto è confermato dalla stessa FSSPX, che deve appunto ricorrere alla giurisdizione di supplenza, perché sa di non avere quella abituale. Il canone in questione inoltre non fa alcun cenno allo "stato di necessità" come legittimante la supplenza della Chiesa.
Ancora, la FSSPX, per giustificare la ragione per cui continua ad esercitare un ministero illegittimo, si richiama al principio dell'equità canonica presente nel can. 19: «Se su una determinata materia manca una espressa disposizione di legge sia universale sia particolare o una consuetudine, la causa, se non è penale, è da dirimersi tenute presenti le leggi date per casi simili, i principi generali del diritto applicati con equità canonica, la giurisprudenza e la prassi della Curia Romana, il modo di sentire comune e costante dei giuristi».
Che cos'è l'equità canonica? È il principio che guida chi deve applicare la legge della Chiesa quando si è in presenza di una lacuna legis, cioè quando la legge non prevede espressamente qualcosa di specifico. In queste situazioni, come dice il canone, si devono tenere presenti i casi simili, i principi generali del diritto, la tradizione giuridica della Curia romana e il parere comune e costante dei giuristi.
Anzitutto facciamo notare che si può avvalere dell'equità canonica soltanto chi è chiamato legittimamente ad applicare la legge canonica; i sacerdoti della FSSPX, non avendo alcuna missione canonica, non lo possono fare. Coloro che invece sono chiamati a farlo, hanno sempre dichiarato che la Fraternità svolge un ministero illegittimo. Entrando nella sostanza, questo principio non può essere utilizzato quando si tratta della legge divina e non di una legge meramente canonica, perché alla legge divina non è imputabile alcuna lacuna. Inoltre, non siamo comunque in presenza di alcuna lacuna legis, perché la legge canonica prevede con chiarezza cosa fare in caso di una consacrazione episcopale illecita e di un ministero esercitato illecitamente. Ultimo rilievo: come si è visto, l'equità canonica richiede che ci si riferisca a casi simili, alla prassi e giurisprudenza della Curia romana, etc. Ora, i casi simili (non uguali!) portano tutti in un'unica direzione: consacrare un vescovo contro la volontà del Papa è un atto scismatico e il clero che esercita il proprio mandato senza una missio canonica lo fa in modo illegittimo.
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