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Accese discussioni con i vari gruppi religiosi ebraici e insidiose interpellanze da parte di agguerriti dottori della legge hanno contraddistinto gli ultimi giorni della vita terrena del Signore Gesù, costituendo quasi le naturali premesse all'esplosione di odio che doveva portare alla sua uccisione sul Calvario. La scorsa domenica abbiamo visto la questione del tributo a Cesare; in questa domenica, sempre sulla scorta del Vangelo di Matteo, veniamo a conoscere un altro interrogativo che al Maestro è stato proposto dai farisei, e ancora con la malafede di chi non ricerca la verità ma vuol tendere dei tranelli: Per metterlo alla prova. Stavolta Gesù viene sollecitato a rispondere su un classico problema della teologia rabbinica: di tutta la serie interminabile dei precetti di Mosè, qual è il comandamento più importante e meglio ricompensato? Non c'era niente di insolito o di particolarmente originale nella domanda. Ma se la questione era convenzionale, la risposta di Cristo è senza dubbio un colpo d'ala, che ci trasporta alle massime altezze della riflessione religiosa. Poche parole nella storia umana hanno avuto una rilevanza e un'incisività paragonabile a quella della frase pronunciata da Gesù in questa occasione: Amerai il Signore Dio tuo... Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Nel comando dell'amore Gesù individua non solo il punto più elevato, ma anche l'anima e l'ispirazione di tutta la religione. Da esso, egli afferma, dipende tutta la legge e i profeti.
LA FEDE AUTENTICA POSSIEDE LO SLANCIO DI UN INNAMORAMENTO
La religione non prescrive prima di tutto e sopra tutto: Non fare, oppure: Fa'. Prima di tutto e sopra tutto dice: Amerai. Senza dubbio delle proibizioni e dei comandi positivi specifici hanno un giusto posto nella legge di Dio. Ma non costituiscono l'elemento primario, lo spirito, il vertice del nostro rapporto personale col Signore. La religione, prima e più che in un patrimonio di idee, di usi, di precetti, di opere buone, risiede nel cuore. La fede, nella sua autenticità, prima di ogni altra cosa, è una specie di innamoramento, e possiede tutto lo slancio, l'insaziabilità, il desiderio non mai placato di superarsi, che è proprio di un essere raggiunto e dominato dall'amore. Chi nella vita religiosa punta al minimo (per esempio: evitare le colpe più gravi, arrivare a messa il più tardi possibile, occuparsi delle pene altrui nella misura minima e meno impegnata), o anche solo si contenta di quello che egli è (senza nessuna ansia di crescere e di migliorare) contraddice la logica dell'amore, che vuole dare sempre di più, e misconosce la realtà profonda del suo rapporto con Dio.
LA GELOSIA DI UN DIO CHE CHIEDE A NOI IL NOSTRO "TUTTO"
Con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente. Tre volte la parola "tutto" ritorna in questa breve frase di Cristo: un'insistenza quasi ossessiva, che racchiude una fondamentale verità. La misura che conviene al Dio che è l'Infinito e l'Eterno, è quella espressa dalla parola "tutto" e dalla parola "sempre"; che sono poi anche i termini preferiti dal linguaggio dell'amore, quando non è inquinato dalle mode ideologiche e culturali. L'amore di un Dio, che è l'unico, è esigente. È un Dio "geloso", ci dice con vocabolo pittoresco la Sacra Scrittura. Non vuole comproprietà nel nostro cuore, non accetta compromessi nella fedeltà a lui, non tollera di dividerci con altri che non possano essere visti a giusto titolo come presenze e incarnazioni legittime della sua amabilità. Non è facile per noi vivere in conformità a questo principio. A noi piace mercanteggiare; cerchiamo sempre le strade intermedie; abbiamo paura di ciò che è totale e definitivo. Noi possiamo arrivare fino a dare "tanto", purché non sia "tutto". Dio invece si accontenta anche del nostro "poco", purché sia "tutto": tutto quello che abbiamo e tutto quello che siamo. Così si spiegano le nostre quotidiane incoerenze, che Dio pazientemente sopporta, purché non ne facciamo una regola accettata e indiscutibile di vita, purché ogni giorno tentiamo e ritentiamo di superarle e arrivare all'integralità della nostra donazione. Nessuno dunque si illuda che sia facile essere sul serio "cristiani", cioè discepoli di Cristo che vuole tutto per sé. D'altra parte nessuno, dall'amara esperienza delle sue spirituali avarizie, deve concludere che essere cristiani sul serio è impossibile. Quel Dio, che è esigente e totalitario, è anche tollerante e misericordioso: ci prende come siamo, purché veda in noi l'aspirazione sincera a diventare come lui ci vuole.
L'INSCINDIBILITÀ DELL'AMORE DI DIO E DELL'AMORE DEL PROSSIMO
Amerai il Signore... Amerai il prossimo. L'amore di Dio e l'amore del prossimo sono da Gesù presentati come strettamente connessi tra loro: sono i due volti di un'unica carità. Perciò non si possono separare e tanto meno si possono porre tra loro in contrasto. Non si tratta di scegliere tra l'uno e l'altro. Si tratta piuttosto di fare del primo il necessario fondamento del secondo, e del secondo l'immancabile manifestazione del primo. Chi li contrappone e dice: "Piuttosto che pregare Dio e andare in chiesa, è meglio far del bene agli altri", oppure dice: "Piuttosto che occuparsi degli altri e immischiarsi nella vita sociale, è preferibile adorare il Signore, meditare sulla sua parola, celebrare la sua liturgia", li ha già violati tutti e due. La parola "piuttosto" qui diventa segno di un sostanziale travisamento della prima legge del Vangelo. D'altronde, se non si pensa a Dio da amare con tutte le forze, l'amore per gli uomini non ha nessuna giustificazione. Perché dovremmo amarli (dal momento che spesso non sono né amabili né giusti verso di noi), se non avessimo la persuasione che tutti siamo legati dall'affetto doveroso verso il Padre comune? E reciprocamente, come si potrà salvare dalla vuotezza, dalla sterilità, dall'illusione il nostro amore per Dio, se non tentiamo di attualizzarlo e di renderlo operativo nell'amore per gli uomini, che sono sempre e tutti immagini vive di Dio? I pericoli, come sempre, stanno su ambedue i versanti. C'è il pericolo di fare della ricerca e del culto di Dio una scusa per stare lontano dai problemi dei nostri fratelli, e c'è il pericolo di presentare come interessamento concreto per gli altri e passione per la giustizia terrena ciò che in fondo è soltanto uno spaventoso disinteresse nei confronti di Dio, una squallida incapacità di amare, una ribellione a prendere la volontà del Padre che è nei cieli come norma assoluta della nostra vita. Possiamo concludere dicendo che essere discepoli di Gesù significa semplicemente saper amare: saper amare Dio nei suoi figli, saper amare gli altri partecipando allo stesso amore paterno che Dio ha per loro.
Nota di BastaBugie: questa omelia del card. Giacomo Biffi è tratta dal libro "Stilli come rugiada il mio dire".
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Le Edizioni Studio Domenicano hanno autorizzato la pubblicazione della porzione di testo sopra riportata con lettera del 3 luglio 2023.
ALTRA OMELIA XXX DOMENICA T. ORD. - ANNO A (Mt 22,34-40)
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