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Com'era prevedibile, dopo la convocazione di Mons. Carlo Maria Viganò da parte del Dicastero per la Dottrina della Fede, l'ex-Nunzio ha risposto con un pesante J'accuse, evocando il noto J'accuse le Concile che Mons. Marcel Lefebvre scrisse nel 1976.
Viganò ha esordito con un'affermazione che lo pone automaticamente al di fuori della Chiesa cattolica, a prescindere dalla sentenza che potrà venire dalla Santa Sede: «non riconosco l'autorità né del tribunale che pretende di giudicarmi, né del suo Prefetto, né di chi lo ha nominato». Il che significa la sua volontà di non essere in comunione con la Chiesa cattolica, nella sua attuale gerarchia. Che per quanto malmessa, per quanto comprensiva di persone obiettivamente non all'altezza e probabilmente anche indegne, rimane l'unica gerarchia esistente. E senza la gerarchia non si dà la Chiesa, almeno per come l'ha fondata Gesù Cristo.
Perché, senza nulla togliere all'importanza delle questioni legate al Concilio Vaticano II, alla riforma liturgica, ai problemi di questo pontificato, rimane la domanda fondamentale: dov'è la Chiesa? Se la Chiesa non è lì dove si trova quel Papa che i vescovi hanno riconosciuto all'unanimità, se la Chiesa non è lì dove ci sono questi vescovi in comunione con la Sede di Pietro, allora non esiste più la Chiesa cattolica. La quale è, per volere del suo fondatore, una società visibile, gerarchica e fondata sulla roccia di Pietro.
L'argomento fondante della propria posizione, Mons. Viganò lo avrebbe rinvenuto nella Bolla Cum ex apostolatus officio di papa Paolo IV, che fu pontefice dal 1555 al 1559. Questa Bolla, spiega Viganò, «stabilisce in perpetuo la nullità della nomina o dell'elezione di qualsiasi Prelato - ivi compreso il Papa - che fosse caduto in eresia prima della sua promozione a Cardinale o elevazione a Romano Pontefice. Essa definisce la promozione o l'elevazione nulla, irrita et inanis, ossia nulla, non valida e senza alcun valore (...). Paolo IV aggiunge che tutti gli atti compiuti da questa persona sono da considerarsi parimenti nulli e che i suoi sudditi, tanto chierici quanto laici, sono liberati dall'obbedienza nei suoi confronti». In virtù di questa giustificazione, Viganò «con serenità di coscienza» ritiene «che gli errori e le eresie a cui Bergoglio aderiva prima, durante e dopo la sua elezione e l'intenzione posta nella presunta accettazione del Papato rendono nulla la sua elevazione al Soglio».
Viganò si immette così nel grande fiume sedevacantista, abbracciandone sostanzialmente la posizione circa la nullità della nomina o la privazione dell'ufficio ipso facto di un prelato eretico, incluso il papa. Ma il vero problema è la disambiguazione del termine "eretico": di quali eretici si tratta?
COS'È L'ERESIA?
Iniziamo con una chiarificazione previa: che cos'è l'eresia? Il Can. 751, condensando la riflessione teologica e canonistica, la definisce come «l'ostinata negazione, dopo aver ricevuto il battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di essa». L'eresia dunque richiede un oggetto specifico che non è l'errore relativo a qualsivoglia verità della fede, ma la negazione di quanto la Chiesa ha infallibilmente proposto come dogma rivelato, ossia come contenuto diretto della Sacra Rivelazione, per il quale richiede un assenso propriamente di fede. L'Assunzione della SS. Vergine, l'esistenza e l'eternità dell'Inferno, l'esistenza degli Angeli sono appunto verità de fide tenenda; mentre l'impossibilità per le donne di accedere al sacerdozio o la condanna dell'eutanasia sono invece dottrine insegnate infallibilmente dalla Chiesa e certamente connesse al dato rivelato, ma non definite (almeno per ora) come divinamente rivelate. La negazione di queste ultime non costituisce pertanto formalmente un'eresia.
Chiarito dunque che l'eresia non è un errore qualunque, anche grave, circa l'insegnamento della Chiesa, vediamo che nel canone citato ricorre per due volte l'aggettivo «ostinato». Entriamo quindi nella precisazione di chi sia l'eretico inteso dai testi canonici. La distinzione classica è quella tra "eretico occulto" ed "eretico manifesto", ma quest'ultimo termine ha generato molti equivoci, e sembra dunque opportuno sostituirlo con un altro più preciso, presente in letteratura, ossia quello di "eretico notorio".
Partiamo dall'eretico occulto: si tratta di chi commette il grave peccato formale di eresia - nel senso restrittivo spiegato sopra -, ma lo fa o esclusivamente in foro interno oppure anche mediante parole e atti. Dunque, quando parliamo di eretico occulto, non dobbiamo commettere l'errore di intendere questa espressione come se escludesse di per sé una dimensione manifesta, perché - e questo è il punto capitale - l'eretico rimane occulto fino a quando non venga dichiarato eretico dalle competenti autorità ecclesiastiche, oppure egli non ammetta la propria eresia davanti alle medesime, o ancora la sua eresia non venga provata senza che vi possano essere ragionevoli dubbi in contrario, come per esempio avviene nel caso di un prelato che dovesse abbandonare egli stesso la Chiesa cattolica. Solo così può essere provata effettivamente sia l'eresia nel suo contenuto formale che l'ostinazione del soggetto, che diviene dunque imputabile; ed è solo così che l'eretico diviene notorio.
L'ERETICO OCCULTO E L'ERETICO NOTORIO
Perché questa distinzione è così importante? Perché l'eretico occulto commette sì un peccato di eresia, con il quale perde la grazia e la fede, ma permane giuridicamente nella Chiesa. È solo l'eretico notorio che invece cessa di essere legalmente membro della Chiesa. Attenzione: l'appartenenza giuridica e legale alla Chiesa non è una questione secondaria, ma sostanziale. Come affermato all'inizio, che la Chiesa sia (anche) una società visibile, alla quale si appartiene mediante vincoli giuridici, è un dogma di fede. Dunque, mentre l'eretico occulto si separa "solo" spiritualmente dalla Chiesa, ma non giuridicamente, l'eretico notorio si separa da essa in entrambe le dimensioni.
Ora, le affermazioni di papa Paolo IV, come anche di tutti i teologi che affermano che il prelato eretico perde ipso facto il proprio ufficio, si riferiscono all'eretico notorio, non a quello occulto. Se così non fosse, il giudizio di eresia sarebbe lasciato al libero esame di ciascuno, provocando inevitabili divisioni interne tra chi ritiene che Tizio sia eretico e chi non lo ritiene tale, e dunque tra chi ritiene che Caio sia ancora vescovo o papa e chi no. Ed è infatti quanto avviene nel variegato mondo sedevacantista da decenni.
Ora, se è già compito piuttosto arduo dimostrare l'effettiva eresia (occulta) di Jorge Mario Bergoglio, prima e dopo la sua elezione, posta la materia precisa dell'eresia, allo stato attuale non è di certo possibile dimostrare che egli sia stato o sia un eretico notorio. Qui si aprirebbe un lungo discorso se sia possibile che un Papa, mentre è in carica, possa diventare eretico notorio (sulla possibilità di divenire eretico occulto non ci sono serie obiezioni), perché il Papa non può essere giudicato da nessuno. Ma questo è un altro tema. A noi basta aver mostrato che, purtroppo, Mons. Viganò sta trascinando centinaia di persone nello scisma, che egli stesso rivendica, dal momento che ha ripetutamente e pubblicamente affermato di non riconoscere l'autorità del Sommo Pontefice, con il quale tutti i vescovi cattolici sono in comunione, sulla base di un passo falso.
Abbracciare la posizione di Mons. Viganò comporta necessariamente l'ammissione che la Chiesa cattolica, in quanto società visibile e gerarchicamente ordinata (e non ve n'è un'altra), è di fatto venuta meno, che la Chiesa, nella forma che Gesù Cristo le ha conferito, non è dunque indefettibile. Che le porte degli inferi hanno prevalso contro di essa. Il che è un'eresia.
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