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Fu lui il primo ad associare tra loro due termini apparentemente antitetici. Stiamo parlando dello storico polacco Jacob Leib Talmon (1916-1980), e dell’ormai classico saggio di filosofia politica "Le origini della democrazia totalitaria", edito per la prima volta nel 1952.
È possibile che la democrazia divenga totalitaria? È già accaduto nella storia e accade di nuovo. L’analisi di Talmon va alla Francia di fine Ottocento, e a quegli autori che prepararono concettualmente la Rivoluzione del 1789, come l’ex-allievo dei Gesuiti, Claude-Adrien Helvétius, il barone renano, Paul Henri d’Holbach, il ben più noto Jean-Jacques Rousseau, il misterioso Morelly, forse sacerdote, di cui non si saprebbe nulla se non avesse lasciato l’opera Code de la nature, e l’Abbé de Mably, dapprima gesuita e poi massone. Il libro analizza anche il pensiero di due attori fondamentali della Rivoluzione, ossia Emmanuel Joseph Sieyès, prete che abbracciò con entusiasmo la Costituzione civile del clero, e l’“Arcangelo del terrore”, Louis Antoine Léon de Saint-Just, per terminare poi con il rivoluzionario François-Noël Babeuf. Allora come oggi, con le stesse dinamiche, le stesse logiche.
Tre gli ingredienti essenziali della madre di tutte le democrazie totalitarie, e di tutte le figlie: damnatio memoriæ dell’ancien régime, ed in generale di tutto il passato dell’umanità, presentati come il regno dell’ignoranza, dei vizi e dei soprusi; instaurazione di nuovo sistema presentato come l’unico finalmente razionale e scientifico; prospettiva messianica, proiettata ad occuparsi di problemi remoti e universali, scansando quelli presenti e concreti, indegni dell’attenzione degli idéologues.
«Il pensiero democratico totalitario (...) può essere definito - spiegava Talmon - messianismo politico in quanto postula un insieme di cose preordinato, armonioso e perfetto, verso il quale gli uomini sono irresistibilmente spinti e al quale devono necessariamente giungere, e riconosce infine un solo piano di esistenza, la politica». Si tratta di un piano di salvezza sociale, una vera e propria escatologia immanente, a cui gli uomini devono essere condotti, e che, appunto in quanto escatologia, trasforma la vita politica nell’unico piano totalizzante dell’esistenza: nulla al di fuori, nulla al di sopra.
NEL REGNO DELLA LIBERTÀ DEMOCRATICA C'È SEMPRE IL TERRORE
Va da sé che, in quanto messianismo, «gli assiomi o i postulati devono rimanere un fatto di fede. Essi non possono essere né verificati né confutati», ma semplicemente accettati; e chi pone domande o obiezioni diviene eretico. L’ideologo della rivoluzione ha la profonda convinzione «che il suo abbozzo a matita sia la sola cosa reale» e tutto il resto dev’essere ricondotto dentro questo abbozzo.
È qui che si comprende perché nel regno della libertà democratica subentri sistematicamente il terrore, pensato come male transitorio, ma inevitabile, per raggiungere quel bene determinato razionalisticamente e “scientificamente”. «Il dottrinario non pensa mai all’abbozzo a matita in termini di coercizione. Esso non è destinato a interferire con la libertà; al contrario, esso è destinato ad assicurarla. Soltanto il malintenzionato, l’egoista e il perverso possono lamentarsi che la loro libertà è violata. Essi sono colpevoli di sabotaggio, rifiutando di essere liberi e inducendo in errore gli altri». Il ricorso alla forza non è il fine, ma il mezzo necessario «per accelerare il passo del progresso umano verso la perfezione e l’armonia sociale», togliendo di mezzo quelli che, di volta in volta, vengono additati come i nemici del popolo, del progresso, della società, gli ostinati che impediscono alla società di divenire felice e sicura. Obiettivo che può essere raggiunto solo «al termine di questa guerra, solo quando il nemico è stato eliminato e il popolo rieducato».
DPCM ANTE-LITTERAM
Questo obiettivo è sempre solo un passo più in là della situazione concreta; «ripetutamente Robespierre e Saint-Just dichiararono che questo o quel decreto o epurazione era l’ultimo, proprio l’ultimo, e quello che avrebbe certamente inaugurato l’ordine naturale». DPCM ante-litteram. Ordine che diviene ancor più desiderato allorché si convince l’opinione pubblica che un grande male è all’orizzonte, come teorizzava Saint-Just nelle sue Istituzioni repubblicane (1794): «Dobbiamo aspettarci un male generale che dovrebbe essere abbastanza grande per dimostrare alla pubblica opinione la necessità di misure adatte a fare il bene». “Misure adatte” che divengono urgenti nei momenti di crisi, «in cui sono indispensabili l’unità di intento e l’azione concorde», che giustifica «l’eliminazione dell’opposizione ideologica e politica».
L’avanguardia illuminata si mostra dunque amica del popolo, perché ne conosce il bene autentico e persino le aspirazioni più profonde, così profonde da essere nascoste al popolo stesso. Essa è la vera interprete della “volontà generale”, che non è mai «la volontà degli individui spontaneamente espressa, ma qualcosa che avrebbe dovuto essere voluto e che, se necessario, (deve) essere imposto». È in virtù di questa volontà generale che l’avanguardia ha il diritto di ricorrere alla forza ed instaurare così una rivoluzione permanente, motivata ogni volta da mali che incombono e da un bene universale che è lì lì per essere raggiunto, se solo il popolo accettasse un ultimo sforzo, un’ultima restrizione, un ultimo sacrificio.
Non si deve però commettere l’errore di pensare che per la democrazia totalitaria le masse siano spettatrici: tutt’altro. Esse devono essere coinvolte, educate, così da «non lasciare al popolo la libertà di agire» come vuole, ma «fargli compiere l’azione giusta». Al popolo educando non è permesso dare una direttiva politica, almeno finché non è stato «preparato a votare come doveva».
L’analisi di Talmon non è solamente storica, ma profetica. Profezia non di un tempo che sarà, ma di un tempo che è.
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