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L'episodio offertoci in questa pagina del Vangelo di Marco è tra i più ricchi di insegnamento di tutta la vita del Signore. Si colloca in una delle rare occasioni nelle quali Gesù sconfina dalla sua terra e arriva in vista di una città pagana; una città che era stata fondata circa trent'anni prima dal figlio di Erode, Filippo, in onore dell'imperatore Cesare Augusto; e perciò era stata chiamata Cesarea di Filippo.
Era un paese verdeggiante e solcato dalle acque: Gesù vi si rifugia col piccolo gruppo degli apostoli, per un momento di riposo e di riflessione, lontano dalla folla esigente e incalzante dei suoi compatrioti. In questo contesto di raccoglimento e di pace, il Signore invita i discepoli ad affrontare due questioni decisive: il mistero di Cristo e della sua vera identità e il mistero della salvezza del mondo ottenuta attraverso la croce.
Sono due distinte lezioni. Tutte e due ci mostrano Pietro come l'interlocutore privilegiato, lo scolaro più sveglio e più reattivo. Ma è uno scolaro dal rendimento alterno: prima è acuto, e risponde bene; poi è ottuso, e sbaglia l'intervento. Prima docile all'interiore illuminazione di Dio, poi condizionato dalla mentalità mondana; prima lodato e poi rimproverato aspramente dal suo Maestro.
SOLO LA CHIESA PUO' RIVELARCI LA VERA IDENTITA' DI GESU'
La prima questione si riferisce all'identità di Gesù: Chi dice la gente che io sia? Chi sono io, secondo voi? È una domanda che ha un valore perenne, ed è ancora di attualità. Nessun uomo che pensa può sfuggire a questo interrogativo: o presto o tardi vi si deve confrontare. Chi è Gesù? Non andremo certo a cercare la risposta al cinema, sui giornali o alla televisione o in "ciò che dice la gente". Abbiamo visto che la "gente" - cioè la cultura mondana, arbitraria e vuota, scettica e irremovibile nei suoi pregiudizi, inquieta e incapace di cercare sinceramente la verità - non sa dare una risposta concorde; soprattutto non sa dare una risposta vera.
La risposta la cercheremo da Pietro, cioè dalla Chiesa, la quale conosce il suo Signore e il suo Sposo, ed è in grado di rivelarcene il volto. È il volto del più bello dei figli dell'uomo, nel quale riluce ogni valore umano e ogni giustizia; è il volto di colui che è stato mandato da Dio a dirci le cose come stanno, perché tutti potessimo deciderci a orientare bene la nostra vita; è il volto di colui che ha detto: Chi vede me, vede il Padre, e perciò è lo stesso volto del Dio eterno, reso accessibile e leggibile alle creature che vivono nelle nebbie della storia; è il volto del nostro Salvatore, dell'unico che può salvarci davvero.
Ci salva prima di tutto da quel mare di bugie, di falsità, di stupidità, nel quale siamo quotidianamente immersi e dal quale ci libera soltanto la conoscenza delle verità eterne donateci dal Vangelo; poi ci salva dalla nostra condizione di sofferenza e di morte, persuadendoci che ogni dolore ha un senso e un pregio agli occhi di Dio e che la nostra morte sarà vinta per sempre nel destino di risurrezione che ci aspetta; infine ci salva da tutte le tirannie che inceppano e umiliano la nostra esistenza: dalle mille prepotenze di chi ci vuol dominare, dalle mille paure che ci affliggono, dalle mille debolezze interiori che ci spingono a fare ciò che pur sappiamo ingiusto e riprovevole. Egli, poiché è l'unico Signore, ci dà la capacità di non arrenderci mai, ci dà il coraggio di vivere, ci dà la forza di vincere ogni seduzione del male.
Tutto questo è stato intuito e riconosciuto a Cesarea di Filippo da Pietro che dice: Tu sei il Cristo, cioè tu sei l'inviato da Dio e il Salvatore degli uomini.
LA NOSTRA RILUTTANZA AD ACCETTARE LA CROCE COME PARTE INTEGRANTE DEL PROGETTO DIVINO DI SALVEZZA
Ma Gesù è un Salvatore crocifisso. Questa seconda parte dell'insegnamento è la più dura da accettare. Cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire. Certo, Cristo è colui che alla fine vince, perché ha con sé la vittoria di Dio; ma la sua è una vittoria che passa attraverso la sconfitta, l'umiliazione, la morte. Certo egli è il Re dell'universo e come tale apparirà alla fine, perché a lui è stato dato ogni potere in cielo e in terra; ma comincia a regnare dall'alto di una croce, coronato sì ma di una corona di spine. Egli è colui che è la vita e a tutti può dare la vita; ma la vita che egli dà germoglia dalla sua morte terribile.
Gesù faceva questo discorso apertamente. Traspare da questa annotazione lameraviglia dell'evangelista, quasi a dire: Aveva il coraggio di annunciare queste cose agli apostoli trasecolati. Si capisce allora la reazione di Pietro: interpreta il sentimento di tutti e si ribella. Prende in disparte Gesù, come farebbe un uomo autorevole e sensato con un giovane che l'ha detta grossa, e si mise a rimproverarlo.
Pietro siamo noi. Ci riconosciamo in quest'apostolo schietto, generoso, che però fa fatica a capire i disegni di Dio. Anche noi facciamo fatica a capire i disegni di Dio, quando includono il dolore, la mortificazione, la fine delle nostre speranze terrene. Anche noi siamo tentati di dar pareri al Signore, e di dirgli che si preoccupi un po' di più di far trionfare la giustizia, che si dia un po' da fare per far risplendere la verità davanti a tutti, che si affretti a confondere i suoi nemici e a rasserenare ed esaltare i suoi amici.
Anche noi, come Pietro, siamo pronti a suggerire al Signore quale sia la strada che deve percorrere; una strada che possibilmente non passi dal Calvario. È curioso notare che l'apostolo è stato talmente spaventato dall'idea della passione, che non sembra essersi accorto che Gesù contestualmente annunciava anche l'ora della resurrezione e della gloria: Il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ...venir ucciso, e dopo tre giorni risuscitare. Sembra non essersi avveduto che la vicenda aveva un lieto fine.
Invece il progetto di Dio va considerato tutto: c'è la croce, ma c'è anche - e definitiva - la gioia; c'è la morte, ma c'è anche la vita eterna; c'è la sconfitta, ma c'è anche la gloria. Il dolore e la prova sono la strada, e una strada che è obbligatorio percorrere; però non sono la mèta o la condizione finale. La mèta è la felicità senza termine, ed è assicurata a tutti coloro che, partecipando alla sorte del figlio di Dio crocifisso, parteciperanno anche alla sorte del Figlio di Dio che regna glorioso.
Come dice san Paolo, noi siamo eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria (Rm 8,17).
Nota di BastaBugie: questa omelia del card. Giacomo Biffi è tratta dal libro "Stilli come rugiada il mio dire".
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Le Edizioni Studio Domenicano hanno autorizzato la pubblicazione della porzione di testo sopra riportata con lettera del 3 luglio 2023.
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