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KATYN 2
Lo sterminio (censurato) di oltre 25 mila polacchi da parte dei sovietici
da Corriere della Sera
 

«Perdonateci, se potete»: fu con queste parole che nel 1992 il presidente russo Boris Eltsin consegnò alla Polonia i documenti che attestavano la piena responsabilità dell’Unione Sovietica nel massacro di Katyn, cioè nello sterminio di oltre 25 mila prigionieri polacchi avvenuto nel 1940. Si chiudeva così una lunghissima vicenda, intessuta di falsificazioni e opposte verità, che viene ora ricostruita da Victor Zaslavsky in un libro che presenta molti motivi di interesse. Anzitutto, se l’eccidio di Katyn non fu che uno dei tanti crimini del regime sovietico, è anche vero - come giustamente osserva Zaslavsky - che esso riflette un carattere della dittatura staliniana che è stato a lungo imbarazzante riconoscere, per i vertici dell’Urss ma anche per una parte della cultura occidentale: vale a dire certe affinità che collegavano il regime stesso all’altro grande totalitarismo dell’epoca, quello nazista. Il massacro, infatti, doveva servire ad eliminare una parte cospicua dell’élite polacca (nella vita civile quegli ufficiali erano professionisti, giornalisti, professori universitari) nel quadro di una spartizione della Polonia tra Germania e Urss già prevista dal patto Ribbentrop-Molotov dell’agosto 1939.
Un patto che Stalin considerava non solo un trattato di non aggressione, ma una vera e propria alleanza: nel 1940 il dittatore sovietico giunse a chiedere a Hitler di poter aderire al Patto tripartito che legava Germania, Italia, e Giappone. È appunto una tale complicità con il nazionalsocialismo, precedente il repentino mutamento di fronte provocato dall’attacco tedesco del giugno 1941, che viene richiamata dal massacro di Katyn. Di particolare interesse è la lunga disputa sulle responsabilità della strage, iniziata fin da quando le truppe germaniche, nell’aprile 1943, informarono il mondo del ritrovamento nella zona di Katyn dei corpi di migliaia di ufficiali polacchi che risultavano fucilati tre anni prima, ciò che incolpava necessariamente i sovietici. Da allora l’Urss si impegnò per accreditare a costo di qualunque manipolazione la versione opposta. Rioccupata che ebbero la zona, i sovietici costituirono una commissione compiacente che spostò in avanti la data di morte delle migliaia di cadaveri, così da collocarla nel periodo dell’occupazione tedesca. Terminata la guerra, l’Urss cercò, anche se senza successo, di far accreditare la strage come nazista dal tribunale di Norimberga, non arrestandosi di fronte a nulla, neppure all’assassinio di uno dei giudici russi, che appariva restio ad avallare la falsificazione. Tentò anche di intimidire i medici che avevano fatto parte della commissione internazionale costituita nel 1943 dalla Germania e avevano accertato la responsabilità dell’Urss. In Italia, nel 1948, fu il Pci che organizzò su incarico dei sovietici una pesante contestazione di un membro di quella commissione, il professor Vincenzo Palmieri, che venne accusato d’essere stato un «servo dei nazisti».
Tutt’altro che irrilevante fu la disponibilità di Stati Uniti e Gran Bretagna ad accettare la versione sovietica. Finché il conflitto era in corso, appariva inevitabile che gli angloamericani accantonassero la questione di Katyn, «di nessuna importanza pratica» come con cinico realismo dichiarò Winston Churchill. Ciò che appare sorprendente, semmai, è che gli inglesi abbiano continuato a fingere di non conoscere la verità addirittura fino al 1989. Gli Stati Uniti invece, terminata la guerra, accolsero le conclusioni di una commissione del Congresso di Washington che aveva verificato l’esistenza di prove «definitive e inequivocabili» della responsabilità sovietica nel massacro di Katyn. Gran parte dell’opinione pubblica europea seguì per decenni più la posizione ufficiale inglese che quella americana, sostenendo dunque che la questione della responsabilità rimaneva controversa.
Proprio la disponibilità dell’opinione pubblica occidentale ad accogliere una versione palesemente infondata, scrive Zaslavsky, è stata una delle cause della pervicace ostinazione con cui l’Urss ha continuato anno dopo anno a sostenere il falso. Fino, ed è la parte più incredibile di tutta la vicenda, all’inventore stesso della glasnost (che in russo vuol dire «trasparenza»), Mikhail Gorbaciov. Se non ci trovassimo di fronte all’occultamento di un crimine, verrebbe da dire che in epoca gorbacioviana la lunga storia delle omissioni e falsificazioni attorno a Katyn assunse perfino aspetti farseschi.
Nel 1987 Gorbaciov accettò la costituzione di una commissione storica polacco-sovietica, continuando però a dichiarare che i documenti originali riguardanti Katyn non si riusciva a trovarli. A quell’epoca il leader sovietico era invece una delle tre persone che ne conoscevano l’esistenza. Nell’ottobre 1990 porse le scuse ufficiali del suo Paese ai polacchi, continuando però a sostenere che i documenti cruciali - il testo del patto tra Stalin e Hitler e l’ordine del marzo 1940 con il quale il Politburo ordinava che si fucilassero 25 mila polacchi senza neppure avanzare contro di loro un capo di imputazione - non si sapeva dove fossero.
Conclusasi ai tempi di Eltsin, la vicenda sembra aver avuto di recente un’appendice che getta una luce non proprio rassicurante sul modo in cui la Russia di oggi guarda al passato, ma dunque anche al proprio ruolo presente e futuro. Apprendiamo infatti dal libro di Zaslavsky che nel 2004 la procura militare della Federazione russa ha deliberato di porre il segreto di Stato su una cospicua parte dei documenti che aveva raccolto sul massacro di Katyn. Una decisione evidentemente surreale, poiché lo Stato che un tale «segreto» dovrebbe proteggere, l’Urss, da tempo non esiste più. Ma anche una decisione che conferma la tendenza dell’attuale presidente della Russia, Vladimir Putin, a collocare il suo Paese lungo una linea di ideale continuità - in chiave di esaltazione della potenza russa - con tutta la storia precedente, dall’impero zarista all’espansionismo staliniano.

 
Fonte: Corriere della Sera, 23 Febbraio 2009