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Il testo che qui pubblichiamo, scritto nel 1985 dall’allora cardinal Ratzinger, può risultare sorprendente per chi non ne conosca l’autore e ancor più per i suoi detrattori. Infatti, oltre ad essere un testo antropologicamente profondo, pur nella sua brevità, contribuisce a far luce sulla sua personalità, perché mostra che Benedetto XVI non è un arcigno moralista, o un intellettuale snob che disprezza le manifestazioni sportive, trattandole in modo esclusivamente critico, soprattutto se interessano le masse. L’attuale Papa è tutt’altro che un uomo duro ed inflessibile, piuttosto è una persona mite e affettuosa, come palesò la sua commozione quando celebrò il funerale del suo predecessore, o come è risultato evidente in vari momenti del pontificato, per esempio in occasione dell’incontro con alcuni senza tetto o con alcune vittime degli abusi di alcuni preti. Nel contempo egli è saldo nel difendere strenuamente la dignità umana e la fede dei semplici.
Questo testo sui mondiali di calcio spiega le ragioni del fascino che essi esercitano. Lungi da moralismi (spiegare l'interesse per questa manifestazione riducendolo alla logica del panem et circenses o solo con l'efficacia del marketing commerciale), Ratzinger svolge un'analisi della natura del gioco, e del gioco del calcio in particolare, il quale – spiega – tocca qualcosa di radicalmente umano. Infatti, nel gioco del calcio avviene una felice sintesi tra la libertà (che trascende le necessità della vita quotidiana ed asseconda una nostalgia per un Paradiso perduto, anticipando nello stesso tempo la dimensione di quello futuro) e le regole dell’interazione, una sintesi dove la libertà è possibile grazie alle regole (e perciò esso educa alla vita).
Il tema del gioco è molto affascinante ed ha suscitato l’attenzione di molti autori. Esso è un’attività libera (un gioco svolto per costrizione diventa altro, per esempio diventa un lavoro), esercitata in vista dell’interruzione della fatica del corpo, del riposo dello spirito, della sua distrazione e del suo divertimento, che inoltre esprime la creatività della persona, nonché la sua capacità di distaccarsi dalle attività pragmatiche per compiere un agire “autotelico”, cioè fine a se stesso, dato che non rinvia ad uno scopo esterno di utilità, di interesse o di bisogno materiale. Risponde semmai a bisogni estetici – in quanto il gioco crea qualcosa di nuovo e di personale, di ben costruito, è una modalità dell’attività artistica – ed al desiderio dello spirito. Quest’ultimo, infatti, anela sia all’autorealizzazione del sé, e nel gioco si cerca di dare appunto il meglio di se stessi in quella sfera, sia ad una dimensione dell’esistenza, di cui il gioco è anticipazione, in cui la regola non è più minimamente in antitesi con la spontaneità: perciò il bambino – nella cui vita la dimensione del gioco è costitutiva – è insieme origine dell’esistenza umana e figura di Tempi Nuovi, ultraterreni.
In effetti, se si trasgrediscono le regole, il mondo del gioco crolla, perciò «il giocatore che si sottrae alle regole è un guastafeste» (come ha sottolineato Johan Huizinga, uno storico autore che lo ha investigato acutamente nel suo Homo ludens), guasta la malìa di un modo d’essere che è festa, pur essendovi delle regole, e che è prefigurazione della Festa.
Ma è un guastafeste anche chi non prende sul serio il gioco, e questo ci dice che nel gioco c’è non soltanto la gioiosità, il piacere e la leggerezza, ma anche la serietà (che è diversa dalla seriosità austera), così palese nell’impegno che in esso riversano i bambini, ed allude alla serietà-gioiosa della beatitudine eterna. Quest’ultima è superamento di tutto ciò che è pesante, doloroso e oppressivo nella vita quotidiana, è il raggiungimento del proprio compimento, della libertà e della spontaneità bella e felice, ed è insieme la questione più importante che l’uomo possa porsi.
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