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IN FRANCIA VOGLIONO FAR CREDERE CHE GLI IMMIGRATI SONO POCHI E CHE SI PUO' STARE TRANQUILLI
Peccato che siano statistiche manipolate al ribasso per non far allarmare la popolazione di fronte all'invasione in corso
di Massimo Introvigne
 

Uno dei libri importanti del 2010 rischia di non essere letto da nessuno. Pubblicato da un editore che stampa libri per il grande pubblico e non solo per gli specialisti, Les Yeux grands fermés. L’immigration en France (A occhi ben chiusi. L’immigrazione in Francia, Denoël, Parigi 2010) di Michèle Tribalat è stato presentato da qualche recensore come la versione francese de L’ultima rivoluzione dell’Europa. L’immigrazione, l’islam e l’Occidente di Christopher Caldwell (trad. it., Garzanti, Milano 2009). Ma è qualcosa di più, e insieme di meno. Mentre Caldwell, brillante giornalista, riflette su dati altrui, la Tribalat – che è stata per un quarto di secolo nei piani alti dell’establishement statistico francese – presenta ricerche originali. Ma, a differenza di Caldwell, scrive un libro difficilmente leggibile per chi non abbia familiarità con un gergo specialistico, o non sia abituato a maneggiare statistiche e metodologie, e dunque destinato fatalmente ad avere pochi lettori. È un peccato, perché i dati che la Tribalat presenta sono tali da indurre a ripensare l’intera questione dell’immigrazione. Per esprimersi in termini semplici – che non sono quelli del libro – la specialista francese sostiene che da almeno quindici anni molti dati offerti al pubblico francese sull’immigrazione sono falsi. La falsificazione non è il risultato di errori: è deliberata – talora perfino imposta per legge – e ha lo scopo di evitare che l’opinione pubblica francese si allarmi per il numero troppo alto degli immigrati e diventi «razzista». L’ossessione anti-razzista ha fatto sì che qualcuno si sia preso la libertà di mentire ai francesi: una menzogna sedicente pedagogica, che dovrebbe appunto evitare il diffondersi del razzismo e imporre «il dogma di una visione necessariamente positiva dell’immigrazione» (p. 17). «L’anti-razzismo ideologico struttura la presentazione scientifica e quotidiana dell’immigrazione. In un’epoca in cui si parla tanto di “spezzare i tabù” e si valorizza la trasgressione, su questo tema il posizionamento “morale” resta paradossalmente dominante. Restare dalla parte del bene richiede una vigilanza incessante. L’immigrazione è sacralizzata a un punto tale che il dissenso non può esistere, né può diventare oggetto di un dibattito ragionevole» (p. 10). Il problema si situa a livelli diversi. Il primo riguarda la domanda più semplice: quanti immigrati arrivano ogni anno in Francia? Qui le statistiche sono state anzitutto manipolate privilegiando una definizione dell’immigrato molto restrittiva, almeno fino a quando una direttiva europea nel 2007 non ha costretto anche la Francia ad adottare il criterio scelto dalle Nazioni Unite fin dal 1934, il quale considera immigrati gli stranieri che ricevono per la prima volta un titolo di soggiorno della durata di almeno un anno. In precedenza, era in corso in Francia una «battaglia interminabile» (p. 25), e ciascun ente statistico francese adottava un suo criterio. Per esempio, gli immigrati entrati in Francia nell’anno 1997 erano contati in sei modi diversi da sei diverse agenzie governative, e i risultati andavano da 61.929 a 142.944 (cfr. p. 27), con un tasso di variazione tale da togliere ogni attendibilità alle statistiche. Un indizio che qualcosa non va è dato dal modo in cui il principale ente francese di statistica lavora, ponderando i dati tramite «variabili di aggiustamento», cioè «persone fittizie» che sono inserite nei tabulati ancorché non abbiano un’esistenza fisica ma siano usate solo per «equilibrare l’equazione contabile» (p. 30) quando i suoi risultati appaiono a prima vista poco convincenti. Ora, chiunque fa statistiche pondera in qualche misura i dati, ma il «metodo francese» (ibid.) prevede variabili di aggiustamento veramente molto alte, di 480.000 «persone fittizie» negative (cioè che possono essere sottratte ma non aggiunte) e 661.000 positive (che possono essere solo aggiunte). In secondo luogo, gli enti statistici francesi privilegiano in modo assoluto un solo dato: il «saldo migratorio», cioè la differenza fra le entrate e le uscite a titolo «definitivo» dal territorio francese degli stranieri e dei francesi insieme. Il saldo migratorio «può dunque essere molto più basso del numero d’ingressi di stranieri. È la sua grande attrattiva» (p. 28). La Tribalat obietta che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il saldo migratorio è molto difficile da calcolare con criteri univoci, ed è anche poco significativo. È alterato da un gran numero di variabili indipendenti relative alle uscite, per cui l’unico modo serio di valutare l’andamento dell’immigrazione è concentrarsi sugli ingressi. Se lo si fa, da una parte le cifre salgono, dall’altra ci si rende conto del grande non detto dell’immigrazione francese degli ultimi anni. L’immagine stessa dell’immigrato come persona che viene a cercare lavoro in Francia non è più vera. Il 63% degli immigrati a partire dal 2006 non entra in Francia per lavorare, ma per ricongiungimento familiare (cfr. p. 42). Si dovrà dunque sostituire all’immagine del lavoratore che sbarca con la valigia di cartone quella della moglie o del figlio che arrivano seguendo di qualche anno l’immigrato che era effettivamente venuto in cerca di lavoro? Non è neppure così. Un numero difficile da definire, ma che per alcuni sottogruppi arriva a due terzi del totale, è costituito da coniugi stranieri i quali, dopo avere sposato persone di origine straniera nate in Francia, chiedono il ricongiungimento. Lo schema tipico è quello del cittadino o residente francese di origine algerina che è sì nato in Francia ma, arrivato all’età del matrimonio, va a cercarsi la moglie in Algeria: la sposa – sono questi i famosi «matrimoni misti di successo» di cui talora ci si vanta, che però sono «misti» per modo di dire – e quindi chiede e ottiene il ricongiungimento familiare. «Si può quindi parlare di una auto-generazione dei flussi di ricongiungimento familiare» (p. 45). Questo è il principale segreto europeo in tema d’immigrazione: ed è un segreto ben protetto, da autentici divieti di parlarne e da gigantesche manipolazioni statistiche. Dove se ne parla, infatti, la politica finisce per intervenire. L’Olanda e la Danimarca hanno introdotto severi limiti ai ricongiungimenti familiari, che vanno da seri esami linguistici nei Paesi di partenza a tasse da pagarsi anticipatamente: 830 euro in Olanda, dove i ricongiungimenti dopo questa riforma sono diminuiti del 40% (p. 54). Questi limiti possono sembrare crudeli, e certo ciascuno ha diritto di sposare chi vuole. D’altro canto, ci si può chiedere perché mai – tanto più in periodo di crisi economica – il contribuente europeo dovrebbe farsi carico di un congiunto che un immigrato ha deciso di andare a sposare nel Paese di origine. Come Caldwell – ma con argomenti parzialmente diversi – la Tribalat passa quindi a smontare il luogo comune secondo cui l’immigrazione è necessaria all’economia europea, gli immigrati risolvono i problemi pensionistici causati dalla denatalità e «fanno lavori che nessun europeo vuole fare». La demografa francese recensisce un’ampia serie di studi e rapporti governativi poco noti, in particolare britannici, e analizza pure dati francesi per proporre questa conclusione: trent’anni di ricerche mostrano che non esistono regole o teoremi generalmente validi sull’impatto economico dell’immigrazione in Europa. Ci sono effetti positivi ed effetti negativi. Nessuna generalizzazione è stata confermata da ricerche di lungo periodo. Il massimo che si può dire è che l’immigrazione di mano d’opera poco qualificata è nociva all’economia, perché questi immigrati «fanno lavori che nessuno vuole fare»… a quel prezzo: dunque alterano il mercato del lavoro – a danno, in particolare, dei cittadini non immigrati più poveri – e pagano contributi pensionistici modesti. L’immigrazione di mano d’opera altamente qualificata è invece, a certe condizioni, favorevole all’economia europea. È anche devastante per quella dei Paesi d’origine, il che è certo un altro discorso ma mostra bene le ambiguità cui ci si trova di fronte se si vuole affrontare il problema dell’immigrazione in termini morali. Il problema, infine, è ormai ampiamente storico se è vero – è il tema principale del libro della Tribalat – che l’immigrazione per lavoro è ormai minoritaria, sostituita da un’immigrazione per ricongiungimento familiare che ha ovviamente caratteristiche e conseguenze economiche del tutto diverse. Appena un cenno ad altri due temi statistici trattati dalla Tribalat. Il primo riguarda la concentrazione d’immigrati in banlieue o «ghetti», che resta molto significativa in Francia nonostante le misure prese per evitarla. La cosiddetta «de-ghettizzazione» non dà normalmente come risultato quartieri dove gli immigrati hanno come vicini francesi nati in Francia da genitori francesi, ma quartieri dove gli immigrati di una certa provenienza hanno come vicini immigrati di una provenienza diversa, il che comporta rispetto a un «ghetto» uniforme vantaggi ma anche svantaggi. Il secondo riguarda le costosissime indagini statistiche sul razzismo, costruite su domande-trabocchetto o provocatorie (del tipo «Lei quanto si considera razzista? Molto, poco,un po’…»). Dovrebbero mostrare che esiste in Francia un’emergenza razzismo, ma servono solo a giustificare gli ampi fondi erogati alle stesse organizzazioni anti-razziste che li commissionano e talora li gestiscono direttamente. Più interessante è il tema di fondo richiamato da espressioni come quella che fa riferimento ai francesi nati in Francia da genitori francesi. C’è un dato che in Francia – e in molti altri Paesi europei – è vietato per legge misurare, ed è quello etnico o razziale. Ci sono certamente ragioni storiche che spiegano questo divieto. Tuttavia, se la stessa normativa fosse esistita negli Stati Uniti sarebbero state impossibili le grandi inchieste sulla discriminazione degli afro-americani in alcuni ambiti lavorativi. Per condurre seriamente queste inchieste, non basta fare qualche domandina sul razzismo: occorre sapere quanti sono gli afro-americani, e qual è la loro proporzione sul totale rispettivo della popolazione degli Stati Uniti e di specifiche sotto-popolazioni. In Francia, precisamente, è vietato misurare con precisione quanti sono i residenti sul territorio «di origine» maghrebina o sub-sahariana, perché si sospetta che dietro questo conteggio se ne celi uno per razza, considerato manifestazione di razzismo. Si può misurare, non senza difficoltà, quanti residenti e cittadini francesi sono figli di genitori nati in Africa: ma non è possibile, per esempio, distinguere i francesi cattolici che vivevano, per esempio, nel Nordafrica per ragioni economiche e sono tornati in Francia – i cosiddetti pied noir – dai maghrebini arabi musulmani passati sul territorio francese. I problemi relativi non sono certamente semplici, ma desta perplessità il fatto che alcuni suoi illustri colleghi abbiano accusato la Tribalat di essere non solo «posseduta da una sorta di fanatismo demografico» ma effettivamente «malata» (p. 215) quando ha proposto alcune caute ipotesi per misurare la popolazione complessiva che origina direttamente o indirettamente da fenomeni d’immigrazione. Se fosse vero che in alcune grandi città francesi questa popolazione, che è vietato misurare, supera il terzo dei presenti sul territorio l’impatto sull’opinione pubblica sarebbe certamente degno di nota. Di qui l’interesse politico a nascondere dati di questo genere, se necessario anche attraverso divieti legali. Senza volere in alcun modo applicare meccanicamente le riflessioni della Tribalat, che non cita quasi mai il nostro Paese, all’Italia, ce n’è abbastanza per importare anche da noi un sano realismo che induca a diffidare di statistiche, quando si tratta d’immigrazione, troppo spesso riviste al ribasso o edulcorate. E per riflettere sulle nuove caratteristiche dell’immigrato, che corrispondono sempre meno spesso all’immagine di chi viene a cercare lavoro e sempre di più alla figura di chi arriva per un «ricongiungimento familiare» che corrisponde a processi «autogenerati» e a semplici ridistribuzioni della popolazione internazionale, con conseguenze socialmente devastanti che le statistiche velano piuttosto che rivelare.

 
Fonte: Cesnur, 30 maggio 2010