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Ma la malattia si guarisce con la morte?
Diventa sempre più chiaro che all’orizzonte delle battaglie pro-eutanasia c’è un cambiamento antropologico dello sguardo sulla malattia e sulla vita in generale. Lo capiamo da tanti segni. In primo luogo, la mitezza di certe sentenze. Il 17 dicembre una donna che aveva affogato la figlia di 26 anni disabile è stata condannata a due anni con la condizionale; i genitori di un giovane paraplegico inglese di 22 anni, che hanno accompagnato il figlio al suicidio assistito in Svizzera, non sono neanche stati processati; nell’agosto 2007 in Francia un marito ha ucciso a fucilate la moglie colpita da Alzheimer ed è stato condannato ad un anno con la condizionale. Insomma, sembra che stia passando nella mentalità comune che la morte sia una risposta 'comprensibile' e alla malattia, tanto che la punizione arriva attenuata a chi provoca o incoraggia la morte.
Ma se far morire dei disabili è guardato con indulgenza, come stupirsi quando vediamo che i disabili malati vengano 'mal-trattati'? Ed ecco dunque l’altro segno: la perdita di attenzione nelle cure ai disabili.
Uno studio canadese mostra che tra i malati di Sla che chiedono di morire c’è un alto tasso di depressi… ma la depressione è curabile; e giustamente un articolo sul British Medical Journal afferma, constatato il tasso di depressione tra chi chiede di morire, che la legge sull’eutanasia fa finire col non proteggere i pazienti le cui scelte sono influenzate dalla depressione.
Neanche gli anziani depressi, secondo uno studio, sono trattati a dovere: solo il 10% viene mandato da uno specialista contro il 50% dei depressi più giovani. Ci si stupisce che poi qualcuno chieda di morire? E uno studio del governo inglese sulla disabilità mostra che «i pazienti vengono ignorati e le loro condizioni lasciate non diagnosticate e non trattate perché settori del Servizio Sanitario vedono solo la loro disabilità e non la loro malattia»; mentre i giornali riportano inquietanti storie di pazienti con handicap trattati con scarsa attenzione proprio perché i medici si arrestano a vedere la loro disabilità di fondo e non approfondiscono invece le malattie che li colpiscono e talora li fanno morire.
Vale la pena notare che, mentre in Italia stiamo ancora dibattendo su casi limitati di eutanasia, all’estero il dibattito si sposta sul suicidio assistito, cioè la fine della vita su richiesta anche in casi in cui la vita non è in pericolo. Si sta aprendo insomma un sentiero che porta a vedere la malattia come qualcosa che non sappiamo più concepire e affrontare, di cui abbiamo così paura da trovarla anche dove essa non c’è e decidere noi che la vita è divenuta 'malattia'; e che porta a considerare certi malati come soggetti cui la malattia ha fatto perdere dignità umana. I primi a farne le spese sono i malati che si sentono in pericolo in una società che considera cittadini solo coloro che hanno certe capacità, cioè la voglia di cancellare dall’orizzonte ogni segno che richiami all’umana finitezza, trasformando lo sguardo verso il disabile in censura o al massimo in compassione e inducendo l’idea falsa che certe disabilità inficino la dignità umana. Ma tutti siamo a rischio, dato che potremo a nostro arbitrio considerare la vita stessa come una malattia da cui chiedere di guarire con la morte (dopo un fallimento, in caso di depressione), e nessuno si potrà opporre. Già: oggi se vediamo un ragazzo che si vuole suicidare ci diamo da fare per bloccarlo; un domani tentare di opporvisi sarà molto probabilmente considerato reato.
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