Il postino suona ad un campanello, poi ad un altro e ad un altro ancora, ma oltre a consegnare le lettere si intrattiene con le varie casalinghe annoiate che gli offrono disinvoltamente del cibo e (forse) le proprie grazie. Una volta tornato a casa il postino si ritrova con la moglie la quale, davanti al rifiuto del marito di mangiare i suoi manicaretti, gli rompe un bicchiere in testa in modo feroce.
Non è la scena di un film o una vicenda di cronaca, ma la rapida sequenza di una pubblicità televisiva che, a mia memoria, qualche tempo fa reclamizzava una gomma da masticare.
Si tratta in realtà solo di un esempio, tra i molti possibili, di come la rappresentazione della violenza femminile sia non solo ammessa senza problemi in numerosi contesti mediatici, ma anche utilizzata con una certa disinvoltura in quella fabbrica di luoghi comuni che è il mondo della pubblicità.
Una ricerca mirata su youtube può dare conferma di quanto dico e, comunque, la gamma degli esempi è molto più vasta.
Non sembra necessario scomodare titoli, autori o attori di situazioni in cui una qualche lei, sempre arrabbiata con un qualunque lui, tira ceffoni, getta bevande in faccia, sbraita, scalcia, minaccia, spintona, aggredisce, mortifica, urla e strepita; in alcuni casi spara e uccide, in altri si limita ad assassinare l'amor proprio dell'altro, come nella famosa scena dell'orgasmo simulato di Meg Ryan (non a caso diventato una scena cult) o nella comicità ossessivamente misandrica della Littizzetto (non a caso diventata personaggio cult).
Di casi simili ne incontriamo quotidianamente, nei film e nelle fiction, nei racconti e nelle cronache, nella vita comune e, appunto, anche nelle banali pubblicità a cui siamo oramai avvezzi.
Ben lontano dal suscitare contrarietà o fastidio, la donna che schiaffeggia, colpisce, umilia e maltratta gli uomini è infatti un modello ben radicato, popolare e vincente, costantemente alimentato da una rabbia verso il «maschio» sempre viva ed attuale, sempre giustificata in qualche modo diretto o indiretto ed apparentemente inestinguibile.
Se poi la violenza femminile ha anche risvolti comici che ridicolizzano la figura maschile, aggiungendo al danno anche la beffa, allora tanto meglio; l'effetto sarà per molti/e ancora più gratificante e completo, praticamente un trionfo.
Sin qui i termini di un (ri)sentimento sociale molto comune ma non altrettanto chiaro nelle sue intime (e in qualche caso sadiche) ragioni particolari; ma, soprattutto, un fenomeno volutamente ignorato dalla cultura egemone, anche nelle sue dimensioni e profondità generali.
Si deve, quindi, sicuramente essere riconoscenti agli autori dell'Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile - pubblicato sulla Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza, nei giorni scorsi - per avere quantomeno cominciato ufficialmente ad intaccare quel tabù pressoché intangibile che è rappresentato dallo stereotipo dominante della donna vittima.
I risultati dell'indagine condotta con i metodi del sondaggio, poi tradotti in cifre e percentuali statistiche, rivelano infatti una realtà femminile molto diversa e decisamente molto meno angelicata e vittimizzata di quanto si vorrebbe.
Il dato che impressiona maggiormente, tra i molti disponibili al relativo link, è che tutti i 1.058 soggetti maschili in età adulta intervistati nel contesto della ricerca hanno dichiarato di avere subito, almeno una volta, qualche violenza fisica da parte di una donna (item A8); ossia tutti - nessuno escluso, prima o poi, e lo confermo anche personalmente - hanno (abbiamo) avuto a che fare con i modi maneschi e intolleranti di una qualche tizia dai nervi bollenti, modi resi ancora più insopportabili dalla pratica impunità dietro alla quale si esprimono e si riparano questo tipo di escandescenze femminili.
Ma non solo di violenza fisica si tratta, in quanto la ricerca esamina anche altre situazioni che lasciano sbalorditi per l'ampiezza e la profondità del fenomeno dichiarato: il 63,1% del campione ha sostenuto di aver subito almeno un episodio di violenza fisica, il 48,7% violenza sessuale, il 77,2% violenza psicologica o economica e il 31,9% di aver subito almeno un atto persecutorio nel corso della propria vita.
Le proiezioni statistiche conclusive dicono che a fronte dei 14 milioni di donne sottoposte ad abusi e violenze - come si va raccontando da diversi anni - ci sarebbero pertanto circa 5 milioni di uomini sottoposti a violenze fisiche, quasi 4 milioni di uomini sottoposti a violenze sessuali, oltre 6 milioni di uomini violentati psicologicamente e oltre 2 milioni e mezzo di uomini che hanno subito atti persecutori.
Naturalmente, le dimensioni eclatanti di questi numeri (tutti considerati) inducono a più di qualche perplessità.
Prima delle quali è quella che abbiamo già espresso a suo tempo quando, richiamando l'attenzione sull'artificioso e deformante presupposto ideologico dell'uguaglianza tra i sessi, abbiamo sostenuto che il punto nodale non è «stabilire chi sia più violento tra maschi e femmine e con quale frequenza, dato che, com'è evidente, la mano di una donna non sarà mai tanto pesante ed intimidatoria come quella di un uomo».
Mettersi a competere con il mondo femminile (e femminista) sul piano del vittimismo non appare, in questo come in altri casi, un'idea né particolarmente brillante, né particolarmente dignitosa.
Ma se è vero che la violenza femminile non raggiunge lo stesso grado di pericolosità potenziale di quella maschile, tranne che in rari casi criminali, questo non significa affatto che la donna media non sia capace di risentimento, odio e violenza come un uomo; anzi, sicuramente di più, in quanto a differenza di ogni uomo ogni donna sembra essere socialmente esonerata dall'esercizio obbligatorio e disciplinante del self-control.
Che è poi in effetti l'elemento che emerge con particolare forza dall'indagine, laddove si consideri che la percezione dominante degli intervistati - con la quale si devono comunque fare i conti - è quella di un mondo femminile che si atteggia al rapporto con l'altro sesso con una libertà di comportamenti pressoché assoluta ed un senso del rispetto assai raro; entrambi presupposti di una violenza auto-indulgente che trova nell'inferiorità fisica una giustificazione per esprimersi senza tanti limiti e senza tanti riguardi.
Il che è ovviamente inaccettabile.
Resta un'ultima considerazione a riguardo dell'entità delle cifre.
Se è vero che i dati appaiono gonfiati oltremisura - comunque distanti dalla nostra percezione ordinaria della realtà - è altrettanto vero che questa stessa incongruenza dovrebbe riguardare, a maggior ragione, la più attrezzata ricerca sulla violenza contro le donne condotta nel 2006 dall'ISTAT (quella che avrebbe fissato in 14 milioni, appunto, il numero delle "vittimizzate"); ciò in ragione del fatto che identiche sono le modalità d'approccio al problema, identici gli strumenti euristici utilizzati (ossia, le ipotesi qualitative d'indagine) nonché la metodologia di raccolta dei dati attraverso interviste guidate.
In una sorta di inattesa legge del contrappasso, la tanto invocata parità di genere conduce insomma ad un bivio obbligato: o la definizione "extralarge" di violenza viene presa per buona in assoluto, tanto per i maschi quanto per le femmine, portando così alla descrizione di un mondo dominato dagli abusi e dalle sopraffazioni in una sorta di apocalisse quotidiana; oppure le metodologie d'indagine sociologica utilizzate tanto per la ricerca ISTAT del 2006 quanto per l'attuale indagine conoscitiva sono oggettivamente inadeguate e prive della necessaria calibratura e solidità scientifica.
Nel qual caso dovrebbe essere la stessa nozione di violenza ad essere ripensata, pur nella consapevolezza della sua irriducibile complessità, per depurarla delle enormi scorie ideologiche, formalistiche e vittimistiche da cui appare obiettivamente gravata, ed essere nuovamente misurata con gli occhi puliti della scoperta e gli strumenti adeguati del rigore scientifico.
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