Com'è strana e paradossale la società. Siamo persuasi di essere padroni delle nostre azioni, dei nostri gusti, dei modi di comportarci. Di essere liberi e indipendenti! La realtà però è più complessa e per molti versi inquietante. Come ha osservato brillantemente e con straordinaria preveggenza un grandissimo sociologo francese, Jaques Ellul, la tendenza all'individualizzazione crea una dissonanza cognitiva permanente. Mi spiego. La civiltà dei consumi e della grande urbanizzazione induce i cittadini a recidere i propri legami culturali, religiosi, familiari, da qualche tempo perfino l'identità sessuale, e a perdere il senso della comunità. Viviamo nel mito del superuomo e della superdonna, che spinge a sublimare esclusivamente il proprio io e induce a credere di compiere scelte consapevoli e molto intelligenti. «Io so quel che voglio e lo ottengo».
È il trionfo dell'ego, che genera un'illusione. L'individuo ritiene di essere forte, in realtà è molto debole, perché isolato, quindi fragile, quindi facilmente influenzabile nelle sue scelte e nei suoi valori; alla fine i suoi costumi, i suoi valori (o presunti tali), i suoi smarrimenti esistenziali sono la risultanza della dissonanza fra quel che si crede di essere e quel che si è in realtà. Jacques Ellul era un pensatore cristiano, scomparve nel 1944, e non ha vissuto l'era digitale, ma viveva già in un Occidente dove attraverso la pubblicità, lo spettacolo, il cinema, la televisione, più in genere attraverso lo show biz si orientano i comportamenti delle masse attraverso tecniche che sono sconosciute ai più, ma che furono inventate dal nipote di Freud, Edward Bernays, poco meno di cento anni fa. Nel 1928, nel suo celebre saggio l'ingegneria del consenso, scriveva: «se capisci meccanismi e le logiche che regolano il comportamento di un gruppo, puoi controllare e irreggimentare le masse a tuo piacimento e a loro insaputa». Bernays, i cui studi peraltro ispirarono il capo della propaganda nazista Joseph Goebbels, operò soprattutto nel campo delle public relations industriali, con risultati indubbiamente spettacolari. Il suo primo "colpo" è passato alla storia.
FILM E SETTIMANALI
Qual è uno dei simboli più forti dell'emancipazione femminile? La donna che fuma. Non certo nell' Occidente di oggi dove, semmai, il tabacco viene giustamente osteggiato, ma fino a pochi anni fa indubbiamente sì. Chi ha i capelli grigi ricorda molto bene le copertine dei settimanali con le attrici famose che fumano una sigaretta sfoggiando uno sguardo intrigante, adornate da titoli di questo tenore: «Sì, io sono una donna libera». I cinefili possono evocare i tantissimi film in cui la protagonista fuma per vincere le proprie insicurezze (Bridget Jones), o per reggere lo stress di una battaglia morale (Erin Brockovich), o per liberarsi da un marito oppressivo e violento (Thelma & Louise). Fino a pochi anni fa anche le pellicole o le fiction dedicate agli adolescenti contenevano continui ammiccamenti per rendere mitologica e premiante la sigaretta. Per gran parte del secolo scorso fumare ha rappresentato un gesto di sfida e di affermazione della propria indipendenza in una società tradizionale, benpensante e restia a riconoscere la parità dei diritti. E io a lungo sono rimasto convinto che si trattasse di un fenomeno sociale spontaneo, solo in un secondo tempo recepito e rilanciato dal cinema, ma quando vent'anni fa ho iniziato i miei studi sulle tecniche di condizionamento mediatico sono stato costretto a ricredermi. Oggi quasi nessuno sa che il fumo come simbolo di ribellione femminile non fu affatto spontaneo, bensì fu inventato da Bernays. Naturalmente su commissione. Era il 1929 e per contrastare i frequenti attacchi all'industria del tabacco Bernays organizzò a New York, durante una partita pubblica, la “Fiaccolata della Brigata della Libertà", durante la quale fece sfilare decine di ragazze in modalità anticonformista. E che ragazze: modelle alte che indossavano i pantaloni (mentre all'epoca le donne portavano solo gonne), una camicia bianca, grandi bretelle nere e portavano sul capo un basco reclinato. Quelle ragazze fumavano ostentatamente.
L'IDEA HA FATTO SCUOLA
Quella provocazione per le vie della Grande Mela suscitò enorme clamore nell'opinione pubblica. Era un'America tendenzialmente puritana e a fare opinione erano i giornali, che naturalmente si scatenarono, innestando polemiche anche feroci. Lo scandalo fu clamoroso e accolto euforicamente da Bernays, che centrò il suo obiettivo. Il simbolismo era perfetto, per quanto subliminale. La liberà evocava un valore essenziale per la cultura americana, la brigata è una forma di ribellione che ha un'accezione positiva, la torcia evoca la sigaretta ed emette fumo. Le polemiche in realtà ebbero l'effetto opposto rispetto a quello auspicato dagli indignati editorialisti statunitensi, poiché indussero centinaia di migliaia di donne a emulare le suffragette newyorchesi e dunque a sublimare un messaggio capace di cambiare i costumi di intere generazioni: chi vuole essere anticonformista e indipendente non può non fumare. Grazie al nipote di Freud il produttore di sigarette che aveva commissionato quella campagna triplicò in breve tempo le vendite. E da allora il simbolo non ha smesso di diffondersi in tutto il mondo. Anche negli anni Duemila la sigaretta continua a essere nei Paesi in via di sviluppo l'emblema dell' emancipazione femminile. Il punto è che quell'iniziativa di Bernays non è rimasta isolata, ma ha fatto scuola.
La nostra società, è bombardata continuamente da mode, messaggi, iniziative che mirano non solo a un ritorno commerciale ma a favorire un cambiamento permanente nei costumi, che diventa estremamente proficuo per ragioni facilmente intuibili. Lo scopo può essere economico: se i ragazzi iniziano a portare un certo tipo di maglietta, l'industria ne beneficerà. Ma può essere anche politico e valoriale. La società globalizzata prosegue lo sradicamento delle tradizioni, delle identità, dei valori per rendere sempre più uniformi gli stili di vita delle popolazioni nei diversi continenti. E non potendo indurre il cambiamento con la forza, come avviene nelle dittature, lo promuove attraverso le tecniche di persuasione psicologiche, e sociologiche, che da tempi di Bernays sono stati ulteriormente affinati e che hanno trovato nel mondo digitale un mezzo straordinariamente efficace. Oggi le sigarette non vengono più spinte dall'industria dell'intrattenimento ma i sociologi più smaliziati possono cogliere molti ambiti in cui il messaggio è palesemente distonico. Il più sconcertante è quello delle droghe. I governi e le forze dell'ordine sono impegnati in una battaglia contro il traffico e la diffusione degli stupefacenti ma nei film e nelle fiction si tira continuamente di cocaina, mentre nelle interviste attori di grido non perdono occasione di ricordarci quante droghe hanno consumato. Messaggio subliminale: la droga fa figo o perlomeno così fanno quelli "giusti". E tanti, troppi giovani si lasciano tentare. Come ai tempi delle sigarette, anche oggi il vero condizionamento è invisibile. E per questo davvero pericoloso.