GLI INTERESSI CHE SONO DIETRO LA DEFINIZIONE DI MORTE CEREBRALE
Intervista al professor Paul Byrne: morte cerebrale... o eutanasia?
Autore: Veronica Rasponi
Paul Byrne, neonatologo, è professore di Pediatria presso la Facoltà di Medicina dell'Università dell'Ohio (Stati Uniti) e direttore del reparto di Neonatologia e Pediatria al St Charles Mercy Hospital dell'Ohio. Dopo una vita dedicata a fare nascere bambini, a salvare neonati in difficoltà e a combattere contro la piaga dell'aborto, lo abbiamo incontrato a Roma, durante un convegno, nel quale difendeva un altro momento fondamentale della vita umana: la morte. Finis Vitae, il libro che veniva presentato al Consiglio Nazionale delle Ricerche, comprende una serie di saggi sul tema della "morte cerebrale" tra i quali quello del dott. Byrne su: Morte: l'assenza della vita. Gli abbiamo dunque posto alcune domande. Dott. Byrne, sappiamo che lei è qui per presentare l'edizione italiana di un libro sul tema della "morte cerebrale" Ci può anzitutto dare una definizione di "morte cerebrale"? Il termine "morte cerebrale" può voler significare almeno tre cose diverse: 1) potrebbe trattarsi di una vera morte; 2) il paziente potrebbe avere la totalità del cervello, o parte di esso, distrutta; 3) ci potremmo trovare di fronte alla cessazione solo di alcune funzioni del cervello. Se così è, perché oggi quando si parla di "morte cerebrale" si tende a credere che ci si trovi di fronte ad una "vera"morte? La ragione per cui si è sviluppato il concetto di "morte cerebrale", intesa come "vera" morte, è per poter prelevare organi vitali per i trapianti. Prima del 1968 non vi era alcuna possibilità di recuperare organi per i trapianti. Gli unici organi che venivano trapiantati erano i reni. Poi è stato inventato il concetto di "morte cerebrale" con il quale si possono ottenere altri organi vitali come il cuore e il fegato. Il fondamento di questo concetto non era però in accordo con la scienza medica ordinaria che si sviluppa sulle ricerche della scienza di base. Partendo da questi studi, viene svolta con precauzione la ricerca clinica che deve prestare molta attenzione alla protezione dei pazienti ai quali vengono somministrati i nuovi trattamenti in via sperimentale. Ebbene, questo approccio precauzionale non è stato seguito con la "morte cerebrale". Ma come e quando è nato questo concetto? Il concetto di "morte cerebrale" è stato sviluppato nel 1968 da un comitato dell'Università di Harvard il cui rapporto finale è molto chiaro fin dal suo incipit. «La nostra intenzione principale è definire il coma irreversibile come nuovo criterio di morte». Ma nessuno studio scientifico serio aveva dimostrato questo fatto. Era stata solo osservata l'assenza di riflessi di alcune cellule cerebrali su pazienti che erano attaccati a dei ventilatori. I ventilatori venivano dunque staccati per vedere se i pazienti erano in grado di respirare senza. Quando il paziente non riusciva da solo a respirare veniva allora dichiarata la "morte cerebrale" che diventava il segnale per poter procedere all'espianto degli organi. Questo è stato fatto senza aver svolto degli studi di scienza di base e senza pubblicare i risultati delle ricerche effettuate sui primi pazienti. Successivamente, furono stabiliti nel 1971 i "criteri del Minnesota": su nove pazienti sui quali venivano registrate le onde cerebrali, due avevano effettivamente dimostrato attività "biologica". La conclusione dell'esperimento è stata che non era più necessario studiare le onde cerebrali prima di dichiarare la "morte cerebrale" di una persona. Successivi approfondimenti e studi furono fatti su 500 pazienti: 44 di essi non morirono e di quelli che morirono, il 10% non aveva nessun problema con il cervello. Questi risultati vennero pubblicati nel 1977 sul giornale dell'Associazione Medica americana. I ricercatori raccomandarono criteri validi per poter giungere a un esperimento medico più ampio ed approfondito che non venne però mai eseguito. E questo perché, avendo già iniziato il prelevamento di organi, nessuno voleva approfondire una questione che avrebbe potuto bloccare un'attività già in piena espansione. Ma questo non va contro l'etica medica? L'antico giuramento ippocratico esorta il medico: «aiuta, guarisci, non nuocere, non uccidere». L'etica medica impone che la vita venga protetta e preservata dal concepimento fino alla fine naturale. La morte è l'evento che pone fine alla vita, così come la nascita è l'inizio della vita. I sostenitori della "morte cerebrale" considerano la morte come un "processo" che si sviluppa nel tempo. Ma se così fosse, finché siamo nel processo, vi è ancora vita. Ma noi dobbiamo stabilire un momento della morte e così come era evidente nel passato, non lo è più con il nuovo concetto di "morte cerebrale". Non possiamo essere sicuri fisicamente di questa morte perché vi è ancora il cuore che batte, vi è ancora la respirazione, anche se aiutata da un ventilatore, vi sono ancora i movimenti del corpo o qualche forma di azione. Non possiamo dunque definire queste persone "morte". Il medico dovrebbe proteggere la vita e confortare i parenti che a lui si affidano. Non può dichiarare "morto" ciò che morto non è. Non si può contraddire la verità applicata da sempre nel campo medico. Purtroppo però i fautori della "morte cerebrale" non sono interessati a conoscere la verità ma si preoccupano solo di ottenere organi. Siamo dunque all'eutanasia? L'eutanasia è una morte imposta dal dottore, dai parenti o dal paziente stesso. Quando qualcosa è fatta deliberatamente al paziente per provocarne la morte, si può definire eutanasia. Il termine "eutanasia" è un termine che crea confusione perché "eu" viene dal greco e vuoi dire "buono" e "thanatos", di stessa matrice greca, vuoi dire "morte". In realtà, piuttosto che usare il termine di "buona morte", sarebbe più opportuno utilizzare quello di "morte imposta", che, applicata ai non-nati, si chiamerebbe "aborto", applicata ai bambini appena nati sarebbe l'"infanticidio", applicata agli adulti si chiamerebbe "assistenza medica al suicidio". In questo senso la "morte cerebrale" può essere definita come una "morte imposta" per recuperare organi vitali. Lei ha citato l'aborto. In fondo la sua professione è legata all'inizio della vita, non alla fine. Cosa prova ogni volta che fa nascere un bambino? Non si smette mai di essere meravigliati dalla bellezza della vita. Ogni persona è unica e irripetibile e identificabile da molte caratteristiche: dal colore della pelle, degli occhi, dei capelli, e così via. Il DNA identifica geneticamente ognuno di noi fin dal primo momento della concezione e il DNA lo troviamo in tutte le nostre cellule, in tutti i nostri organi. Bisognerebbe portare le persone a capire l'unicità e l'irripetibilità della vita umana, fatta ad immagine e somiglianza di Dio. Con il dono della vita, noi riceviamo anche quello dell'intelligenza e della libertà che di per sé dovrebbe spingerci a cercare il bene e ad evitare il male. Come noi dobbiamo preservare la nostra vita, e siamo portati a farlo naturalmente, così dobbiamo preservare quella delle altre persone, principalmente dei più deboli e indifesi. La vita va dunque protetta fin dal primo istante. Qual è l'impatto sulla società dei movimenti pro-vita americani? A me sembra che i giovani siano molto più attivi e convinti delle persone della mia età. Basti pensare alla March for Life che si svolge a Washington ogni 22 gennaio per protestare contro la legge che legalizzò l'aborto in America: la maggior parte dei partecipanti ha meno di 40 anni. Ma purtroppo vi sono attivisti in tutti e due gli schieramenti. Molti sono coloro che sono contrari all'aborto ma solo in parte, con dei distinguo. Tra queste persone vi sono molti politici che per questo motivo non fanno una vera campagna contro. A me questa sembra una posizione non razionale. I movimenti pro-vita sono comunque molto attivi sia a livello nazionale, come l'American Life League o il Human Life International, che a livello locale. Per esempio nel South Dakota, il governo locale aveva votato in favore della liberalizzazione di qualsiasi tipo di aborto, senza restrizioni. I gruppi pro-vita non si sono dati per vinti e hanno ottenuto di andare al referendum che ha respinto la legge. E in questa attività di sensibilizzazione, quale ruolo svolge il clero cattolico? La posizione ufficiale della Chiesa è contraria all'aborto ma purtroppo solo pochi sacerdoti e vescovi osano parlare chiaramente. Le chiese, negli Stati Uniti, beneficiano di un regime "esentasse", ma questo presuppone che non debbano parlare di questioni politiche. Se lo fanno, vengono "minacciati" di perdere questo status. Questo fa sì che molti hanno paura di parlare ufficialmente, anche se in privato la maggior parte dei vescovi e dei sacerdoti sono assolutamente contrari.
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Fonte: Radici Cristiane, n. 33 Aprile 2008
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