OFFENSIVA, RAZZISTA, ANTIEDUCATIVA? ELIMINARE LA DIVINA COMMEDIA DAI PROGRAMMI SCOLASTICI SAREBBE UN SUICIDIO CULTURALE
Purtroppo a scuola già ora è ridotto lo spazio dedicato a Dante... i giovani invece lo riscoprono con grande entusiasmo
Autore: Giovanni Fighera
La Divina commedia sarebbe profondamente offensiva, razzista, antieducativa, secondo Valentina Sereni, Presidente di Gherush92, organizzazione di ricercatori e professionisti che svolge progetti di educazione allo sviluppo e ai diritti umani, accreditata presso l'ONU. Andrebbe per questo eliminato il suo studio nei programmi scolastici, perché antisemita, islamofoba, addirittura contro i sodomiti. Certo, c'è da sorprendersi, perché la Commedia, che è stata tradotta in tutte le lingue del mondo e anche in arabo, è apprezzata ovunque. Farideh Mahdavi-Damghani, che ha tradotto in persiano La vita nova e la Divina Commedia, ha detto: «La gente in Persia non conosceva Ravenna, non sapeva che è la città in cui è sepolto Dante, ma vedendo tutto quello che io amo fare per questa città, leggendo le mie traduzioni, il pubblico persiano ora conosce Ravenna. C'è questo paradosso: siamo lontani dal punto di vista culturale, ma nello stesso tempo siamo molto vicini: le credenze sulla famiglia, sull'emotività, sull'amore per la poesia e la letteratura, cose primordiali che forse per altri paesi hanno minore importanza, sono molto simili in Italia e in Persia. Quindi si può dire che gli italiani somigliano ai persiani». Si tranquillizzi, però, Valentina Sereni. Purtroppo, i dati sullo studio della Commedia nelle scuole superiori e nelle università denunciano già un grave abbandono dello studio del capolavoro dantesco. Quando nel 2005 e nel 2007 sono state assegnate per la prima prova dell'Esame di Stato nelle scuole secondarie superiori terzine tratte dalla Commedia (rispettivamente dal canto XVII e dal canto XI), l'esito non è stato dei più confortanti: una percentuale davvero irrisoria di maturandi (attorno al 4-5 per cento) si è cimentata con il monumentale capolavoro. E pensare che il Ministero aveva provveduto addirittura ad accompagnare i versi danteschi con alcune postille in funzione di commento e di parafrasi. Il dato non era che l'ennesima riprova dell'attenzione sempre minore che nelle scuole superiori veniva riservata allo studio delle tre cantiche. All'università, però, la situazione non è migliore. Anzi. Solo vent'anni fa alla Statale di Milano si studiavano tutti i cento canti negli esami di Letteratura italiana I e II del corso di Laurea in Lettere. Che cosa è rimasto di questa formazione dantesca? Solo la lettura di alcuni canti per cantica? Uno studente che intraprenderà più tardi l'avventura dell'insegnamento può essere formato attraverso una conoscenza così parziale? Si dovrà provvedere più tardi alla formazione del neolaureato con dei corsi postuniversitari di specializzazione con i quali colmare la lacune? Recentemente un docente universitario mi raccontava della sua soddisfazione per il fatto che all'università era ormai cessata la preponderanza dello studio di Dante che aveva caratterizzato gli ultimi decenni. Era ormai ora di svecchiare lo studio della letteratura, di trattare autori più moderni e più attuali. Pochi mesi dopo questa confidenza lo stesso docente venne invitato ad una serie di incontri con famosi dantisti internazionali, organizzati presso quella sede da studenti. Rimase stupito dalla presenza numerosa di ragazzi alla serata e dall'entusiasmo con cui l'iniziativa era stata promossa. L'interesse dei giovani per la Divina commedia è stato tale che laddove il mondo accademico ha voluto smantellare il tradizionale apparato e volume di studio del capolavoro dantesco gli stessi giovani si sono fatti promotori di una lectura Dantis integrale. Allora ci chiediamo: perché se da un lato il mondo scolastico e accademico mette da parte Dante, alcuni giovani lo apprezzano e sopperiscono alle carenze delle istituzioni? Perché leggere la Commedia, a settecento anni dalla sua composizione? Il capolavoro dantesco può ancora parlare a noi uomini del 2012? Proviamo a sentire lo stesso Dante. Il Fiorentino ci spiega perché ha scritto la Divina Commedia in una lettera indirizzata a Cangrande della Scala, insieme al Paradiso. Il fine è quello di rimuovere i viventi, cioè noi finché siamo in vita, dalla condizione di miseria, di peccato, di tristezza, e accompagnarci alla felicità e alla beatitudine. La Divina Commedia è stata scritta perché potessimo intraprendere il viaggio verso la felicità e la salvezza eterna. Dante ha pensato a sé e a coloro che avrebbero chiamato il suo tempo antico, cioè i posteri. Inoltre, il poeta mette subito in collegamento la questione della bellezza con la felicità e addirittura con la salvezza eterna. Il compito di cui si sente investito è la testimonianza della verità vista e incontrata. La consapevolezza di una simile missione lo spaventa. Tutti noi siamo, talvolta, tentati di rifiutare la missione che c'è stata assegnata, adducendo la scusa di non essere all'altezza, proprio come lui all'inizio dell' Inferno. Virgilio, però, lo persuaderà a intraprendere il viaggio nel canto II rivelandogli che è voluto dal Cielo, ovvero che il suo operato è strumento e cooperazione del disegno del Cielo. Dopo alcuni giorni di viaggio nel mondo ultraterreno, si ripresenta la tentazione di non obbedire al compito assegnatogli. Accade nel canto XVII del Paradiso. Il trisavolo Cacciaguida preannuncerà al giovane parente l'esilio: «Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e 'l salir per l'altrui scale». Preso dal timore, Dante manifesta al trisavolo le sue perplessità ed è di nuovo spronato a compiere la sua missione. Ancora una volta, il monito è rivolto a tutti noi. La commedia parla dell'uomo, della vita, e lo fa con la potenza e la capacità di comunicazione del genio proprio di Dante. Se tutti sono colpiti dalle parole cortesi di Francesca, dalla forza d'animo di Farinata e dal suo desiderio di «ben far», dall'ardore di conoscenza di Ulisse è perché il poeta racconta storie che testimoniano il cuore dell'uomo di ogni tempo. La Commedia ci spalanca una finestra sulla vita e sull'uomo di oggi, come del passato. Avvertiamo una comunione universale tra noi moderni e gli antichi, tra la nostra e la loro aspirazione alla salvezza, alla felicità e all'eternità. Ci accorgiamo che l'antico Dante sa esprimerci meglio di quanto sappiamo fare noi, così come il maestro Virgilio nel viaggio sa intendere il discepolo meglio di quanto questi sappia fare. Tutto il viaggio rappresenta il cammino nella vita di ogni uomo. Nel Dante che vuole salire il colle luminoso da solo, all'inizio dell'Inferno, ci ritroviamo noi tutti. Dobbiamo sperimentare che da soli non riusciamo a salire e dobbiamo come Dante mendicare e gridare «Miserere di me». Per grazia incontriamo una compagnia umana che ci salva dalla selva oscura, con cui poter intraprendere il viaggio di salvezza. Non c'è verso della Commedia in cui non si respiri l'esperienza e la fatica di uomini che vogliono fare da soli e rifiutano la luce di Dio o di uomini che, invece, si lasciano abbracciare dall'amore e dalla grazia. Così quando nel canto III del Purgatorio Virgilio è dispiaciuto per un piccolo errore che ha commesso, Dante auctor esclama: «O dignitosa coscienza e netta/ come t'è picciol fallo amaro morso», ovvero il poeta dice che tanto più una persona è pulita nella coscienza tanto più si sente responsabile e peccatore. E pochi versi dopo ancora scrive che i suoi piedi lasciarono andare la fretta «che l'onestade ad ogn'atto dismaga», ovvero la fretta toglie, sottrae la bellezza ad ogni cosa bella. Qualunque cosa tu faccia, falla bene, per non sminuirne la bellezza. E poi ancora leggiamo: «Perder tempo a chi più sa più spiace», cioè quanto più sei consapevole, tanto meno vuoi sprecare tempo. Una perla di saggezza dopo l'altra, che derivano dall'esperienza di vita dell'autore, che documentano e illuminano il nostro al di qua, prima dell'aldilà. Nello stesso canto Dante sintetizza in maniera potente l'aspirazione dell'uomo a conoscere la verità e il Mistero e ad un tempo la necessità della rivelazione: «Matto è chi spera che nostra ragione/ possa trascorrer la infinita via/ che tiene una sustanza in tre persone./ […] Se potuto aveste veder tutto,/ mestier non era parturir Maria». La Commedia è uno degli esiti più grandi e più belli che l'uomo abbia mai partorito. Charles Moeller dice addirittura che c'è una sola cosa che supera la bellezza della Divina Commedia, ed è la bellezza dei santi, persone che hanno incontrato un ideale così grande che nel loro volto è come se incarnassero questa bellezza. Noi siamo stati fatti da Dio per la bellezza, per l'amore, per la felicità. La bellezza darà sempre quello stupore, trasmetterà sempre l'entusiasmo e la speranza che ci permetteranno di ripartire. Nel film Le vite degli altri il protagonista lavora nella Stasi e spia la vita delle persone. A un certo punto si trova a controllare la vita di un artista. Nel tempo cambia vedendo come questi vive in maniera diversa l'amore, l'arte, la musica. Allora esclama: «Come si fa ad essere cattivi dopo aver sentito una musica così bella?». La vera bellezza porta al desiderio di cambiamento e di essere migliori, come quando ci innamoriamo davvero di una persona. Vogliamo essere all'altezza di questa persona e desidereremmo essere migliori di quello che effettivamente siamo. Per questo conviene ancora oggi affrontare l'avventura del viaggio con Dante. Vogliamo offrire solo un'avvertenza per la lettura. Non bastano l'apparato critico, le note, la parafrasi. Dante ci ha avvisato nel Convivio che un'opera di carattere sacro deve essere letta su quattro livelli: il letterale, l'allegorico, il morale e l'anagogico. Troppo spesso ci si limita nelle scuole a capire la lettera del testo dantesco e l'allegoria (il significato nascosto), senza la preoccupazione di intendere quello che Dante scrive per la nostra felicità (significato morale) e per la nostra salvezza (livello anagogico). Per ritornare a leggere la Commedia occorre un io che sia risvegliato e assetato di domanda di vita e di significato, che sia desideroso di «divenire del mondo esperto/ e de li vizi umani e del valore», che riscopra che la natura umana non è fatta come quella delle bestie, ma «per seguir virtute e canoscenza».
Fonte: La Bussola Quotidiana, 14/03/2012
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