BastaBugie n�915 del 05 marzo 2025

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BEATA ELISABETTA SANNA, LA PICCOLA SARDA DALLE BRACCIA PARALIZZATE
Nonostante il suo handicap a 19 anni è richiesta in sposa (il marito dice agli amici: ''Mia moglie non è come le vostre, è una santa!'') e resterà vedova a 37 anni con cinque figli
Autore: Gianpiero Pettiti

Ha le braccia atrofizzate e paralizzate, per cui non riesce a portare il cibo alla bocca e nemmeno a fare il segno di croce: una disabile, insomma, e per questo la vorrebbero proporre come protettrice di tutti i disabili del mondo. Il suo handicap è una conseguenza del vaiolo, contratto da bambina piccolissima, e di un'operazione maldestra: le è rimasta soltanto la possibilità di muovere dita e polsi, ma per poter mangiare deve utilizzare speciali bacchette in legno, realizzate apposta per lei.
Malgrado questa menomazione, soprattutto perché non è tipo da piangersi addosso, riesce ad avere una vita normale e felice, anche per le condizioni discretamente agiate della sua famiglia, che nel clima di generale povertà di Codrongianos (Sassari) si distingue per il reddito garantito dei campi che lavorano onestamente.
In Elisabetta Sanna soltanto le braccia sono inerti, perché in lei non mancano le idee e la volontà di tradurle in pratica: a casa sua si danno appuntamento le ragazze del paese per imparare catechismo, organizzare pellegrinaggi, occupare utilmente il tempo libero. E deve pure avere un buon seguito se nel 1803, quando ha solo 15 anni, alcune mamme del paese vanno a protestare ufficialmente dai suoi genitori, perché attira troppo le ragazze in chiesa.
Impedita a pettinarsi, lavarsi la faccia, cambiarsi d'abito da sola, ha sviluppato tuttavia le sue capacità residue che le consentono di impastare, infornare e sfornare il pane e, nessuno mai lo potrebbe immaginare, anche allevare figli. Neanche lei, a dire il vero, perché le sembra impossibile aspirare al matrimonio nelle sue condizioni e poi perché si sente profondamente attratta dalla vita religiosa pur essa non priva di difficoltà, senonché all'improvviso saltano fuori ben tre pretendenti.
Mentre mamma insiste perché si sposi e lei punta i piedi perché vuole andare in convento, si accorge di averli tutti contro, confessore compreso, a caldeggiare il suo matrimonio. Finisce per arrendersi e, potendo addirittura scegliere, dice il tanto sospirato "sì" a quello dei tre che è più povero, come a dire che con il matrimonio non è in cerca di una buona sistemazione.

UN MATRIMONIO CHE FUNZIONA
Incredibile a dirsi, il suo è un matrimonio che funziona e nel 1807, cioè a 19 anni, comincia ad essere sposa felice di un marito felice, Antonio Porcu. Tra il 20 novembre 1808 e il 20 novembre 1822 nascono sette figli, cinque dei quali sopravvivono, e lei riesce ad allevarli, possiamo immaginare con quanta difficoltà. Testimonianze giurate riferiscono che in quella casa il marito non fa nulla senza prima sentire la moglie e questa non finisce mai di dire di non esser degna d'un marito così buono.
Peccato che quest'ultimo muoia il 25 gennaio 1825, lasciandola vedova a 37 anni con cinque figli, il più piccolo dei quali ha solo tre anni. Senza perdersi d'animo, si riorganizza la vita e la vedovanza, facendo innanzitutto voto di castità, come a ribadire di non volersi più risposare, caso mai se ne fosse ripresentata l'occasione.
Insieme ai suoceri, con cui vive d'amore e d'accordo, avvia poi i figli più grandi al lavoro dei campi, mentre si prende cura dei suoi più piccoli, ma anche di quelli degli altri, perché non ha perso l'abitudine di aprir le porte di casa sua per far catechismo ed insegnare ai più piccoli a cantare e pregare. Si intensifica la sua partecipazione alla vita parrocchiale, senza che per questo ne risentano né l'educazione dei figli, né i lavori di casa, che tiene pulita come uno specchio.
Torna, in questo periodo, il desiderio della vita religiosa, ma si sente legata ai suoi doveri di famiglia e glieli richiamano in continuazione anche i confessori. Che non riescono però a toglierle dalla testa il desiderio di fare un pellegrinaggio in Terrasanta, verso la quale si sente irresistibilmente attratta, volendo almeno una volta nella vita posare i piedi sulla stessa polvere calpestata da Gesù.
Organizza il suo viaggio nel 1831, con la certezza che i suoceri baderanno ai figli e il fratello prete si prenderà cura del più piccolo fino al suo ritorno e si imbarca il 25 giugno. Il viaggio, però, subito si trasforma in incubo a causa di una burrasca, che per quattro giorni tiene in balìa delle onde la povera nave, costretta il 29 giugno ad un attracco d'emergenza a Genova.
Sfinita al punto di non reggersi in piedi, qui Elisabetta si accorge di non avere il visto per raggiungere la Terra Santa e, dato che per ottenerlo bisogna attendere mesi, insieme ad altri pellegrini raggiunge Roma con un viaggio via terra molto faticoso.

MAMMA SANNA
"Mamma Sanna" a Roma prende provvisoriamente alloggio in una locanda, ma ben presto le viene diagnosticato un grave problema di cuore per cui il medico esclude che, almeno per il momento, sia in condizioni di proseguire il viaggio o di rientrare in Sardegna perché non sopporterebbe la traversata. Tanto vale, quindi, trovare una sistemazione meno provvisoria e soprattutto più economica, visto che le sue risorse economiche si stanno esaurendo.
Poiché la donna ha imparato a malapena a leggere, ma non sa scrivere, è don Vincenzo Pallotti (che sarà il suo direttore spirituale e che la Chiesa poi ha proclamato santo) a scrivere in Sardegna, al fratello prete di Elisabetta, per comunicare le sue condizioni di salute e l'impossibilità di un ritorno immediato.
Per di più lei parla solo il dialetto sardo e non riesce a comunicare, perché nessuno a Roma lo capisce. Trova sistemazione in una soffitta, nei pressi della basilica di San Pietro, chiaramente una soluzione di fortuna e non certo ambita da molti, vista la difficoltà per accedervi e l'obbligo di condividerla con sgradevoli ed aggressivi topi, che saranno sempre suoi coinquilini.
Unico pregio è la sua collocazione, a ridosso della basilica, che per lei diventa la sua collocazione abituale: chi vuole trovarla è in San Pietro che deve andare a cercarla, sprofondata in preghiera sul nudo pavimento, in un angolo buio e seminascosto.
Dalle prime luci dell'alba, quando la basilica apre i battenti, fino a quando li chiude, un misterioso ininterrotto colloquio si svolge tra la donna dalle braccia inerti e il suo Dio, che evidentemente non ha problemi a capirla, anche se lo prega in strettissimo dialetto sardo.
Come sempre accade, dall'intesa dell'uomo con Dio nasce poi quella con gli uomini, che poco a poco cominciano a capire ciò che dice quella donna, vestita in modo strano e che sembra avere "un fagotto sulla testa", che passa indenne tra gli sberleffi dei monelli, che entra quasi di soppiatto nelle case dei poveri e dei malati per curare pulire e servire con le sue braccia paralizzate, che ha imparato ad ascoltare e comprendere affanni regalando parole di consolazione e di speranza.
C'è uno strano andirivieni nella sua soffitta infestata dai topi: nobili e poveri, cardinali e popolane, uomini d'affari ed esponenti della curia romana. Si è infatti sparsa voce che "Mamma Sanna" legga nei cuori, scruti le coscienze, investighi il futuro e interpreti il presente alla luce di Dio.
Tutto questo avviene sotto gli occhi della "Virgo Potens", cioè il quadro mariano che tiene in camera, e davvero "potente" si rivela la sua intesa con la Vergine, se davanti ad esso avvengono piccoli e grandi eventi straordinari, guarigioni fisiche e conversioni, tutte rigorosamente attribuite alla Madonna, anche se agli occhi del popolo non è del tutto estranea l'intercessione di questa donna che pare abbia davvero un filo diretto con il Paradiso. [...]

Nota di BastaBugie: Paolo Risso nell'articolo seguente racconta gli ultimi decenni della vita della beata a Roma. Ecco l'articolo pubblicato su Santi e Beati nel 2018:
Nel suo pellegrinare per le chiese di Roma, assetata di preghiera, Elisabetta si incontra, in San Pietro con il Maestro dei Penitenzieri, Padre Camillo Loria, che, ascoltata la sua confessione, le ordina di tornare in Sardegna. Ella è decisa ad obbedire, ma proprio in quel periodo di dubbio e di ansia sul da farsi, incontra nella chiesa di Sant'Agostino, un santo prete romano, Don Vincenzo Pallotti, dedito ad un proficuo vasto apostolato, in cui coinvolge numerosi laici, dando vita nel 1835 alla Società dell'Apostolato Cattolico.
Uomo di grande influenza sui religiosi e sui laici, ricco di un fascino singolare, Don Pallotti sarà canonizzato dal Santo Padre Giovanni XXIII nel gennaio 1963. Elisabetta è compresa e rasserenata da Don Vincenzo, che illuminato da Dio, vede la singolare missione a cui ella è chiamata nell'Urbe. Dirà: «Allora, mi quietai e dopo circa cinque anni che dimoravo a Roma, ebbi una lettera da mio fratello sacerdote che la mia famiglia era veramente lo specchio del paese e tutti ne erano edificati».
Davvero è il caso di dire che ognuno ha da Dio la sua vocazione, anche se qualche volta, può apparire difficile da comprendere.
Ma i santi sanno percepire la volontà di Dio. Elisabetta si dedica al lavoro che le basta per vivere in povertà e letizia e occupa grandissima parte del suo tempo nella preghiera e nella contemplazione di Dio. Per qualche tempo, collabora nella casa di Mons. Giovanni Saglia, segretario della Congregazione dei Vescovi e futuro Cardinale. Diventa terziaria francescana e soprattutto si occupa, come prima collaboratrice, nell'unione Apostolato Cattolico, fondato da Don Pallotti. Ai suoi figli in Sardegna, fa donazione di tutto quanto possiede, lieta di vivere in perfetta povertà. Chi la avvicina, dirà di lei: «Vedeva Dio in tutto e lo adorava in tutte le cose. L'amore di Dio era la sua vita. Ogni più grande interesse spariva di fronte all'interesse di Dio. Diceva spesso: Mio Dio, io vi amo sopra tutte le cose». Diventa nota a tutti la sua passione per l'adorazione eucaristica, specialmente per la Quarantore. Alla scuola di San Vincenzo Pallotti, cresce ancor più la sua devozione alla Madonna e la sua stanzetta, davanti a San Pietro diventa un piccolo santuario mariano dove si riunisce la gente a pregare con lei. Sembra che il cielo di Dio discenda in quella minuscola cella.
Da numerosissimi romani che hanno modo di avvicinarla è venerata come madre, anzi come santa. Lo stesso Don Pallotti la porta in grandissima stima e conduce i suoi figli spirituali ad ascoltare la sua parola.
Nel tempo della repubblica romana, quando il Papa Pio IX è esule a Gaeta e Roma è caduta nelle mani dei senza Dio, Elisabetta si dimostra di singolare fortezza, di fronte a coloro che la osteggiano: «Per chi preghi?», le domandano con ironia. «Per tutti!». «E anche per la Repubblica?». Risponde: «Io non conosco questa persona!». Don Pallotti muore il 22 gennaio 1850, morte prevista da Elisabetta la quale ora è ancora più sola. Intensifica la sua preghiera e il suo apostolato. Ora è davvero la santa che ha conquistato il cuore dei romani per donarli a Gesù.
È ormai anziana e sofferente. Si è consumata come un cero che arde sull'altare. Il 17 febbraio 1857, con la morte dei santi, Elisabetta Sanna va incontro a Dio, dopo aver visto Don Pallotti e San Gaetano da Thiene, che vengono a prenderla per il Paradiso. Al suo funerale, la gente di Roma dirà: «È morta la santa di San Pietro».
Fu tanto il consenso popolare su di lei che, appena quattro mesi dopo la morte, fu nominato il postulatore della sua causa di beatificazione, durata oltre un secolo e mezzo. È stata dichiarata Venerabile il 27 gennaio 2014. Il miracolo che l'ha condotta finalmente sugli altari, approvato da papa Francesco il 21 gennaio 2016, è la guarigione, avvenuta nel 2008, di una ragazza brasiliana da un tumore che le paralizzava un braccio. È stata beatificata il 17 settembre 2016 presso la basilica della Santissima Trinità di Saccargia a Codrongianos.

Titolo originale: Beata Elisabetta Sanna
Fonte: Santi e Beati, 8 gennaio 2018

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