BastaBugie n�65 del 16 gennaio 2009
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BONUS FAMIGLIE DEL GOVERNO
82% va a single e coppie senza figli (e se sei convivente raddoppi il bonus!)
Autore: Francesco Riccardi - Fonte: Avvenire
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ONCOLOGA, VENT'ANNI ACCANTO A VERONESI: ''ERO A FAVORE DELL'EUTANASIA, MA...
... oggi rimango atea, ma Eluana non si deve uccidere!''
Autore: Lucia Bellaspiga - Fonte: Avvenire
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LA CITTÀ DEL VATICANO NON HA MAI RECEPITO AUTOMATICAMENTE LE LEGGI ITALIANE
Infatti è uno stato sovrano
Fonte: Avvenire
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LUSSEMBURGO: IPOTESI REFERENDUM SULLA LEGGE SULL'EUTANASIA A CUI SI È OPPOSTO IL GRANDUCA
Autore: Lorenzo Schoepflin - Fonte: Avvenire
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TELEVISIONI E GIORNALI ESALTANO IL PESSIMISMO
Ma hanno ragione?
Autore: Michele Brambilla - Fonte: Avvenire
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L'ABITO FA IL MONACO
Autore: Rino Cammilleri - Fonte:
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RISCALDAMENTO GLOBALE
Nel 2008 altri 250 scienziati si sono ribellati al pensiero unico
Autore: Riccardo Cascioli - Fonte: Avvenire
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QUELLO CHE FINI NON SA (1)
La lettera che Papa Pio XI inviò al re per fermare le leggi razziali del 1938
Autore: Luigi Matteo Napolitano - Fonte:
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QUELLO CHE FINI NON SA (2)
Pio XI strigliò scuole e università sulle leggi razziali
Autore: Fortunato Turrini - Fonte: Avvenire
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BONUS FAMIGLIE DEL GOVERNO
82% va a single e coppie senza figli (e se sei convivente raddoppi il bonus!)
Autore: Francesco Riccardi - Fonte: Avvenire, 11 gennaio 2009
Fuori bersaglio e con qualche difetto di equità. Il cosiddetto «Bonus famiglie» per come è stato progettato dal governo e approvato ieri senza modifiche in commissione alla Camera, rischia infatti di non centrare a pieno quello che doveva essere il suo obiettivo principale: fornire un aiuto – per quanto una tantum e limitato – alle famiglie a basso reddito che si trovano ad affrontare i disagi della crisi. Tra le diverse contraddizioni del provvedimento ne spiccano due. La prima è quella che, nonostante il nome col quale è stato battezzato, finirà per premiare soprattutto i singoli e le coppie senza figli: l’82% dei beneficiari del provvedimento saranno infatti queste due categorie, mentre appena il 18% saranno nuclei familiari con figli ( vedi tabella 1). La seconda è che le coppie di conviventi possono presentare – se ne hanno i requisiti– due richieste distinte e potranno dunque godere di un doppio bonus, a differenza delle coppie sposate che risultano un unico nucleo familiare. Quest’ultima notizia è stata confermata ad Avvenire dal presidente della consulta dei Centri di assistenza fiscale, Valeriano Canepari. I Caf hanno avuto infatti il 18 dicembre un incontro con l’Agenzia delle entrate per chiarire alcuni dubbi interpretativi preliminari sul Bonus. E, proprio riguardo al trattamento dei conviventi, l’Agenzia delle entrate ha avvalorato l’interpretazione della possibilità di doppia richiesta di bonus. Favorito chi non ha figli. A determinare lo squilibrio è un’anomala parametrazione dei requisiti di reddito annuo a seconda dei componenti la famiglia, soprattutto se messa a confronto con la corrispondente soglia di povertà relativa. Se si osserva la tabella 1, infatti, si nota come il tetto massimo dei primi due scaglioni (1 e 2 componenti il nucleo) sia fissato rispettivamente a 15mila e a 17mila euro annui, pari circa al doppio della soglia di povertà corrispondente: 7mila euro per un singolo e 11mila per una coppia. Per contro, invece, il limite massimo di reddito annuo degli scaglioni successivi– quelli per le famiglie con 1 o 2 bambini – sale di pochissimo e si posiziona appena al di sopra della soglia di povertà. Addirittura con 3 o 4 figli solo i nuclei già al di sotto della soglia di povertà relativa usufruirebbero del bonus. Tradotto: aiuti anche ai singoli che se la cavano discretamente; poco o nulla, invece, per le famiglie in difficoltà. La questione dei conviventi. Proviamo a fare qualche esempio per comprendere meglio. La famiglia Rossi è formata da due coniugi che guadagnano all’anno l’uno 13mila euro e 7mila l’altra per un totale di 20mila euro. Hanno due figli a carico e quindi rientrano nel quarto scaglione previsto dal bonus: riceveranno 500 euro come una tantum straordinaria prevista dal decreto anticrisi. I loro vicini di casa, i Bianchi, invece convivono e non sono sposati. Hanno anche loro due figli a carico e gli stessi stipendi: 13mila euro lui e 7mila euro lei. Nel loro caso potranno però presentare 2 richieste di bonus per il terzo scaglione, quello relativo ai tre componenti (un genitore + 2 figli), ricevendo così 900 euro complessivi (450 + 450). Per i conviventi così, non solo aumenta la possibilità di rientrare nei limiti di reddito massimo stabiliti, potendo evitare di cumulare le entrate, ma i figli a carico vengono sostanzialmente conteggiati due volte. E il beneficio viene raddoppiato o quasi. L’ingiustizia risulta ancora più evidente con un altro esempio. Prendiamo i coniugi Verdi, con i 'classici' due figli a carico. Guadagnano leggermente di più: lui 15mila euro e lei 8mila per un totale di 23mila euro. Nonostante le entrate comunque modeste, superano il tetto di reddito massimo previsto per le famiglie da 4 componenti e dunque non riceveranno alcun aiuto. I loro colleghi Marrone, invece, hanno due bambini ma non sono sposati. Hanno stipendi anche superiori: guadagnano entrambi 16mila euro. Il totale delle entrate è 32mila euro (9mila in più dei Verdi) ma possono presentare due richieste separate per il terzo scaglione del bonus. Risultato: nonostante possano contare su guadagni maggiori, i conviventi Marrone riceveranno 900 euro di bonus (450 + 450) mentre i coniugi Verdi non avranno alcun aiuto.
Fonte: Avvenire, 11 gennaio 2009
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ONCOLOGA, VENT'ANNI ACCANTO A VERONESI: ''ERO A FAVORE DELL'EUTANASIA, MA...
... oggi rimango atea, ma Eluana non si deve uccidere!''
Autore: Lucia Bellaspiga - Fonte: Avvenire, 9 gennaio 2009
Dopo una carriera spesa a combattere per il «diritto all'eutanasia», un anno fa l'annuncio choc ripreso da tutti i giornali: «Ho un cancro inguaribile al midollo, presto morirò. Ora, da malata, dico no all'eutanasia». Sylvie Ménard, oncologa di fama internazionale, fino ad aprile direttore del Dipartimento di oncologia sperimentale all'Istituto dei Tumori di Milano e per vent'anni impegnata nella ricerca accanto a Umberto Veronesi, scoprì di essere condannata il 27 aprile del 2005. Proprio lei si trovava improvvisamente dall'altra parte della barricata. «All'inizio mi ribellai e decisi di non curarmi: a che serve curarsi se si è inguaribili? Poi ogni prospettiva è cambiata e la mia vita è divenuta molto più piena e degna di essere vissuta di prima». Perché? Che cosa era successo? Quando si è sani si parla di vita e di morte come valori filosofici, senza calarsi nella realtà. Ma quando ti trovi in prima persona nella condizione del malato, le prospettive cambiano, così come le priorità. Io stessa partivo lancia in testa a favore dell'eutanasia, mi pareva un diritto di 'libertà', senza approfondire... Essendo francese, poi, per me la libertà è particolarmente importante. Il fatto è che tutti combattiamo per l'eutanasia, ma come diritto del vicino: quando ho dovuto ragionare della morte vera, la mia, la vita ha preso valore, tutta, fino all'ultimo istante. Dunque la volontà espressa da sani cambia quando si è malati? Radicalmente. Quale persona, da sana, accetterebbe una prospettiva spaventosa come la Sla o un cancro gravissimo? Chiunque dice «se succedesse a me non vorrei vivere un solo giorno»... Invece quando ti capita, se hai ancora delle cose da realizzare, se senti che chi ti circonda ti ama, e soprattutto se i medici ti evitano la sofferenza fisica, il tempo che ti resta acquista una qualità prima sconosciuta: la vita quando ti sembra illimitata non la vivi appieno, è quando la stai per lasciare che la valuti. Dunque lei sarà contraria anche al testamento biologico. Quello che io stessa avrei scritto prima del 2005, lo avrei strappato dopo il cancro. Perché piuttosto che batterci per una 'degna morte' non ci si batte per una 'vita degna', affinché ogni cittadino abbia diritto alla terapia del dolore, a un accompagnamento totale, fisico e psicologico? Una volta accettata la propria morte capisci che è un fatto naturale, a condizione che sia serena e senza sofferenza, e oggi si può. A questo proposito, Eluana non soffre ma alcuni considerano la sua una vita non degna. Lo trovo spaventoso: non esiste una vita indegna. Può esserlo, tra virgolette, quella di un feroce assassino, certo non quella di un malato. Eluana respira da sola, dorme, si sveglia, va incontro alla senescenza... che ne so io della sua vita? Li chiamiamo 'vegetali' ma non sappiamo assolutamente nulla di queste persone. Il mio terrore è che Eluana senta ciò che si dice intorno al suo letto... Molti pazienti usciti da anni di stato vegetativo ci hanno raccontato che sentivano tutto ma non potevano minimamente comunicare: da queste storie riconosciamo almeno la nostra attuale ignoranza. C'è chi sostiene che Eluana è inguaribile, dunque è inutile curarla. I due termini non sono sinonimi: molte malattie sono inguaribili, ad esempio il diabete, ma esistono i farmaci per curarle. Il cancro stesso a volte è inguaribile, ma è sempre curabile! Un concetto fondamentale per definire il ruolo del medico, oggi spesso snaturato. Esatto: il medico deve guarire qualche volta, curare spesso, confortare sempre. Se un paziente esce dal suo studio con la morte nel cuore, quel medico non ha fatto il suo lavoro. O se la morte nel cuore ce l'ha un parente: in fondo è l'intera famiglia che si 'ammala', quando in casa c'è un caso grave come quello di Eluana. Beppino Englaro ha la morte nel cuore, significa che accanto a sé ha qualche medico che non sa fare ciò che deve. Io, scienziata atea, se potessi, vorrei lasciargli solo un dubbio: che forse in sua figlia una minima attività c'è, che magari possa sognare mentre dorme. Come fa lui a saperne più di tutti i neuroscienziati? Vuole liberarla, dice, ma è sicuro? Nella totale mancanza di dati che ci dicano se il suo mondo è così brutto come sostiene o addirittura non esista neppure, accolga questo dubbio. E nel dubbio abbia la forza di accettare una vita seppure minima, che non soffre e non fa male a nessuno.
Fonte: Avvenire, 9 gennaio 2009
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LA CITTÀ DEL VATICANO NON HA MAI RECEPITO AUTOMATICAMENTE LE LEGGI ITALIANE
Infatti è uno stato sovrano
Fonte Avvenire, 11 gennaio 2009
A fine 2008 una mezza tempesta sulla 'decisione' del Vaticano, con la nuova legge sulle fonti del diritto, di 'non recepire più automaticamente' le leggi italiane. Ma tempesta in un bicchiere d’acqua: perché «in realtà non c’è mai stato nessun automatismo; allora, come oggi, furono recepite alcune leggi in via suppletiva, in particolare i Codici civile e penale, e di procedura civile e penale, presi come erano allora». Giuseppe Dalla Torre, presidente del Tribunale vaticano, torna a spiegare ad Avvenire come con la nuova legge vaticana sulle fonti del diritto, che ha fatto gridare alcuni allo 'scandalo', non cambi nulla rispetto a prima. Tant’è vero che «i nuovi Codici che l’Italia s’è data dopo il ’29 non sono entrati nell’ordinamento vaticano, così che noi, dovendo esercitare la funzione di giudici, avevamo sempre la necessità di andare a vedere quale era la norma vigente in quel momento, cioè nel ’29». Eppure si è arrivati a parlare di violazione del Concordato. Il Concordato non c’entra niente, è un accordo tra Santa Sede e Italia che riguarda la vita della Chiesa che è in Italia. Casomai il punto è del Trattato; ma questa non è materia di trattato, perché la Città del Vaticano è uno Stato sovrano, e quindi nel proprio territorio può fare le leggi che vuole. Insomma, non c’è mai stato nessun automatismo nella ricezione? Mai. Nel ’29 furono recepite le leggi a,b,c e d così com’erano allora, e senza nessuna ricezione automatica dei loro aggiornamenti, o di altre nuove, e comunque sempre con un filtro. Qui voglio sottolineare che un filtro ce l’ha qualunque ordinamento. Anche l’Italia ha un ordinamento che prevede filtri, il cosiddetto limite dell’ordine pubblico, nel senso che noi siamo disponibili a ricevere valori giuridici di altri ordinamenti, purché non siano incompatibili con i valori fondamentali del nostro. Qualche esempio? Per esempio l’ordinamento italiano ammette il divorzio, ma non il ripudio perché sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza, così come non si ammette il matrimonio poligamico. Adesso, con l’entrata in vigore della nuova legge sulle fonti, che cosa succede? Succede che la legge è cambiata, ma la struttura fondamentale è la stessa. Restando nel concreto, s’è fatto riferimento al Codice civile italiano vigente – e quindi è stato superato il richiamo al codice del 1865, che era quello previsto nel 1929 – e ad alcune leggi in materia amministrativa, ferroviaria, postale, eccetera. Ma, anche qui, è stato fatto un richiamo 'fisso', come diciamo noi giuristi, non 'mobile', nel senso che se queste leggi un domani venissero cambiate, in Italia, non è che automaticamente le modifiche passeranno nell’ordinamento vaticano. Sono state prese così come sono oggi, e sempre con quel filtro del non contrasto con norme di diritto divino o norme del diritto canonico. Insomma, in riferimento al Codice civile, parliamo di un aggiornamento evidentemente necessario. Come funzionava quando vi trovavate di fronte a fattispecie di reati che magari neppure esistevano nel ’29? È mai successo? Certo. C’è stato per esempio un caso di detenzione di droga, due o tre anni fa, e nel Codice penale recepito dal Vaticano non c’era niente a questo riguardo. Per arrivare al più presto a una condanna, perché se no si sarebbe creata una zona franca, abbiamo fatto riferimento sia alle convenzioni internazionali sottoscritte dalla Santa Sede in materia di droga, che prevedono la perseguibilità per lo spaccio, la detenzione eccetera, e sia la disposizione prevista dalla legge del ’29, e che oggi viene sostanzialmente riprodotta, che parlava della possibilità, in presenza di comportamenti lesivi della religione, della morale, degli interessi altrui – e qui c’era un ballo evidente di diritto alla salute, il diritto alla sicurezza eccetera – di intervenire con una sanzione penale.
Fonte: Avvenire, 11 gennaio 2009
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LUSSEMBURGO: IPOTESI REFERENDUM SULLA LEGGE SULL'EUTANASIA A CUI SI È OPPOSTO IL GRANDUCA
Autore: Lorenzo Schoepflin - Fonte: Avvenire, 8 gennaio 2009
A cavallo tra il 2008 e il 2009 la vicenda lussemburghese circa l’approvazione di una legge sulla depenalizzazione dell’eutanasia, che nei piani del premier JeanClaude Juncker dovrebbe essere preceduta dalla modifica dell’articolo 34 della costituzione con conseguente riduzione dei poteri del granduca Henri, si è arricchita di nuovi importanti particolari. Dopo il rifiuto del granduca di firmare la nuova legge approvata dal Parlamento, l’11 dicembre scorso la prima votazione sulla modifica della Costituzione ha avuto esito positivo e adesso l’unico ostacolo verso la seconda e definitiva approvazione del prossimo marzo potrebbe essere un referendum popolare. Secondo la costituzione del granducato il referendum, col suo esito, può sostituire la seconda lettura parlamentare. Prima di Natale, un comitato referendario, composto da cinque membri, aveva mosso i primi passi, ma era stato subito bloccato per irregolarità burocratiche legate alla documentazione presentata. Una volta sanate tali irregolarità, il 31 dicembre veniva accettata la richiesta di indire un referendum, che adesso per avere luogo necessita della raccolta di 25.000 firme. Se la raccolta avrà successo, nel marzo del 2009 i lussemburghesi saranno chiamati alle urne per decidere se lasciare inalterati i poteri del granduca a proposito della ratifica delle leggi. Già partita la campagna di stampa contro l’iniziativa: il quotidiano Tageblatt ha sollevato dubbi circa l’indipendenza del comitato referendario e il suo leader, Jeannot Pesché, che è membro dell’Adr (Alternativ Demokratesch Reformpartei), partito presente in parlamento con quattro deputati. Il granduca Henri è uscito dal riserbo istituzionale osservato sinora rivolgendosi al Paese nel tradizionale discorso di auguri ai cittadini lussemburghesi. Soffermandosi sulla sua scelta di non firmare la legge sull’eutanasia, il granduca ha tenuto a precisare che non era sua intenzione opporsi all'organo eletto democraticamente e alla volontà della maggioranza dei parlamentari, ma che egli ha usufruito del suo diritto alla libertà di coscienza cercando di rimanere fedele a ciò che per lui è la verità. Il sovrano si è detto ispirato dal rispetto delle idee altrui ma soprattutto dalla compassione per coloro che si trovano in grave stato di sofferenza. A proposito della modifica dell'articolo 34 della costituzione, Henri si è spinto a parlare di una «misura necessaria» e di «un passo avanti verso una moderna monarchia» riconoscendo così le prerogative del Parlamento. Il granduca ha però ribadito che la premura per la libertà dei suoi concittadini non può essere motivo valido per operare in contrasto con la sua coscienza: «Dietro l’istituzione che rappresenta l’unità e la continuità del nostro Stato, vi è anche un uomo. Un uomo che rispetta la vostra libertà, ma anche un uomo che ha la propria coscienza».
Fonte: Avvenire, 8 gennaio 2009
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TELEVISIONI E GIORNALI ESALTANO IL PESSIMISMO
Ma hanno ragione?
Autore: Michele Brambilla - Fonte: Avvenire, 7 gennaio 2009
Ora che l’Epifania ha spazzato via le feste e che l’anno comincia davvero, è il momento di affrontare seriamente la crisi tanto annunciata e di prendere alla lettera l’appello del presidente Napolitano: pensare alle riforme necessarie per uscire dal pantano. Mi chiedo se tra le tante riforme non ce ne debba essere anche una che riguarda noi operatori dell’informazione. Una riforma mentale, voglio dire. Mi spiego. Se è vero - ed è vero - che con il pessimismo non si costruisce nulla, anzi si peggiora la situazione e si istiga, se non al suicidio, quantomeno alla depressione, non c’è dubbio che giornali e tv stiano assolvendo spesso nel migliore (o peggiore) dei modi al ruolo che pare abbiano deciso di assumere: quello dei catastrofisti. Comincio con le notizie economiche. Premetto di non capire nulla, di economia. Ma proprio perché semplice uomo della strada, mi considero a pieno titolo un bersaglio, anzi una vittima del terrorismo mediatico in materia. Faccio alcuni esempi. Fino a qualche mese fa, era tutto un piangersi addosso per il continuo crescere del prezzo del petrolio. Quando era a 150 dollari al barile leggevamo: è un disastro, e gli esperti assicurano che il peggio deve ancora venire perché il prezzo salirà. A dimostrazione di quanto aveva ragione Longanesi quando diceva che l’esperto è un signore pagato per essere smentito da un altro esperto, il prezzo è invece sceso, fino agli attuali (all’incirca) 40 dollari al barile. Un perfetto ignorante come il sottoscritto si aspettava dai colleghi dell’economia un grido di esultanza, o quantomeno un sospiro di sollievo. Invece no: il prezzo cala? Brutto segno: è la spia della recessione. Altro esempio l’inflazione. Per anni è cresciuta senza interruzioni e sui giornali leggevamo appunto di «allarme inflazione», di rischio di non arrivare alla fine del mese, di incubo della terza settimana e così via. A un certo punto si è fermata. I prezzi hanno cominciato a scendere. Evviva? Un corno. «C’è il rischio deflazione, un disastro», abbiamo cominciato a leggere. L’uomo della strada è disorientato ma l’esperto spiega: se i prezzi scendono è una sciagura, vuol dire che non c’è domanda. Anche in questo caso la sentenza è: recessione. E il mercato immobiliare? Che tragedia quando i prezzi continuavano a crescere, «la casa è un miraggio, impossibile sposarsi, le coppie sentono di non avere un futuro». Ora i prezzi hanno la freccia all’ingiù, ma «vuol dire che un intero settore è fermo, cala l’occupazione». Comunque vadano le cose, è sempre un male. L’euro guadagna sul dollaro? Una iattura perché siamo svantaggiati nelle esportazioni. L’euro perde sul dollaro? Una sventura perché siamo più deboli e i viaggi all’estero diventano un lusso. E la Cina? Quando andava a mille si intonava il de profundis: con il basso costo della manodopera, questi ci mangiano. A un certo punto la Cina ha cominciato a entrare in crisi e i sempliciotti che si aspettavano un nostro riscatto sono stati freddati da una nuova lucida analisi: ormai la Cina è un mercato talmente vasto che, se crolla, trascina tutti nel baratro. Insomma è un’angoscia continua. Dall’economia a ogni altro aspetto della nostra miserabile vita. Se non piove, è allarme siccità. Se piove, è allarme maltempo. Quando si sparava la neve sulle piste con i cannoni, si piangeva per la crisi del turismo invernale. Adesso che nevica, è emergenza trasporti. Se fa caldo è «afa killer»; se fa freddo siamo «nella morsa del gelo». Di questo cupo scenario siamo tutti responsabili, naturalmente. Non per polemica, però, mi permetto di dichiararmi colpito, in particolare, da uno dei più grandi e autorevoli quotidiani italiani, Repubblica. Da tempo osservo attentamente la prima pagina e forse solo ora capisco perché quel giornale sta portando avanti, in questi giorni, una battaglia in favore del diritto di morire come e quando si vuole, preferibilmente al più presto. Non vedo infatti che cosa ci sia di bello nel vivere se la vita è quella descritta da questo grande quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Nei titoli della prima pagina del 5 gennaio (lasciando perdere la guerra a Gaza, argomento sul quale c’è poco da essere ottimisti) emergono in bella evidenza i seguenti sostantivi o aggettivi e/o le seguenti frasi: «incubo», «danni della nicotina», «sotto inchiesta», «brutto colpo all’immagine», «il vento della recessione», «il Pd si spacca», «tragedia», «a Milano ombra di tangenti», «quei criminali alla Sapienza». Il giorno prima, 4 gennaio, i titoli della prima erano questi: «Sterlina, la moneta regina si scopre povera»; «La guerra e l’etica della morte e della vita»; «Boom del deficit», «Il Pd: conti truccati». Per respirare un po’ ho aperto a caso nella sezione sport. Titolo di apertura sulla «crisi» che «cambia la MotoGp», a fianco un tragico suicidio di un ex ciclista. D’altra parte anche lo sport non è più quello di una volta, c’è il doping, e vogliamo parlare del caro biglietti e delle partite truccate? Meno male che la pagina accanto, la copertina della cronaca di Milano, sollevava un po’ con i seguenti titoli: «Mappa dei veleni, ecco i primi soldi per le bonifiche»; «Là dove c’era l’industria resta la paura della morte»; «Corteo anti-Israele, è polemica»; «Chi ha ucciso la libreria del giallo»; «Un 2008 chiuso in recessione e per gli operatori non è finita». Mamma mia. Mi rendo conto che non possiamo descrivere la normalità della vita (anche se sogno articoli tipo: il signor Mario Rossi ieri mattina si è alzato, è andato a lavorare, ha pranzato, cenato ed è andato a dormire; anche i figli tutto bene); ma mi domando se il mondo è davvero così brutto come lo dipingiamo noi giornalisti.
Fonte: Avvenire, 7 gennaio 2009
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L'ABITO FA IL MONACO
Autore: Rino Cammilleri - Fonte:
«Viviamo in un'epoca in cui qualsiasi gruppo etnico, qualsiasi minoranza, anche la più piccola, rivendica la propria identità e cerca di esporla (mi si passi l'esempio: avete visto al famoso “gay pride” come sono vestiti -o svestiti- quelli di questa minoranza che in tal modo afferma la propria identità; la parola che viene usata è pride, orgoglio). C’è chi fa battaglie legali per avere il diritto di mettersi il burqua a scuola. Anche le commesse dei McDonald hanno una divisa. Per non parlare delle categorie professionali classiche: i medici, gli infermieri, i volontari dell'ambulanza, i magistrati (francamente, venire condannato da un giudice in jeans e maglietta mi spiacerebbe: la maestà della legge la voglio vedere cogli occhi). Tutti, insomma, cercano con un segno esterno per essere identificabili. Viviamo nella società dell'immagine, oggi l'immagine è tutto. Giovanni Paolo II proprio grazie alla sua mediaticità ha ereditato, nel 1978, una Chiesa che in credibilità e autorevolezza era quasi a zero ed è riuscito a portarla dove abbiamo visto. Aveva perfettamente capito che oggi conta poco affidarsi ai mezzi classici: il discorso, la stampa, il convegno, la tavola rotonda, eccetera. Ebbene, i soli che in quest’epoca non tengono alla loro immagine sono gli uomini del clero. Sì, in tempi di ghigliottine era consigliabile travestirsi. Ma oggi non si rischia la pelle, si rischiano tutt’al più fastidi; che so, passi per una strada in cui ci sono giovinastri ideologicamente orientati che ti dileggiano. Oppure puoi venire assillato da mendicanti particolarmente petulanti o da qualche psicolabile. Tutte cose che, però, vanno solo sotto la voce “fastidi”. Ma se temevi tanto i fastidi, perché ti sei fatto prete? L’abito ecclesiastico è una predicazione muta. E lo è in un tempo affamato di segni. Se sono in strada nottetempo, ma vedo in giro dei poliziotti, sono più tranquillo. La loro divisa serve proprio a rasserenare gli onesti e a diffidare i malintenzionati. Certo, il poliziotto talvolta si traveste per esercitare meglio la sua attività; ma questo non vale per il prete: il poliziotto deve cercare i cattivi, invece il sacerdote dovrebbe avere tutto l'interesse a farsi riconoscere dai buoni. Mi rendo perfettamente conto che in un'epoca in cui il cattolicesimo non è particolarmente à la page si possa avere un certo imbarazzo, una certa esitazione, un certo timore a manifestare la propria appartenenza al clero. Ma si tratta di timorucci umani. Ed è singolare che debbano essere i laici a tirare i preti per i jeans e dire loro: rendetevi visibili. Ai miei tempi quando uno buttava la tonaca alle ortiche si diceva: quello si è spogliato. Oggi, paradossalmente, sono i sospesi a divinis a tenerci di più, all'abito: quelli che per coerenza dovrebbero levarselo se ne fanno vanto; quelli in regola, si mettono in borghese “per essere come gli altri”. Ma non chiedono mai agli “altri” come vorrebbero che fossero; sarebbe invece democratico fare un referendum per chiedere alla gente come vuole che sia il prete. Si scoprirebbe, al contrario, che la gente non vuole affatto che il prete sia “come gli altri”, perché un punto di riferimento deve essere diverso per forza. Immaginate una boa salvagente dipinta d’azzurro come le onde. Non la distinguo e annego. Padre Pio, quando sentiva di novizi che non volevano mettersi il saio, sbottava: “Cacciateli immediatamente. Ecchè, sono forse loro a fare un piacere a San Francesco?”. Pio XII ricevendo in udienza gli operatori della moda esordì con questa stupenda frase: “Da come uno si veste si capisce che cosa sogna”. L'abito non fa il monaco (dicevano nel Medioevo, perché le università erano corpi ecclesiastici: gli studenti portavano l'abito clericale e ciò li sottraeva alla legislazione civile). È vero, ma un buon monaco se lo mette, anche perché non ha alcun motivo per toglierselo. Il problema dell'ostilità odierna all'abito è anche di natura psicologica. C'è questo sordo muro di gomma, una resistenza passiva che l'ex cardinale Ratzinger, attualmente Benedetto XVI, conosce perfettamente. Non vorrei essere nei suoi panni, perché non so come possa risolvere la questione. Già: la Chiesa non può imporsi ai suoi uomini con la forza. Ma la logica è dalla sua parte. E' ridicolo iscriversi al club del bridge per poi pretendere di giocare a scopone perché le regole del bridge non mi piacciono. Tuttavia, i cosiddetti dissenzienti all'interno della Chiesa, visto che l'Inquisizione non c'è più, usano il sistema dell'orecchio da mercante. Da questo papa, sapendo chi era, molti temevano una restaurazione. Ciò è interessante, perché quando si teme la restaurazione vuol dire che si ama la rivoluzione. Ma "restaurare", da vocabolario, è prendere un capolavoro rovinato dal tempo e dalla stupidità e riportarlo al suo antico splendore. Guardate che questa storia dell'abito che non fa il monaco ha a che fare con l'eresia. Nel Medioevo c'erano gli eretici “Fratelli del Libero Spirito”, detti anche turlupins (da cui turlupinare), che si consideravano al di sopra del peccato (infatti erano condannati anche dai protestanti: Calvino scrisse addirittura un trattato contro di loro) e si permettevano ogni trasgressione. Tra cui il travestimento. Nel Medioevo, non essendoci tessere professionali e d’identità, l'abito era il segno della propria appartenenza (Dante Alighieri è sempre ritratto vestito di rosso perché faceva parte della corporazione degli Speziali: se voleva essere riconosciuto come iscritto, e quindi avere tutte le facilitazioni e i privilegi che la corporazione garantiva agli appartenenti, doveva mostrarsi tale). I turlupins, invece, a volte vestivano sfarzosamente, a volte di stracci, a volte da mendicanti, a volte con l'abito di una corporazione cui non appartenevano. Per questo “turlupinavano”. Stiamo ora assistendo ad un'eresia strisciante che nessuno osa più chiamare col suo nome. Non ha contorni nitidi ma si manifesta in comportamenti. L'eresia dei nostri tempi è questo demi-christianisme molto “fai da te”, con dentro tutto quello che uno vuole. Infatti, viviamo una crisi non di strutture o di comando ma di fede. Per concludere. Quando si comincia a tirar fuori una ad una le eccezioni (e noi sappiamo, come dice il Vangelo, che se uno non è fedele nel poco non può esserlo nel molto), prima l'abito, poi prego un po' di meno perché "ho da fare", poi l'”accoglienza” è molto meglio della lettura, la “solidarietà” è molto meglio della meditazione; alla fine, dài e dài, non rimane più niente. Poco alla volta, non ti sei nemmeno accorto di come hai fatto a perdere tutto e di esserti ridotto a travet del sacro, pur avendo cominciato con tanto entusiasmo il giorno in cui sei stato ordinato».
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RISCALDAMENTO GLOBALE
Nel 2008 altri 250 scienziati si sono ribellati al pensiero unico
Autore: Riccardo Cascioli - Fonte: Avvenire, 2-1-2009
Erano 400 alla fine del 2007, sono diventati 650 alla fine del 2008. Stiamo parlando degli scienziati di fama internazionale citati in un Rapporto depositato presso il Senato americano, che contestano apertamente la “dottrina” del riscaldamento globale antropogenico (ovvero causato dall’uomo). Vale a dire la base scientifica che sta dietro il Protocollo di Kyoto e le scelte di politica ambientale dell’Unione Europea, tra cui il recente e tanto discusso pacchetto clima-energia. Quindi nel corso del 2008 altri 250 scienziati si sono ribellati al pensiero unico scientifico e, cosa ancora più rilevante, molti di loro sono collaboratori presenti e passati dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organismo creato all’interno del sistema ONU per monitorare gli studi sui cambiamenti climatici e tra i principali responsabili dei ricorrenti allarmi sul clima. Il rapporto del Senato Americano, depositato l’11 dicembre scorso, mette in evidenza che il tanto sbandierato consenso scientifico riguardo ai cambiamenti climatici è una clamorosa menzogna. Nelle 231 pagine, infatti, il rapporto elenca tutti gli scienziati “dissidenti”, con le loro biografie, gli studi compiuti e i saggi scientifici sui cambiamenti climatici che possono quindi essere consultati da chi vuole approfondire le posizioni. Gli scienziati citati in questo nuovo rapporto sono esperti in diversi campi legati alla climatologia: geologia, biologia, glaciologia, biogeografia, meteorologia, oceanografia, economia, chimica, matematica, scienze ambientali, astrofisica, ingegneria, fisica, paleoclimatologia. Alcuni di loro sono premi Nobel nei loro rispettivi campi scientifici e altri hanno condiviso una “fetta” del Premio Nobel per la Pace 2007 assegnato all’IPCC e ad Al Gore. Fra di loro sono citati anche quattro scienziati italiani: il ben noto fisico Antonino Zichichi, presidente della Federazione Mondiale degli Scienziati; il professor Renato Angelo Ricci, presidente onorario della Società Italiana di Fisica, il professor Franco Battaglia, docente di Chimica ambientale all'Università di Modena (Ricci e Battaglia sono anche tra i fondatori dell'associazione scientifica Galileo 2001); e il tenente colonnello Guido Guidi, del Centro Nazionale di Meteorologia e Climatologia Aeronautica (CNMCA) di Pratica di Mare (Roma), creatore dell'interessantissimo blog Climate Monitor.
A beneficio di chi non ha intenzione di leggersi tutto il rapporto, alla seguente pagina web è possibile leggere alcune delle citazioni contenute: http://www.svipop.org/sezioniTematicheArticolo.php?idArt=418
Fonte: Avvenire, 2-1-2009
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QUELLO CHE FINI NON SA (1)
La lettera che Papa Pio XI inviò al re per fermare le leggi razziali del 1938
Autore: Luigi Matteo Napolitano - Fonte:
Sulla copertina del numero 7, 16 febbraio 2006 del settimanale "Panorama" è riportata la notizia della pubblicazione di una lettera che Papa Pio XI inviò il 5 novembre 1938 a Vittorio Emanuele III, re d’Italia, per impedire la promulgazione delle leggi razziali varate da Benito Mussolini contro gli ebrei. Nel tentativo di impedire la pubblicazione delle leggi razziali, la Santa Sede aveva tentato una mediazione tramite il padre gesuita Pietro Tacchi Venturi e il sottosegretario al ministero degli Interni, Guido Buffarini-Guidi. Fallita la mediazione il 4 novembre 1938, Pio XI scrisse al Duce, Benito Mussolini, dal quale non ottenne alcuna risposta. Il 5 novembre, quindi, il Pontefice scrisse una lettera direttamente al re, Vittorio Emanuele III, protestando perché la legge "per la tutela della razza ariana" comprendeva norme in aperto contrasto con il Concordato stipulato l’11 febbraio del 1929 tra Santa Sede e Regno d’Italia. Nella lettera, Pio XI lamentava anche che Mussolini non avesse preso in considerazione il punto di vista della Santa Sede, neanche per ciò che riguardava gli ebrei convertiti alla religione cattolica. La lettera, riprodotta per intero da "Panorama", è parte dei documenti contenuti nella collezione storica che Licio Gelli ha donato allo Stato italiano e che sono stati presentati l’11 febbraio 2006 a Pistoia. Per approfondire il senso e la rilevanza storica di questa lettera, intervistiamo il professor Luigi Matteo Napolitano, docente di Storia delle Relazioni Internazionali all’Università di Urbino. Che ne pensa della lettera inviata da Pio XI al re Vittorio Emanuele III per contrastare le leggi razziali, pubblicata dal settimanale "Panorama"? Napolitano: La lettera non è una novità. Fu resa nota alla fine degli anni Cinquanta da Padre Angelo Martini, uno dei quattro gesuiti curatori dei documenti vaticani sulla Seconda Guerra Mondiale; e anche in quei volumi se ne trova traccia. La lettera è stata pubblicata poi nel 2003 da Gianluca André, nel volume dei Documenti Diplomatici Italiani da lui curato. Più importante è dire che la missiva si pone nell’ambito di quella forte critica che la Santa Sede (nelle persone di Pio XI e del suo Segretario di Stato Eugenio Pacelli, poi suo successore) muoveva alla Germania hitleriana e al "modello razzista" importato in Italia da Mussolini. Su questo la documentazione è inoppugnabile. Più importante è aggiungere un tassello a questa storia. È vero che il re rispose al Papa di aver trasmesso a Mussolini il suo messaggio, e che questo sarebbe stato tenuto "in massimo conto" per conciliare i punti di vista divergenti fra Chiesa e Stato. Ma questa era una risposta del tutto formale, di circostanza. Lo prova il fatto che la lettera del re fu redatta dallo stesso Mussolini il quale, nel prepararla, disse al sovrano che i punti di vista della Santa Sede e dell’Italia fascista erano "molto antitetici" e che il Vaticano stava tirando alquanto la corda con l’Italia, mollando completamente in altri casi (e non alludeva certo alla Germania, ma all’atteggiamento del Vaticano verso le potenze "democratiche"). Di queste considerazioni riservate ovviamente non vi è traccia nella risposta del re che, come si è detto, riproduceva alla lettera la bozza di Mussolini. La sensazione diffusa dalla metà degli anni Sessanta in poi è che la Chiesa cattolica non avesse fatto nulla contro le leggi razziali. Questa lettera mostra invece un atteggiamento di critica severa contro quelle leggi. Sulla base della conoscenza che lei ha di quel periodo, cosa si può dire sull’atteggiamento della Santa Sede in merito alle leggi razziali? Napolitano: Nel periodo considerato sono molti gli elementi che provano come tra la Santa Sede e le dittature ci fossero ripetuti e aspri contrasti. Non si tratta solo di una critica severa, ma anche di una generale ripulsa nei confronti di tutto ciò che nazismo e fascismo ormai rappresentavano, in termini di idee-guida e di direttrici politiche. Tornando alla domanda, è importante vedere che cosa accadde dopo il decreto-legge del 10 novembre 1938, che varò le leggi razziali. Gli archivi conservano le note di protesta della Santa Sede contro queste leggi: la prima è del 13 novembre 1938, la seconda del 22 successivo. Ad esse il Governo italiano rispose con una nota del 29 novembre, cui il Vaticano replicò con altra nota del 14 dicembre. Il bilancio di questi scambi e dei rapporti tra il Vaticano e l’Italia sta tutto nelle parole di Eugenio Pacelli riguardo alle leggi razziali fasciste: "Mussolini pensi bene a quello che fa: deve sapere che sono molti gli Italiani, anche in alto, malcontenti di Mussolini. È un vulnus al Concordato: il Santo Padre non si presterà in nessun modo". Questo risulta dagli archivi, e non solo da quelli vaticani. Ci fu qualche altra istituzione, gruppo politico o corrente culturale che si oppose alle leggi razziali? Napolitano: Le leggi razziali rappresentavano un innesto innaturale nella cultura e nei valori italiani. Pur dietro un’apparente consenso al regime, non dovrebbe sorprendere il riscontrare diffuse aree di dissenso nei confronti di quelle leggi, considerate una passiva imitazione del nazismo: un "corpo estraneo" (e purtroppo invasivo) nella vita italiana. La Chiesa cattolica e i fedeli, in grado diverso, svilupparono così una "disubbidienza civile" nei confronti di quelle leggi, proprio come accadde nella Francia di Vichy; e lo fecero aiutando gli ebrei perseguitati nei modi in cui ciò si poté fare. Lo prova, del resto, anche il recente volume sui "Giusti italiani" (molti dei quali cattolici) curato da Yad Vashem. La Santa Sede fece fronte all’emergenza razziale con la sua rete di nunziature, delegazioni apostoliche e diocesi; ma anche creando un ufficio dedicato all’assistenza di tutte le vittime di guerra. Nessuna organizzazione o istituzione impegnata in questo campo (come la Croce Rossa internazionale o le stesse agenzie ebraiche) poté privarsi del consiglio e della collaborazione del Vaticano nei momenti più drammatici della Seconda Guerra Mondiale e della Shoah. A chi dice che la Chiesa fece poco bisogna rispondere che fece tutto quello che si poteva fare in quella situazione, di fronte a regimi dittatoriali, per salvaguardare la dottrina ma anche per salvare le vite umane. La stessa cosa accade oggi con la Cina, dove i cattolici sono duramente perseguitati e dove la Chiesa evita proteste pubbliche che inasprirebbero la situazione di coloro che vivono in una situazione di persecuzione.
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QUELLO CHE FINI NON SA (2)
Pio XI strigliò scuole e università sulle leggi razziali
Autore: Fortunato Turrini - Fonte: Avvenire, 6 gennaio 2009
Le persone più attente hanno seguito le reazioni a quanto affermato dal presidente della Camera Gianfranco Fini. Qualcuno si è rafforzato nell’idea che la Chiesa nulla ha fatto contro le Leggi razziali del 1938. Per rinfrescare la memoria di questi storici improvvisati, cito per intero la lettera inviata ai rettori delle Università e Scuole di Teologia cattoliche per ordine di papa Pio XI già nell’aprile di quell’anno. Pio XI non poteva dare ordini alle Università statali: perciò scrisse a quante erano legate alla Chiesa cattolica, con parole molto chiare. Il testo è in latino: chi lo volesse leggere nell’originale può consultare l’Istruzione della Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università, in Archivio Segreto Vaticano, N° di Prot. 356/38 del 13 aprile 1938, quindi alcuni mesi prima della legislazione fascista. Qui la riproduciamo in italiano. «Reverendissimo Signore, alla vigilia del Natale dello scorso anno, l’Augusto Pontefice felicemente regnante parlò con sofferenza agli Eminentissimi Cardinali e ai Prelati della Curia Romana riguardo alla pesante persecuzione dalla quale è afflitta la Chiesa cattolica in Germania, come tutti sanno. Ciò che però affligge particolarmente l’animo del Beatissimo Padre è il fatto che per giustificare una così grande ingiustizia, persone senza scrupoli portano calunnie e dottrine assai pericolose, che passano sotto il falso nome di scienza, diffondendole ampiamente nel tentativo di corrompere le menti e sradicare la vera religione. Data la situazione, questa Sacra Congregazione ammonisce le Università degli studi e le facoltà cattoliche a dirigere ogni loro attenzione e sforzo per difendere la verità contro gli errori dilaganti. E di conseguenza i professori, con tutte le energie, traggano con cura dalla bio-logia, dalla storia, dalla filosofia, dall’apologetica, dalle discipline giuridico-morali le armi per controbattere validamente e consapevolmente i dogmi assolutamente assurdi che seguono: 1) Le razze umane, per loro indole innata e immutabile, differiscono tra loro così tanto, che la razza umana più bassa dista dalla razza migliore più di quanto si diversifichi dalla specie animale più evoluta. 2) Il vigore della razza e la purezza del sangue devono essere preservate e favorite in qualsiasi modo; ogni mezzo indirizzato a questo scopo è onesto e lecito. 3) Dal sangue, dal quale l’indole della razza trae la sua sostanza, fluiscono tutte le qualità intellettuali e morali dell’uomo come dalla sorgente essenziale. 4) Fine principale dell’educazione è di sviluppare il carattere della razza e di infiammare l’animo di un amore ardente per la propria razza, che va ritenuta il massimo bene. 5) La religione è sottomessa alla legge della razza e va adattata ad essa. 6) La fonte prima e la massima regola di ogni ordinamento giuridico è l’istinto della razza. 7) Non esiste altro che il Kosmos, o Universo, Ente vivo; tutte le cose, compreso l’uomo, niente altro sono che diverse forme dell’Universo Vivente che si succedono attraverso lunghe ere. 8) I singoli uomini non esistono se non per lo 'Stato' e a motivo dello 'Stato'; ogni diritto che loro spetta deriva unicamente da una concessione dello Stato. Chiunque può aggiungere facilmente altre cose a queste tremende opinioni. Il Nostro Santissimo Signore, il Prefetto della Sacra Congregazione, sa con certezza che tu, Reverendissimo Signore, non lascerai nulla di intentato perché quanto è ordinato con la presente lettera dalla Sacra Congregazione sia pienamente portato a termine».
Fonte: Avvenire, 6 gennaio 2009
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