BastaBugie n�12 del 18 gennaio 2008
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VIETATO AL PAPA IL TEMPIO DELL'IGNORANZA
Autore: Gianpaolo Barra - Fonte:
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TESTO INTEGRALE DEL DISCORSO (PROIBITO) DI BENEDETTO XVI ALLA SAPIENZA
Ecco cosa avrebbe detto il Papa nell'università fondata da un Papa
Autore: Benedetto XVI - Fonte: Sito del Vaticano
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IL LATO NASCOSTO
Madre -bambino, che trauma quel filo spezzato.
Autore: Francesco Agnoli - Fonte:
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AOSTA: IL FUNERALE NEGATO
Dispersione delle ceneri: sì al funerale cristiano se il defunto è credente.
Autore: Silvano Sirboni - Fonte:
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BUCHI NELL'EVOLUZIONISMO...
Autore: Carlo Bellieni - Fonte:
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LEGGE 194 E ABORTO
Autore: Mario Palmaro - Fonte:
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SABOTATO IL LABORATORIO DELLO SCIENZIATO VESCOVI
Io non mi fermo
Autore: Enrico Negrotti - Fonte:
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OSPEDALE DI SIENA: RIVOLTA PER LA SOSTA
Scotte, rivolta per la sosta
Il Mcl raccoglie firme per chiedere i parcheggi gratuiti
Autore: Francesco Meucci - Fonte:
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VIETATO AL PAPA IL TEMPIO DELL'IGNORANZA
Autore: Gianpaolo Barra - Fonte:
L'ennesima vergogna per l'Italia è andata in scena con l'impedimento al Papa di tenere un intervento all'Università La Sapienza di Roma. Ancora una volta una piccola minoranza violenta ha deciso per tutti, senza che il governo, lo Stato abbiano mosso un dito per impedire questo ennesimo insulto alla democrazia. Il presidente del Consiglio, il ministro dell'Interno, quello dell'Università - e anche autorevoli esponenti dell'opposizione - si sono stracciate le vesti quando il delitto si era già consumato, ma per giorni, quando la polemica aveva preso una piega dagli esiti prevedibili, hanno osservato il più assoluto silenzio rendendosi complici di quanto accaduto.
Quanto agli argomenti di quei docenti che hanno preteso di non fare entrare papa Benedetto XVI nell'Università fondata da papa Bonifacio VIII, vi proponiamo l'anticipazione dell'editoriale che sarà pubblicato su "Il Timone" di febbraio.
NANI E MOLOSSI di Gianpaolo Barra
Forse vi sorprenderete, ma a me piacciono i cani. Due o tre volte in vita mia, sono andato a vedere una esposizione canina, dove sfilano esemplari selezionati di tutte le razze. Preciso: mi piacciono i cani grossi, enormi, maestosi, quelli che i cinofili classificano con il termine di “molossi”. Alti, imponenti, muscolosi, in genere pacifici. E tra questi – ve ne sono di diverse misure – quelli che apprezzo di più sono capaci di pesare oltre cento chili, anche fino a 120.
Hanno un bel carattere. Di solito non reagiscono, se provocati tardano a rispondere, se sei un malintenzionato che tenta di entrare nel giardino di casa dove fanno buona guardia, questi giganti ti si piazzano davanti, ti fissano negli occhi, come a dirti: “pensa a quello che stai per fare”. Certo, se poi non ci pensi, peggio per te. Ti saltano addosso e non hai scampo, sei finito. Se ti atterrano, possono schiacciarti come si fa con una bistecca. Se ti mordono, la loro presa è terribile: un allevatore mi ha detto che la forza del morso del mastino inglese – un molosso enorme – equivale a molte centinaia di chili per cm2. Si capisce bene che con un paio di morsi di questo genere ti ritrovi dimagrito di dieci chili. Insomma, mi piacciono i molossi per questa loro forza immensa.
Tuttavia, qualche volta – anzi: spesso – succede che se uno di questi bestioni si trova di fronte un cane “nano”, uno di quei “chiwawa” notoriamente attaccabrighe e abbaiatore, il molosso non reagisca. Anzi, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, si limita ad osservare, con sguardo languido e compassionevole, piegando il capo da un lato, come se provasse tenerezza, ma ben consapevole che basterebbe un soffio per polverizzare la bestiola “rompiscatole”. Non solo: “pro bono pacis”, il gigante è capace pure di scostarsi, indietreggiare, cedere il passo o lasciare il posto. Osservando la scena, un marziano, che ignora tutto sulla cinofilia, dirà che il chiwawa è più coraggioso, determinato e perfino più forte del povero molosso. Un intenditore, invece, sa che il gigante non vuole approfittare della sua forza e lascia perdere. Non vale la pena sprecare un millesimo di energia per farsi valere. Perché ho scritto queste cose? Perché mi sono venute in mente appena ho saputo della vicenda accaduta all’Università “La Sapienza” di Roma.
Come è noto, poco più di una sessantina di docenti hanno brigato – riuscendoci – per impedire al Papa di partecipare all’inaugurazione dell’anno accademico. Il Pontefice avrebbe dovuto tenere un discorso davanti al Rettore, al corpo docenti e agli studenti. Ma ha preferito soprassedere di fronte alla reazione scatenata dai contestatori. Il Papa ha fatto bene, naturalmente. E il mondo ha coperto di ridicolo l’Università, quei professori, quegli studenti e – forse – anche il nostro povero Paese. Ma sì, pensateci bene. Il mondo ha visto ripetersi esattamente quella scena sopra descritta.
Di fronte a un gigante del pensiero teologico, a un fine cultore del pensiero filosofico, di fronte a un intellettuale di statura molossoide, un gruppo di “chiwawa” del pensiero, un manipolo di nanetti della docenza, dei quali la storia non ricorderà nemmeno il nome, tanto insignificante è la loro statura intellettuale e rozza la loro educazione, ha deciso di emettere un “abbaio”. E il gigante, come succede in questi casi, li ha guardati con compassione. E ha lasciato perdere. Il nostro marziano, ignaro di come funzionano le cose sulla terra, si farà probabilmente impressionare da cotanta prova di forza. Chi se ne intende, invece, vede l’abisso che separa le intelligenze dei protagonisti. Quella del Papa giganteggia. Quella dei contestatori non risponde all’appello. É fuggita tempo fa, spaventata dal proprio stesso abbaio.
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TESTO INTEGRALE DEL DISCORSO (PROIBITO) DI BENEDETTO XVI ALLA SAPIENZA
Ecco cosa avrebbe detto il Papa nell'università fondata da un Papa
Autore: Benedetto XVI - Fonte: Sito del Vaticano
Magnifico Rettore, Autorità politiche e civili, Illustri docenti e personale tecnico amministrativo, cari giovani studenti! È per me motivo di profonda gioia incontrare la comunità della "Sapienza - Università di Roma" in occasione della inaugurazione dell'anno accademico. Da secoli ormai questa Università segna il cammino e la vita della città di Roma, facendo fruttare le migliori energie intellettuali in ogni campo del sapere. Sia nel tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l'istituzione era alle dirette dipendenze dell'Autorità ecclesiastica, sia successivamente quando lo Studium Urbis si è sviluppato come istituzione dello Stato italiano, la vostra comunità accademica ha conservato un grande livello scientifico e culturale, che la colloca tra le più prestigiose università del mondo. Da sempre la Chiesa di Roma guarda con simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone l'impegno, talvolta arduo e faticoso, della ricerca e della formazione delle nuove generazioni. Non sono mancati in questi ultimi anni momenti significativi di collaborazione e di dialogo. Vorrei ricordare, in particolare, l'Incontro mondiale dei Rettori in occasione del Giubileo delle Università, che ha visto la vostra comunità farsi carico non solo dell'accoglienza e dell'organizzazione, ma soprattutto della profetica e complessa proposta della elaborazione di un "nuovo umanesimo per il terzo millennio". Mi è caro, in questa circostanza, esprimere la mia gratitudine per l'invito che mi è stato rivolto a venire nella vostra università per tenervi una lezione. In questa prospettiva mi sono posto innanzitutto la domanda: che cosa può e deve dire un Papa in un'occasione come questa? Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del già professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi ed attualità. Nell'università "Sapienza", l'antica università di Roma, però, sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e perciò debbo parlare come tale. Certo, la "Sapienza" era un tempo l'università del Papa, ma oggi è un'università laica con quell'autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di università, la quale deve essere legata esclusivamente all'autorità della verità. Nella sua libertà da autorità politiche ed ecclesiastiche l'università trova la sua funzione particolare, proprio anche per la società moderna, che ha bisogno di un'istituzione del genere. Ritorno alla mia domanda di partenza: Che cosa può e deve dire il Papa nell'incontro con l'università della sua città? Riflettendo su questo interrogativo, mi è sembrato che esso ne includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna, infatti, chiedersi: Qual è la natura e la missione del Papato? E ancora: Qual è la natura e la missione dell'università? Non vorrei in questa sede trattenere Voi e me in lunghe disquisizioni sulla natura del Papato. Basti un breve accenno. Il Papa è anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtù della successione all'Apostolo Pietro, ha una responsabilità episcopale nei riguardi dell'intera Chiesa cattolica. La parola "vescovo"– episkopos, che nel suo significato immediato rimanda a "sorvegliante" – già nel Nuovo Testamento è stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore: egli è colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all'insieme, prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell'insieme. In questo senso, tale designazione del compito orienta lo sguardo anzitutto verso l'interno della comunità credente. Il Vescovo – il Pastore – è l'uomo che si prende cura di questa comunità; colui che la conserva unita mantenendola sulla via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana da Gesù – e non soltanto indicata: Egli stesso è per noi la via. Ma questa comunità della quale il Vescovo si prende cura – grande o piccola che sia – vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunità umana nel suo insieme. Quanto più grande essa è, tanto più le sue buone condizioni o il suo eventuale degrado si ripercuoteranno sull'insieme dell'umanità. Vediamo oggi con molta chiarezza, come le condizioni delle religioni e come la situazione della Chiesa – le sue crisi e i suoi rinnovamenti – agiscano sull'insieme dell'umanità. Così il Papa, proprio come Pastore della sua comunità, è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell'umanità. Qui, però, emerge subito l'obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare su questo argomento, perché si pone qui la questione assolutamente fondamentale: Che cosa è la ragione? Come può un'affermazione – soprattutto una norma morale – dimostrarsi "ragionevole"? A questo punto vorrei per il momento solo brevemente rilevare che John Rawls, pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione "pubblica", vede tuttavia nella loro ragione "non pubblica" almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l'altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l'esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell'umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato. Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell'umanità come tale - la sapienza delle grandi tradizioni religiose - è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee. Ritorniamo alla domanda di partenza. Il Papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l'intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica. Ma ora ci si deve chiedere: E che cosa è l'università? Qual è il suo compito? È una domanda gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine dell'università stia nella brama di conoscenza che è propria dell'uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può vedere l'interrogarsi di Socrate come l'impulso dal quale è nata l'università occidentale. Penso ad esempio - per menzionare soltanto un testo - alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b - c). In questa domanda apparentemente poco devota - che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino - i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d'uscita da desideri non appagati; l'hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l'interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell'essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell'essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l'interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell'ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l'università. È necessario fare un ulteriore passo. L'uomo vuole conoscere - vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra "scientia" e "tristitia": il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto - chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell'interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l'ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell'incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa. Nella teologia medievale c'è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire - una disputa che qui non dobbiamo sviluppare. Di fatto l'università medievale con le sue quattro Facoltà presenta questa correlazione. Cominciamo con la Facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina. Anche se era considerata più come "arte" che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo dell'universitas significava chiaramente che era collocata nell'ambito della razionalità, che l'arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all'ambito della magia. Guarire è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio. Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire nella Facoltà di giurisprudenza. Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che è sempre libertà nella comunione reciproca: il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista. Ma qui emerge subito la domanda: Come s'individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all'essere buono dell'uomo? A questo punto s'impone un salto nel presente: è la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell'uomo. È la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell'opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell'umanità. Jürgen Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti. Riguardo a questa "forma ragionevole" egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un "processo di argomentazione sensibile alla verità" (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico "processo di argomentazione" sono - lo sappiamo - prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all'insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico. Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: Che cos'è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla "ragione pubblica", come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: Che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, si rende in base a ciò evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d'interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza. Torniamo così alla struttura dell'università medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c'erano le Facoltà di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull'essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità. Si potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue le Facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere che l'uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse corrispondere a questo compito? Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente. Così, a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda - in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta. Teologia e filosofia formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall'altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità. È merito storico di san Tommaso d'Aquino - di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico - di aver messo in luce l'autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s'interroga in base alle sue forze. Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il "sì" alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento della nascita dell'università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede. Tommaso si trovò ad agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza. La Facoltà di filosofia che, come cosiddetta "Facoltà degli artisti", fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facoltà vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa. Non possiamo qui soffermarci sull'avvincente confronto che ne derivò. Io direi che l'idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro "senza confusione e senza separazione". "Senza confusione" vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al "senza confusione" vige anche il "senza separazione": la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all'umanità come indicazione del cammino. Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell'umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un'istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all'interno della fede e quindi non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. È vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una "comprehensive religious doctrine" nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi. Ebbene, finora ho solo parlato dell'università medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire la natura permanente dell'università e del suo compito. Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell'università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l'uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si è aperta all'umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell'uomo, e di questo possiamo solo essere grati. Ma il cammino dell'uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale - per parlare solo di questo - è oggi che l'uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all'attrattiva dell'utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell'università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione - sollecita della sua presunta purezza - diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e - preoccupata della sua laicità - si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma. Con ciò ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell'università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro.
DOSSIER "BENEDETTO XVI" Discorsi e omelie del Papa teologo Per vedere tutti gli articoli, clicca qui!
Fonte: Sito del Vaticano
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IL LATO NASCOSTO
Madre -bambino, che trauma quel filo spezzato.
Autore: Francesco Agnoli - Fonte:
Quando uno ha già qualche anno, non necessariamente più di trenta, è preso talvolta dai ricordi. Il volto di un amico non più frequentato, un gioco, un passatempo, un’avventura dolorosa o felice, risalgono dal pozzo della memoria sino alla superficie, con un gusto agrodolce: ciò che è stato non è più, eppure è ancora nostro. Ciò che è stato non possiamo più riprenderlo, purtroppo, e ci sfugge via. Però non è finito per sempre, in verità, perché ha contribuito a renderci ciò che siamo. Ogni esperienza vissuta si imprime più o meno fortemente in noi, nel nostro animo e nel nostro corpo. Siamo così, un sinolo di materia e forma, di anima e di corpo, come diceva Aristotele. I materialisti non possono capirlo, perché vedono solo materia che si muove. Gli spiritualisti neppure, perché non capiscono cosa c’entri quel corpo, che pure, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, ostinatamente c’è, nonostante il loro desiderio di trascenderlo, di essere puro spirito, di 'liberarsi'. Tutta la nostra storia è qualcosa di spirituale e di fisico, una fusione armoniosa e inestricabile. Il nostro affetto, che sentiamo nel cuore, che non tocchiamo, che ci sembra a tratti infinitamente grande, verso la persona amata, si traduce in un abbraccio, in una fatica, in un servizio, insomma in qualcosa di concreto. Il nostro odio diventa parole, sentimenti, gesti, digrignare di denti. Così, quando abbiamo una relazione con una persona dell’altro sesso, una relazione affettiva naturale, questa diviene col tempo anche unione carnale, fisica, perché la nostra unità lo esige. Esige che amiamo con tutto noi stessi. Ma se abbiamo amato così, non possiamo poi tirarci indietro pensando che sia senza conseguenze: non possiamo divorziare, senza strappare il nostro passato e quindi anche il nostro presente, e il nostro futuro, senza che tutto ciò che ci portiamo addosso urli a noi stessi, di esistere, di essere stato, di essere in qualche modo ancora. Ma soprattutto, visto che è questo di cui si parla in questi tempi, nessuna madre e nessun padre possono pensare, dopo aver concepito un bambino, di potersene disfare impunemen-te, con un gesto, fisico, una Ivg, come si suole dire con terminologia beffarda. Ciò che è stato concepito, c’è, esiste, e vive nel cuore e nella carne del padre, anche se lo rigetta, perché in lui vive il gesto che ha determinato il concepimento, e la consapevolezza latente del suo significato. Esiste, soprattutto, il concepito, nella psiche, nella carne della madre. Il bambino non è parte della madre , come dicono gli abortisti, cioè proprietà di lei, come una casa o una macchina, come qualcosa che si possiede, ma che è altro da noi, fuori di noi. Quel bambino è parte della mamma esattamente quanto la mamma è parte di quel bimbo. Parte, sempre, in senso carnale, perché il bimbo è formato dall’ovulo della madre, nutrito in simbiosi dalla madre e ospitato dal suo grembo; 'parte' anche spirituale, il concepito, perché in un certo senso 'tutto ciò che è spirituale è anche carnale' e 'tutto ciò che è carnale è anche spirituale'. Mi sorprende che quando si affronta il problema aborto, questa verità così concreta non sia quasi mai sottolineata. Quando il feto viene ucciso, intendo, anche una parte della madre viene uccisa: una 'parte' fisica e una 'parte' spirituale; anche una parte del padre muore, per sempre. Anche una parte del loro amore, se ne va, tanto è vero che vi sono coppie, come raccontano medici che hanno seguito questi casi, che si separano in seguito ad un aborto; altre che resistono, ma senza più amarsi come prima, tenute insieme magari dal rimorso di quello che hanno fatto e dal ricordo di chi ora potrebbe essere con loro. L’atto chirurgico, è vero, stacca e uccide qualcosa che sembra a sé stante, che appare, superficialmente, una vita autonoma, seppure ospitata: in verità quella vita era sì individuale, unica, ma era anche l’incontro biologico e spirituale delle vite dei suoi genitori; era anche parte del sangue, del corpo, dello spirito, dei pensieri, dei sogni, della madre (e del padre). Trovo conferma di queste mie riflessioni, studiando un po’ la letteratura medica sul post-aborto, ad esempio nei bellissimi saggi dei dottori Rigetti, Casadei e Maggino, compresi nel libro Quello che resta (editrice Vita Nuova), sapiente mescolanza di saggi scientifici e di testimonianze di donne. In questo testo si spiega chiaramente che «il lutto dell’aborto è plurimo, perché le perdite da affrontare sono molteplici e strettamente concatenate le une con le altre... una donna che interrompe la gravidanza soffre sia per la perdita del bambino che per la perdita di una parte della propria immagine come persona (nei diversi ruoli di figlia, donna, compagna, cittadina, appartenente ad una comunità religiosa ecc)». Secondo il Dsm III dell’American Psychiatric Association, infatti, l’aborto è considerato un evento traumatico in quanto «produce un marcato stress, tale da creare disturbi alla vita psichica; sopprime gli elementi di identificazione (della donna) col bambino; nega la gravidanza ma anche quella parte del sé che si era identificata col bambino». Le conseguenze, guarda caso, sono di tipo fisico e spirituale: «Disturbi emozionali, della comunicazione, dell’alimentazione, del pensiero, della sfera sessuale, del sonno, della relazione affettiva...». Assai sintomatica di quanto si è detto finora, mi sembra proprio l’esistenza dei disturbi affettivi e sessuali, che si giustifica appunto come reazione a un’esperienza sessuale, affettiva, di cui non è rimasto nulla, o meglio di cui permangono sensi di colpa, rabbia, paura, ripensamenti... Le occasioni del manifestarsi della sindrome post-abortiva sono anch’essi assai eloquenti: compaiono di solito in occasione di una nuova gravidanza, di un aborto spontaneo, di perdite affettive, di sterilità secondaria... Ecco perché un’esperienza d’amore che si conclude con un aborto, non rimane limitata a quel rapporto, a quella storia, ma si trascina e ripercuote anche su un’altra esperienza affettiva, proprio perché la donna, la persona, è una, sempre quella, pur nella molteplicità delle esperienze. Per questo l’aborto si può configurare, almeno in parte, anche come un suicidio, o, come scrivono alcuni psicologi, un «lutto complicato» in cui si «rende necessaria l’elaborazione sia della perdita dell’oggetto (il bimbo), sia della perdita simultanea e concreta di una parte del Sé», sia aggiungerei, di un perdita almeno parziale del rapporto col coniuge. Ha scritto la dottoressa Lerda, su una rivista fortemente a sostegno della 194 come Contraccezione, sessualità e salute riproduttiva: «Sia che la donna cerchi di cancellarne il ricordo, sia che continui a sentirne il peso, si tratta comunque di un lutto che si porterà dietro tutta la vita. È una scelta che influenzerà anche il rapporto con il partner e con gli eventuali partner successivi, una scelta che peserà nuovamente in caso di altre gravidanze». E Sia che la donna cerchi di cancellarne il ricordo, sia che continui a sentirne il peso, si tratta di un lutto che si porterà dietro tutta la vita.
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AOSTA: IL FUNERALE NEGATO
Dispersione delle ceneri: sì al funerale cristiano se il defunto è credente.
Autore: Silvano Sirboni - Fonte:
Il parroco di Aosta che, in un primo tempo, sembrava aver rifiutato le esequie cristiane (di fatto poi celebrate) ad una persona in quanto questa aveva disposto che le proprie ceneri fossero disperse sui monti, ha riportato alla ribalta della cronaca alcune problematiche riguardanti la cremazione con le solite inesattezze alle quali i mezzi di comunicazione di massa ci hanno purtroppo abituati (cf La Stampa del 6/1/2007 p. 18). È pertanto opportuno riprendere sinteticamente l’argomento per precisarne la normativa a scanso di equivoci e di interpretazioni oltremodo severe. La cremazione o incinerazione dei cadaveri è una prassi antichissima che, con la diffusione del cristianesimo, decadde in favore dell’inumazione ad imitazione della sepoltura di Cristo. La cremazione fu reintrodotta in Italia in epoca napoleonica per ragioni igieniche e, purtroppo, assunta dall’anticlericalismo allora imperante come segno di avversione nei confronti della Chiesa e della sua dottrina. Atteggiamento che costrinse la Chiesa a negare le esequie cristiane a quanti avessero scelto la cremazione (cf Cic del 1917, can. 1240, 5). Prendendo atto delle mutate circostanze fin dal 1963 l’allora Sant’Uffizio concede il funerale cristiano anche a chi sceglie di far cremare il proprio cadavere purché sia chiaro che tale scelta non sia fatta contro la fede cristiana. Questa prassi è accolta dal Rito delle Esequie (1969; trad. it. 1974) pur ribadendo “la preferenza della Chiesa per la sepoltura dei corpi, come il Signore stesso volle essere sepolto” (n. 15). Nel 2001 il Parlamento italiano ha promulgato la legge 130 con la quale permette ai familiari di custodire in casa le ceneri dei loro congiunti defunti e ne autorizza anche l’eventuale dispersione negli spazi cimiteriali come in altri spazi legalmente stabiliti. Il sussidio pastorale pubblicato dalla Commissione episcopale per la liturgia nello scorso novembre, per accompagnare il Rito delle Esequie, tra le altre proposte di preghiera subito dopo la morte, per la veglia, per la chiusura della bara e per il momento della sepoltura al cimitero, offre anche orientamenti pastorali e testi di preghiera adatti per i funerali in caso di cremazione (cf Proclamiamo la tua risurrezione, pp. 113-148). Orientamenti e testi di cui si sentiva il bisogno poiché non sono previsti dal rituale attuale. Fra le novità emerge la possibilità di celebrare le esequie anche in presenza dell’urna cineraria: ciò avviene eccezionalmente quando per ragioni pratiche i riti esequiali non possono aver luogo prima della cremazione. Il gruppo di lavoro incaricato di redigere il sussidio sotto la guida della Celsi è trovato di fronte alla diffusione di una prassi del tutto conforme alla legge civile ma che va oltre la semplice cremazione: la dispersione delle ceneri. Una scelta che potrebbe “sottintendere motivazioni o mentalità panteistiche o naturalistiche”, ma che soprattutto sembra essere l’ultimo atto di quella diffusa tendenza ad occultare la morte fino ad abolirne anche la memoria. “Il cristiano, per il quale deve essere familiare e sereno il pensiero della morte, non deve aderire interiormente al fenomeno dell’intolleranza verso i morti” ( Direttorio su pietà popolare e liturgia 259). È soprattutto la preoccupazione di perdere il luogo comune della memoria che sta all’origine dell’orientamento espresso dal sussidio: “Avvalersi della facoltà di spargere le ceneri, di conservare l’urna cineraria in un luogo diverso dal cimitero o prassi simili, è comunemente considerato segno di una scelta compiuta per ragioni contrarie alla fede cristiana e pertanto comporta la privazione delle esequie ecclesiastiche ( can. 1184, § 1, 2)” (p. 117). Poiché questo testo è contenuto in un semplice sussidio non costituisce una “norma” nel senso pieno di questo termine. Si tratta piuttosto di un orientamento pedagogico che cerca di dissuadere da certe scelte. Scelte che, se “comunemente”, cioè in generale, possono far supporre ragioni contrarie alla fede cristiana, nei singoli casi ciò deve essere verificato per non arrivare ad assumere posizioni che vanno ben oltre la norma e le intenzioni della persona defunta. Opportuno e chiarificatore è il comunicato della Curia vescovile di Aosta che, dopo aver precisato che il funerale è stato comunque celebrato per il defunto che ha disposto la dispersione delle sue ceneri, aggiunge che, a norma del diritto canonico, “le esequie ecclesiastiche vengono celebrate per tutti i fedeli, anche coloro che hanno scelto la dispersione delle proprie ceneri, a meno che tale scelta sia stata fatta per ragioni contrarie alla fede cristiana”.
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BUCHI NELL'EVOLUZIONISMO...
Autore: Carlo Bellieni - Fonte:
Gli evoluzionisti litigano per spiegare come sia potuto nascere l'altruismo (anzi come sia alla base dell'evoluzione stessa), dato che l'evoluzionismo classico si basa su una sorta di egoismo per la sopravvivenza. C'è chi lo chiama "evoluzione di gruppo" (kin evolution) per spiegare che un individuo si sacrifica per preservare il genoma del gruppo. Ma ci basta? A loro no. In realtà l'idea che la vita si sia creata per caso da un vortice di neutroni e elettroni e che sia progredita su basi di sopraffazione reciproca (e continui ad essere così adesso) nega l'amore, la solidarietà, l'arte come fenomeni secondari e casuali. E non spiega le leggi immutabili dell'universo: la forza di gravità, la velocità della luce... che siano anch'esse nate da una lotta tra molteplici leggi, di cui è prevalsa la più adatta? Se non c'è un Creatore, parrebbe proprio così... solo che la moderna fisica non approva: dobbiamo cancellare la fisica?
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LEGGE 194 E ABORTO
Autore: Mario Palmaro - Fonte:
Domanda: Ho letto l'articolo del prof. Palmaro sulla legge 194 che ne mette in evidenza l'intrinseca negatività. Pur convenendo con l'autore sulle considerazioni morali e le debite trasposizioni giuridiche fondate sul diritto naturale, mi domando se, nell'attuale dibattito pubblico e parlamentare, (che avviene all'interno di un ordinamento piuttosto giuspositivista) possa invece essere più utile l'approccio della Roccella e di altri che non parlano apertamente di malvagità intrinseca della legge ma magari portano a casa qualche risultato politico non distruggendo il possibile consenso degli incerti con argomentazioni incomprensibili in una cultura relativista. Spero di essere stato chiaro. Cordiali saluti.
Risponde il Prof. Mario Palmaro:
Caro Lettore, la sua domanda è interessante e molto precisa, e merita una risposta altrettanto netta. La posizione di Eugenia Roccella è semplicemente sbagliata. Come lo è quella di chiunque difenda, anche a scopo strategico e in buona fede, la legge 194. Non si può infatti accettare che - anche in vista di un bene sperato - si commetta un male: il fine non giustifica i mezzi. E dire - mentendo, oppure essendone convinti - che la legge 194 è una fra le migliori leggi sull'aborto al mondo, o che è “una buona legge”, è un gravissimo errore etico e giuridico. Di più: è una falsità. E con le falsità non si arriva da nessuna parte. Nessuno di noi sarebbe disposto ad accettare un giudizio simile riferito a una legge che legalizzasse la tortura, o la discriminazione razziale, o la discriminazione della donna. E sa perché? Perché è convinzione comune che queste condotte siano intollerabili. Invece, sulla 194 scatta un atteggiamento assolutorio perché in realtà è l'aborto che viene accettato come fatto normale. Soprattutto: qui c'è in gioco una visione femminista della realtà: l'aborto legale segna l'ingresso di un potere giuridico enorme per la donna, un potere che non è concesso dalla legge a nessun'altra categoria di cittadini: il potere di vita e di morte sul proprio figlio.
Questo è il punto terribile, questo è nocciolo della questione: hic Rhodus, hic salta. Facciamo un esempio. Poniamo che in Italia ci sia ancora la pena di morte. Poniamo che Eugenia Roccella si batta per la sua abolizione. Direbbe: “La legge sulla pena di morte che c'è in Italia è una buona legge: si tratta solo di applicarla bene”? Io non credo. Penso che approfitterebbe di ogni occasione - opportuna e inopportuna - per dire che “la legge sulla pena di morte è ingiusta, e va abolita”. E non si preoccuperebbe troppo di contare prima quante persone sono d'accordo con lei. Domanda: ma dire che la legge 194 è gravemente ingiusta servirà a cambiare la legge? Non lo sappiamo. Ma una cosa sappiamo con sicurezza: che dire “la legge è buona” non potrà mai servire a cambiare nemmeno una virgola. Si è mai visto qualcuno che va a una trattativa dicendo che le proposte della controparte gli vanno comunque bene? Si è mai visto un sindacato andare da Confindustria dicendo: “Ah, le vostre condizioni sono ottime, per noi vanno bene così” ? Al dibattito politico si deve andare con una posizione forte, dura, chiara, netta. Poi si aprirà la discussione, la mediazione. Ma a nessuno - ripeto: a nessuno - deve venire il dubbio che i pro life, o i cattolici, siano “a favore” della legge in vigore sull'aborto. Da molte settimane, invece, caro amico, questa è la netta sensazione che un osservatore esterno ha del dibattito italiano. Diverso è naturalmente l’atteggiamento e l’attività del parlamentare rispetto ai pro-life, ma come faranno i parlamentari a mettere in discussione la legge se neppure i difensori della vita lo fanno? Il parlamentare ha bisogno di un forte retroterra. Ecco, caro Lettore: qui siamo di fronte alla “grande trappola” che è stata preparata per i pro life italiani: cominciare a dire - e poi anche a pensare - che dell'aborto legale non se ne possa proprio fare a meno. Che sia una condizione inevitabile, e perfino “giusta”, della nostra realtà. Ma che sia possibile - in vigenza del “diritto della donna di abortire”, darsi da fare nei consultori e negli ospedali per salvare quanti più bambini. Questa seconda cosa è giusta, e va fatta. Ma senza mai tacere - o perdere di vista - la verità tutta intera: e cioè che ogni aborto legale è inaccettabile. E resterà inaccettabile anche se - poniamo - 99 persone su 100 dovessero ritenere il contrario. I miei figli - il più grande ha 8 anni - già da qualche tempo mi hanno chiesto: “Papà, che cos'è l'aborto?” E ancora: “Papà, che cos'é la legge 194?”. Ora, io potevo rispondere che la 194 é una legge un po' buona e un po' cattiva, una legge “che in origine era contro l'aborto”, oppure che “è una legge ancora da applicare pienamente”. Ma non sono bravo a raccontare le bugie, e ho detto, semplicemente: “L'aborto è quando una mamma uccide il bambino che ha nella pancia, e la 194 è la legge che in Italia ha permesso tutto questo”. Sfido chiunque in qualsiasi sede a dimostrare il contrario di questa affermazione. I miei figli hanno capito benissimo. E nel loro cuore è nato spontaneo il giudizio. Sull'aborto. E sulla legge. Era loro diritto avere una risposta vera. Noi pensiamo che questo stesso diritto l'abbiano tutti i bambini italiani. Di oggi e di domani.
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SABOTATO IL LABORATORIO DELLO SCIENZIATO VESCOVI
Io non mi fermo
Autore: Enrico Negrotti - Fonte:
È stato forzato il lucchetto del contenitore di azoto liquido e sono state distrutte le linee cellulari che il ricercatore conservava all’Università della Bicocca Un danno da oltre 500mila euro
Non vuole dare soddisfazioni al sabotatore che nella notte tra venerdì e sabato si è introdotto all’Università di MilanoBicocca per distruggere le linee cellulari, staminali e altre, lì conservate e dedicate alla ricerca di base sui tumori cerebrali. Angelo Vescovi, docente di Biologia cellulare nell’ateneo milanese, è finito nel mirino: «L’obiettivo era certamente il lavoro mio e della mia squadra di giovani ricercatori, ma non ci fermiamo certo. Il nostro bidone era tra altri cinque, ma era l’unico con un lucchetto, ed è l’unico a essere stato rovesciato. Si trova in un’area comune perché i contenitori di azoto liquido devono essere collocati in ambienti ventilati e quella era l’unica area disponibile». Ma nonostante il sabotaggio abbia provocato danni per oltre 500mila euro, non sono andate perdute le cellule più importanti. «È stato aperto il nostro bidone e sono state gettate a terra le nostre colture cellulari (staminali del cancro cerebrale, qualche staminale per trapianti contro la Sla, staminali cerebrali umane e altre linee di cellule). Il danno è stato scoperto nel pomeriggio di sabato, ma deve essere stato compiuto prima delle 9 del mattino, quando nell’edificio ha ricominciato a girare personale». Le cellule più «preziose» per le sperimentazioni future però non si trovavano lì: «Curiosamente – osserva ancora Vescovi – erano state trasferite altrove da poco. E non dirò mai dove. Sono le stesse cellule, molto importanti per gli esperimenti che dovremo effettuare all’ospedale di Niguarda e al Centro “Brain Repair” di Terni, che sono sfuggite a un altro incidente capitato circa un anno fa, quando ancora lavoravo al San Raffaele di Milano: anche allora erano appena state trasferite». In quella circostanza, racconta il ricercatore, si erano svuotati i contenitori di azoto, ma non era scattato né il riempimento automatico, né il sistema d’allarme: «In Bicocca, tutto il resto del nostro lavoro è conservato sotto chiave. Tengo a precisare che non ho nulla da lamentare delle procedure di sicurezza dell’Università di Milano-Bicocca. Certamente ho qualche sospetto, ma non so se potrò riferirlo agli inquirenti quando verrò convocato: ci andrò con l’avvocato per non rischiare di finire sul banco degli accusati». Nel mirino, Angelo Vescovi, sa di esserlo da un tempo preciso: «Quasi tre anni. Da quando cioè presi posizione, da laico, contro la ricerca sulle cellule staminali embrionali in vista dei referendum sulla legge 40. Da allora ho subito ostracismi e minacce. Ma è paradossale che si tenti di sabotare la ricerca che cerco di condurre per la lotta alle malattie neurodegenerative, quella in sostanza a scopi umanitari». Altre «vittime» del sabotaggio sono i 22 giovani colleghi di Vescovi : «È triste per loro vedere andare in fumo mesi di lavoro, che li impegna con abnegazione per 14-16 ore al giorno: ma in qualche mese faremo ripartire le nostre linee cellulari». «Per fortuna le cellule più importanti – commenta il biologo – erano state trasferite da poco in altro luogo E non dirò mai dove»
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OSPEDALE DI SIENA: RIVOLTA PER LA SOSTA
Scotte, rivolta per la sosta
Il Mcl raccoglie firme per chiedere i parcheggi gratuiti
Autore: Francesco Meucci - Fonte:
«LA SALUTE non paga il pedaggio». E’ uno slogan semplice, ma efficace, quello scelto dal Mcl (movimento cattolico lavoratori) per promuovere una raccolta firme con cui chiedere parcheggi gratuiti all’ospedale. Una petizione popolare rivolta agli amministratori con cui il Movimento intende «liberare» dal balzello della sosta quelle centinaia di persone che ogni giorno si recano alle Scotte per motivi di salute, oppure per andare a trovare parenti o amici ricoverati.
E’ GIANLUCA FOSI, presidente provinciale del Mcl a spiegare il senso dell’iniziativa: «Avrei estremo piacere che questa battaglia di civiltà, di cui primo firmatario è il presidente nazionale del nostro movimento, Carlo Costalli, fosse condivisa da tutte le associazioni cattoliche e non sensibili al problema ed operanti nella provincia senese. Di qui il mio appello affinché chi vuole fare propria la petizione, su cui non esiste alcun diritto di ‘copyright’, lo faccia assieme al Mcl o singolarmente tramite la struttura della propria associazione: su temi come questo, riteniamo infatti che non debbano esserci gelosie o chiusure, che, da parte del Mcl, non ci saranno».
LA RACCOLTA delle firme inizierà nei prossimi giorni proprio di fronte alle Scotte e si annuncia anzitutto come, spiega ancora Fosi, «una battaglia, di civiltà prima che di spirito cristiano e di solidarietà nei confronti di chi soffre». C’è dell’altro, però, oltre allo spirito cristiano, in quanto il movimento fa presente come l’articolo 7 del Codice della strada stabilisca che, ad eccezione delle ztl, le amministrazioni devono garantire una quota di aree libere a fianco dei parcheggi a pagamento. E’ sì vero che il parcheggio alle Scotte ha un prezzo simbolico di due euro e cinquanta anche per tutto il giorno, ma è altrettanto vero che spesso i parenti dei malati vanno anche due o tre volte all’ospedale, quindi pagano molto di più.
INFINE, AL MCL non è andato giù l’annuncio del sindaco che delle tariffe per il nuovo parcheggio da realizzare nella zona dell’eliporto con la ristrutturazione della viabilità nella zona, se ne discuterà in un secondo momento.
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