BastaBugie n�17 del 22 febbraio 2008
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GLI ANGLICANI SONO DIVISI SUI GAY
Uganda, sui gay scontro tra anglicani
Autore: Elisabetta Del Soldato - Fonte:
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LONDRA, ASSOLTI CINQUE MUSULMANI
I giudici: il possesso di propaganda estremista non può essere reato
Fonte:
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ANCORA IL MITO DEL BUON SELVAGGIO: IL CASO AFRICA
Africa felix, il mito antioccidentale che resiste all'evidenza
Autore: Anna Bono - Fonte:
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BRAVO FERRARA, VAI AVANTI !
Lettera di Francesco Agnoli, giornalista, a Giuliano Ferrara
Autore: Francesco Agnoli - Fonte:
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RIANIMAZIONE DEI NEONATI PREMATURI E ABORTO TARDIVO: SIAMO ALLA “LICENZA DI UCCIDERE”?
Autore: Mario Palmaro - Fonte:
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LO SCAFANDRO E LA FARFALLA: FINALMENTE UN FILM DA VEDERE!
Nei cinema c’è un inno alla vita
Autore: Toni Viola - Fonte:
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KATYN: OTTIMO FILM SULLA STRAGE COMUNISTA. FINALMENTE SCOPERTA LA VERITÀ
Wajda, film denuncia sull’eccidio di Stalin.
Il regista: «Nel 1939 furono uccisi 22mila polacchi tra cui mio padre. Mosca prima diede la colpa ai nazisti, poi tacque. La verità è emersa solo nel 1990»
Autore: Alessandra De Luca - Fonte:
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È CONSENTITO DIRE CHE CAOS CALMO DI NANNI MORETTI È UN PESSIMO FILM?
Inutile bailamme per un giudizio educativo sul film «caos calmo»
Fonte:
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RIFLESSIONI SULLA MANCATA VISITA DEL VESCOVO DI SIENA ALLA SCUOLA DI ROSIA (SI)
Ci interessa il cuore.
Autore: Andrea Bechi - Fonte:
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GLI ANGLICANI SONO DIVISI SUI GAY
Uganda, sui gay scontro tra anglicani
Autore: Elisabetta Del Soldato - Fonte:
LONDRA. La Chiesa anglicana dell’Uganda ha deciso di boicottare la Conferenza episcopale di Lambeth, un appuntamento che coinvolge i vescovi anglicani di tutto il mondo e che si tiene ogni dieci anni. L’iniziativa è stata presa in risposta alla decisione di Lambeth Palace, residenza dell’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, la più alta carica spirituale anglicana, di invitare alla conferenza di luglio anche quei vescovi che «condonano l’omosessualità attiva». Dopo le dichiarazioni di Williams la settimana scorsa sulla necessità di adottare alcune parti della legge islamica in Gran Bretagna che hanno scatenato furore, «quest’anno – ci spiega l’opinionista religioso della “Bbc” Robert Pigott – è destinato a essere un anno molto critico per l’unità della Chiesa anglicana». Sono anni che le chiese anglicane di molti Paesi in via di sviluppo minacciano di voltare le spalle a Lambeth Palace. E ora la decisione della Chiesa dell’Uganda che conta su otto milioni di fedeli, è destinata a minare ancora di più le relazioni con il palazzo e la stabilità del primate Rowan Williams che dopo i commenti della scorsa settimana sta vacillando sempre di più. L’Uganda fa riferimento in particolar modo all’ordinazione della Chiesa anglicana americana del vescovo omosessuale Gene Robinson avvenuta nel 2003. In una lettera spedita a Londra, la Chiesa dell’Uganda spiega che i suoi vescovi parteciperanno invece alla conferenza più tradizionalista che si terrà a Gerusalemme.
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LONDRA, ASSOLTI CINQUE MUSULMANI
I giudici: il possesso di propaganda estremista non può essere reato
articolo non firmato
Il possesso di propaganda estremista non è un motivo sufficiente per mandare qualcuno in prigione, perché per farlo bisogna provare che l’imputato intendeva commettere atti di terrorismo. Con questa sentenza tre giudici della Corte d’Appello di Londra hanno fatto crollare uno dei pilastri della legge britannica contro il terrorismo, al quale polizia e pubblici ministeri hanno spesso fatto ricorso per mettere sotto inchiesta e incriminare sospetti terroristi. Ora la strada è aperta agli appelli di individui precedentemente condannati. Protagonisti del caso sono cinque giovani musulmani condannati nel luglio scorso alla detenzione per aver scaricato da Internet propaganda jihadista. Secondo gli inquirenti i cinque erano in possesso di un’enorme collezione di materiale estremista e stavano progettando di recarsi in Afghanistan per combattere a fianco dei taleban. Ma secondo i giudici le leggi in questo campo sono imprecise e danno origine ad una definizione troppo ampia dei crimini legati al terrorismo.
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ANCORA IL MITO DEL BUON SELVAGGIO: IL CASO AFRICA
Africa felix, il mito antioccidentale che resiste all'evidenza
Autore: Anna Bono - Fonte:
Il 26 gennaio, in Kenya, l'automobile di Padre Michael Kamau, un sacerdote, è stata fermata da un gruppo di giovani di etnia Kalenjin, armati di arco, frecce e panga, a poche decine di chilometri da Nakuru, la città nota in tutto il mondo per l'omonimo lago che ospita centinaia di migliaia di flamingo rosa. Gli hanno chiesto come si chiamava e già dovevano aver immaginato a che tribù appartenesse dai tratti somatici; quando ha risposto, non hanno più avuto dubbi perché solo un uomo di etnia Kikuyu può chiamarsi Kamau e a quel punto il destino di padre Michael era segnato. Lo hanno ucciso, insieme a un suo compagno di viaggio, infierendo su di lui a colpi di pietra tanto da sfigurarlo. Da allora si è finalmente zittito il coro quasi unanime di voci - studiosi, missionari, dipendenti di organismi di cooperazione allo sviluppo - che fino a quel momento aveva insistito nel negare l'esistenza di un fattore etnico nelle violenze esplose in Kenya all'indomani del 27 dicembre, data delle elezioni generali di cui l'opposizione non ha accettato il risultato denunciando brogli da parte del partito di governo. In compenso voci quasi altrettanto corali tentano almeno di dimostrare che l'odio etnico in Kenya, e più in generale in Africa, è un sentimento di cui sono responsabili le potenze europee che, nei pochi decenni di dominio coloniale, sarebbero riuscite a dividere gli africani, per millenni fraternamente intenti a spartirsi le risorse del continente, trasformandoli in tribù ostili e incapaci di convivere. È il mito dell'Africa felix precoloniale, così ben illustrato e magistralmente demolito dallo storico italiano Claudio Moffa nel suo saggio esemplare, L'Africa alla periferia della storia (Aracne, 2005), uno dei rari testi che affrontano lo studio del passato africano secondo un'ottica non terzomondista. Vi si descrive una realtà indiscutibilmente pervasa dalla logica di una violenza bruta al punto da rendere la guerra inter e intra tribale, con la sua potenzialità distruttrice e forse anche genocida, il segno distintivo stesso della comunità africana tradizionale: e questo perchè la guerra di rapina e di conquista rappresenta un fattore strutturale delle economie di sussistenza, non solo tribali e non solo africane. Al mito dell'Africa felix si deve anche l'idea che, nei millenni precedenti la colonizzazione europea, gli africani avessero scelto di vivere in armonia con l'ambiente, nel pieno rispetto della natura: disposti a sottrarle non più del minimo necessario per sopravvivere pur di non alterarne i delicati e sacrosanti equilibri. Anche in questo caso la realtà è un'altra, confermata tuttora dalla bassa speranza di vita alla nascita e dalla elevata mortalità infantile: nei secoli gli africani non sono stati in grado di superare il livello delle economie di sussistenza dalla produttività limitatissima e hanno vissuto - in gran parte continuano a vivere - stentatamente, sfruttando la natura talvolta fino al suo esaurimento, in mancanza delle tecnologie necessarie a moltiplicare le risorse naturali. Un terzo aspetto del mito dell'Africa felix è la teoria secondo cui gli africani sono stati e rimangono i depositari di valori umani fondamentali, esempi di tolleranza, uguaglianza, accoglienza e rispetto della persona umana. Engels, e con lui innumerevoli altri autori incluse non poche esponenti del movimento femminista internazionale, è arrivato a sostenere persino che la posizione delle donne africane è solo apparentemente inferiore poiché esse godono in realtà di una stima maggiore di quella concessa, ad esempio, alle donne europee. In un celebre passo del suo "L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato" ha sostenuto che «la signora della società civile, circondata di omaggi apparenti» ha una posizione sociale infinitamente più bassa della donna della barbarie «considerata presso il suo popolo come una vera signora» e tale anche per il suo carattere. La resistenza del mito dell'Africa felix e la sua tenace difesa, malgrado la sua inconsistenza, hanno una spiegazione. Questo mito, nella sua triplice articolazione, è uno dei cardini su cui si basa il rifiuto della civiltà occidentale: associato alla teoria, peraltro del tutto infondata, secondo cui al momento del loro primo impatto Europa e Africa erano pari per livelli di civiltà raggiunti e che anzi l'Africa per certi aspetti sopravanzava l'Europa, serve a sostenere l'affermazione che siano esistiti altri modelli di civiltà, superiori e migliori sotto ogni punto di vista, che l'Occidente avrebbe distrutto per la sua feroce determinazione a dominare il mondo.
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BRAVO FERRARA, VAI AVANTI !
Lettera di Francesco Agnoli, giornalista, a Giuliano Ferrara
Autore: Francesco Agnoli - Fonte:
Caro direttore - Da quando avevo sedici anni, ereditando una passione paterna, mi occupo e scrivo di aborto. Ho incontrato, su questo tema, centinaia e centinaia di giovani. Ma mai, nel mio piccolo, sono stato contattato da un prete, da un religioso, da un movimento o da un altro esponente di qualche valore del mondo cattolico cui appartengo, sino a qualche anno fa. Ho sempre visto, anzi, un interesse maggiore a questa tematica in chi dalla fede era lontano. Nei cattolici, invece, ho trovato spesso paura, disinteresse, indifferenza, superficialità, a volte anche rancore. Da qualche anno qualcosa è cambiato, e so bene che oltre che di Benedetto XVI e del cardinale Ruini, il merito è anche tuo. Perchè hai insistito con passione, hai coltivato un tema che da tanti e tanti anni ti frullava nella testa e nel cuore. E lo hai fatto infischiandotene di tutte le chiacchiere del mondo e delle curie. Non so se la lista in sé sia qualcosa di politicamente utile. So solo che hai deciso di farla e la vuoi fare, checché ne dicano i Melloni e le Bindi. Non è sufficiente? Hai lasciato La7, che ti dava visibilità e potere, ti sei alienato la simpatia di moltissime persone, anche in Vaticano, e ora vuoi entrare come il piccolo Frodo nella terra di Mordor. La tua protezione e il tuo manto siano la "follia" cristiana, l'idea che per una testimonianza, non importa quanto efficace, si può dare tutto. Combatti la buona battaglia di cui parla san Paolo, vivi un giorno da leone, piuttosto che cento da pecora... tanto poi si muore, e allora o c'è il cielo, o almeno non si finisce nella palude eterna, insieme ai Melloni, alle Bindi e ai vari cattolici adulti.
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RIANIMAZIONE DEI NEONATI PREMATURI E ABORTO TARDIVO: SIAMO ALLA “LICENZA DI UCCIDERE”?
Autore: Mario Palmaro - Fonte:
Negli ultimi giorni si sono intrecciate due questioni che riguardano il diritto alla vita: da un lato, il termine ultimo per eseguire gli aborti tardivi in relazione alla possibilità di sopravvivenza del feto fuori dal corpo materno; dall’altro, la rianimazione dei neonati estremamente prematuri.
Il Ministro della Salute Livia Turco ha voluto tenacemente tenere distinte le due questioni: da una parte ha chiesto al Consiglio Superiore della Sanità la fissazione di un termine generale per l’esecuzione dell’aborto; e dall’altra ha suggerito di definire protocolli per l’assistenza dei neonati prematuri. La Commissione ministeriale di esperti ha suggerito di non tentare di salvare i bambini alla 22ª settimana di gestazione, salvo casi eccezionali, di farlo per quelli alla 23ª solo se vitali e coinvolgendo nella decisione i genitori; per quelli partoriti prima della 22ª settimana ha implicitamente negato ogni possibilità di rianimazione; infine ha suggerito di tenere conto, nella decisione, “dei dati di mortalità e disabilità”.
In sostanza, se il bambino ha poche possibilità di sopravvivere o alte possibilità di essere affetto da disabilità o se i genitori sono contrari, è meglio non rianimare e limitarsi alle cure compassionevoli che accompagnino il bambino alla morte.
Il Comitato Verità e Vita denuncia con forza la gravità di queste posizioni e il pericolo che esse costituiscono per la vita di tutti gli uomini e per la stessa democrazia.
In primo luogo diciamo a chiare lettere quali sono le intenzioni degli abortisti: da una parte avere mano libera nell’esecuzione degli aborti tardivi, dall’altra introdurre surrettiziamente – per “linee guida” – l’eutanasia perinatale. Quanto all’aborto tardivo, la fissazione di un termine generale garantisce il medico da ogni rischio: egli potrà, infatti – se la gravidanza non ha raggiunto quella settimana di gestazione – uccidere il bambino prima di estrarlo dal corpo della madre, così da non avere nessun problema di rianimarlo. Quanto, invece, ai neonati prematuri, si vuole affermare un principio contrario alla legge e alla Costituzione: che cioè un paziente che ha una qualche possibilità di sopravvivere alla patologia che lo affligge può essere o meno curato a seconda delle previsioni sulle malattie che avrà nel futuro e sulle probabilità di successo delle terapie: è eugenetica applicata. Ma anche in questo campo alcuni medici vogliono avere le mani libere: che siano i genitori a decidere se il bambino deve essere lasciato morire o no.
Si deve ribadire che, invece, tutti gli uomini – grandi o piccoli, sani o malati – hanno diritto alla vita e quindi hanno diritto ad essere curati fino a quando le cure si dimostreranno inutili: solo allora dovranno essere accompagnati alla morte nel modo migliore. La legge tutela questo principio con la norma sull’omicidio: il medico che non rianima o non cura un neonato che ha la possibilità di sopravvivere lo uccide.
Una volta tanto è la legge 194 che ribadisce questo principio: quando vi è possibilità di sopravvivenza deve essere adottata dal medico ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto: ma quei feti abortiti tardivamente si trovano nella stessa condizione dei neonati partoriti prematuramente.
E allora: se davvero deve essere fissato un termine per l’esecuzione degli aborti tardivi, che sia così anticipato da escludere ogni possibilità, anche minima, di sopravvivenza fuori dall’utero (allo stato attuale delle conoscenze scientifiche: non oltre la 19ª settimana). le indicazioni della Commissione Ministeriale siano abbandonate e si segua il principio che tutti i bambini – abortiti tardivamente per il pericolo di vita della madre o partoriti prematuramente – se hanno una sia pur minima possibilità di sopravvivere, siano rianimati e curati nella maniera più adeguata, a prescindere dalla volontà dei genitori e da ogni considerazione sulla loro disabilità futura.
I medici siano difensori responsabili della vita, non esecutori di sentenze di morte altrui.
È inevitabile un’ultima considerazione: come mai oggi siamo arrivati al punto che si propone e si considera lecita l’uccisione eugenetica dei neonati, e che si giustifica la loro soppressione sulla base delle loro malattie, della “qualità della vita” che li aspetta? Il merito – anzi: la colpa – è della legge 194, che da trent’anni permette l’uccisione di milioni di bambini e che ha trasformato le diagnosi prenatali in gravidanza in una raffinata caccia al bambino imperfetto da eliminare prima che venga alla luce. E’ questa legge che ha “allenato” le nostre menti e i nostri cuori: è così facile pensare che, se si poteva sopprimere prima, perché non si potrebbe lasciarlo morire dopo, sulla base delle medesime argomentazioni “compassionevoli” addotte per la pratica abortiva. Il riconoscimento del diritto alla vita di tutti gli uomini passa attraverso l’abrogazione della legge sull’aborto. Tentare di tutelare la vita umana consolidando la legge 194, o illudendosi di aggrapparsi alle sue mitiche “parti buone” è solo una tragica illusione.
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LO SCAFANDRO E LA FARFALLA: FINALMENTE UN FILM DA VEDERE!
Nei cinema c’è un inno alla vita
Autore: Toni Viola - Fonte:
Premio per la miglior regia a Cannes, quattro nomination agli Oscar del prossimo 24 febbraio. È da ieri nelle sale italiane il bellissimo e commovente Lo scafandro e la farfalla del regista americano Julian Schnabel, che racconta la vicenda drammaticamente reale del francese Jean-Dominique Bauby. Colpito da ictus all’età di 42 anni, Bauby (autore di successo e redattore capo della prestigiosa rivista francese Elle) rimase poi vittima di una rara sindrome che lo paralizzò dalla testa ai piedi rinchiudendolo nel suo stesso corpo, come in uno scafandro. L’uomo dettò la sua autobiografia, da cui è tratto il film di Schnabel, in poco più di un anno utilizzando solo il battito di una palpebra, l’unica parte del corpo che era in grado di governare, perché per ogni altra funzione dipendeva dalle macchine. Un calvario di 16 mesi (Bauby si spense il 9 marzo 1997, dieci giorni dopo la pubblicazione del volume), ma anche un incredibile inno alla vita, vista e vissuta attraverso quell’occhio capace di esprimere tutta la profonda essenza di un uomo così umiliato e imprigionato, ma libero come una farfalla, nei battiti di quelle palpebre. È possibile che l’essere umano travolto da un’improvvisa, terribile tragedia scopra la sua vera natura e il senso più profondo della vita? Dobbiamo ammalarci ed esplorare i meandri dell’inferno perché ci appaia un angelo pronto ad aiutarci? Parte da queste domande Schnabel per dare vita a un autentico capolavoro intriso di straordinaria umanità, poesia, persino ironia, com’era nelle corde dello sfortunato Bauby, interpretato dal bravo Mathieu Amalric. Ma c’è anche profonda disperazione. Come quando, appena appreso a comunicare con il movimento delle palpebre, le sua prime parole sono: «Voglio morire». «Parole oscene e irrispettose» secondo la sua fisioterapista (Emmanuelle Seigner) che a quell’uomo sta dedicando tutta se stessa. E Bauby scoprirà come la vita valga la pena di essere vissuta comunque. Un tema, quello dell’intangibilità e sacralità della vita, spesso tabù sul grande schermo o affrontato piuttosto per ribadire il diritto all’eutanasia (come nel caso di Mare dentro di Alejandro Amenabar, Oscar nel 2005), è trattato da Schnabel in maniera sorprendente. Il regista ci ricorda infatti che anche un’esistenza apparentemente così miserabile può ancora riservare gioia e serenità, emozioni e sogni da cercare tra memorie e immaginazione. Intrappolato, con il protagonista, tra membra inerti per quasi un’ora, lo spettatore assiste quasi con l’occhio stesso di Bauby (e di Schabel) alle vicende che si dipanano sullo schermo con quello stesso sguardo, ascoltando la voce di un uomo che nei suoi monologhi interiori si chiede se quella si possa chiamare vita, che rimpiange cose mai dette, gesti mai compiuti, amore mai dato, la gioia perduta senza però mai perdere, persino, un innato senso dell’umorismo. Un meraviglioso e misterioso inno alla vita, dono assoluto
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KATYN: OTTIMO FILM SULLA STRAGE COMUNISTA. FINALMENTE SCOPERTA LA VERITÀ
Wajda, film denuncia sull’eccidio di Stalin.
Il regista: «Nel 1939 furono uccisi 22mila polacchi tra cui mio padre. Mosca prima diede la colpa ai nazisti, poi tacque. La verità è emersa solo nel 1990»
Autore: Alessandra De Luca - Fonte:
Una struggente vicenda familiare per rievocare una pagina di storia controversa e dimenticata, poco prima che le ferite della Seconda Guerra Mondiale comincino a insanguinare l’Europa intera. A raccontarla è il regista polacco Andrzej Wajda che con Katyn, ieri in concorso al Festival di Berlino e in corsa agli Oscar come migliore pellicola straniera, porta per la prima volta all’attenzione dell’Occidente l’orrore di una strage rimossa per oltre mezzo secolo. Siamo in Polonia nel 1939 e il film comincia con la scena di due folle in fuga lungo la medesima strada percorsa però in senso inverso. Una fugge dall’oppressione della Wermacht, l’altra dall’Armata Russa. È il 17 settembre e con il patto segreto Ribbentrop-Molotov la Germania di Hitler e l’Unione Sovietica di Stalin si sono appena spartite il territorio polacco cancellandolo di fatto dalle carte geografiche. In seguito a quella doppia invasione 22mila ufficiali polacchi furono arrestati, deportati nei campi di prigionia sovietici, uccisi con un colpo alla nuca nella foresta di Katyn nei pressi della città di Smolensk e sepolti in fosse comuni. Intanto mogli e figli attendevano invano il ritorno a casa dei loro cari, dei quali non avevano più notizia. Mosca rigettò la responsabilità del massacro sull’esercito nazista, ma in realtà, come si è scoperto solo nel 1990, quando Gorbaciov desecretò i documenti del Kgb, fu la polizia segreta di Stalin a ordinare la “pulizia” degli ufficiali, rei solo di non avere più un nemico da combattere. Sull’eccidio calò poi il silenzio dell’Occidente per il quale nel frattempo Stalin era diventato un alleato prezioso contro la Germania. Erano anni che l’ottantunenne Wajda, figlio di uno degli ufficiali uccisi a Katyn, sognava di realizzare questo progetto, doloroso e personalissimo. Ma durante il comunismo l’argomento era tabù, naturalmente. Poi sono subentrate difficoltà artistiche. «Come mettere in scena una tale mole di documentazione improvvisamente disponibile? Chi sono gli eroi di questo film e a che pubblico si rivolge? Sono queste le domande che mi sono fatto per anni – ha spiegato il regista – prima di cimentarmi in questa impresa che mi fa particolarmente piacere presentare qui a Berlino. Una cosa però mi era chiara sin dall’inizio: quello che racconto è un avvenimento troppo tragico per essere manipolato politicamente. Il film non è un atto d’accusa contro nessuno, ma la storia di un fatto umanamente rilevante, un dolore individuale e collettivo al tempo stesso». Basato sul romanzo Post mortem di Andrzej Mularczyk, il film può contare anche sui diari delle tante donne che aspettavano padri, figli e mariti dal fronte. «Mia madre – racconta il regista – ha atteso per tutta la sua vita il ritorno di mio padre Jacub solo perché il suo nome era scritto in maniera errata nella lista dei morti. E come lei tante donne non si sono mai rassegnate ». Forte di un grande successo in patria, il film si prepara a uscire anche in Russia e nel resto del mondo, e a chi gli chiede se tornerà su un argomento così scottante nel suo prossimo film, Wajda risponde sorprendendo la platea: «Sono troppo vecchio ormai, ho voglia di fare finalmente un film che parli dell’oggi».
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È CONSENTITO DIRE CHE CAOS CALMO DI NANNI MORETTI È UN PESSIMO FILM?
Inutile bailamme per un giudizio educativo sul film «caos calmo»
articolo non firmato
Un sacerdote, don Nicolò Anselmi, responsabile della Pastorale giovanile della Cei, a proposito di una scena di sesso in 'Caos calmo' di Nanni Moretti ha detto che attori e registi hanno una grande responsabilità educativa, e ha espresso il desiderio che non indulgano a un 'erotismo distruttivo'. E’ successo un mezzo finimondo. 'Censura', 'anatema', 'crociata', hanno titolato i giornali. E giù con la 'intromissione nella sfera laica delle persone', dagli con Dario Fo a ruota libera sui preti sessuofobi. E 'Bacchettoni', e l’'Autonomia dell’Arte', e 'Si è passato ogni limite'. Titoli in prima, paginate doppie. Esercizio di collettivo sgomento mediatico a questa ennesima impennata dell’Oscurantismo Cattolico. In fondo il più pacato è stato Moretti, che non si è molto stupito che alla Chiesa non piacesse quella scena, e ha parlato di 'polemica montata' e di 'sciatteria isterica dei media'. In effetti. Un prete che si occupa di giovani fa una critica spinto da una preoccupazione educativa: gli dispiace che in un film d’autore entri una scena di sesso dal gusto nichilista. Si appella a una 'passione educativa' di attori e registi. Come dire: mostrateci qualche volta anche qualcosa che vorreste dare ai vostri figli. Che scandalo, che interferenza con l’Arte. Quel sacerdote ha scritto come un uomo che ha cara la questione dell’educare, e del trasmettere un desiderio di continuare questione oggi in Italia grave e urgente. La sua è la lettera di un prete che vede come i modelli dei media facilmente, sotto all’appagamento della pura istintività, tendono al nulla, a nessuno sbocco se non una sorta di sterile consumismo dell’altro. Ha chiesto che chi costruisce questi modelli così potenti pensi anche a come funzioneranno nella testa dei ragazzi che li guardano. È uno scandalo? Sì, è pensiero cattolico e dunque naturalmente 'crociata'. Se il Papa dice – come d’altronde è sua inveterata abitudine – che la vita umana va tutelata fin dal suo inizio, è 'crociata'. Se un sacerdote critica una scena di sesso dal sapore disperato, in un film che sarà visto da milioni, è 'anatema'. Domanda: c’è qualcosa di cui i cattolici possono parlare? Di vita no, di educazione no, di politica men che meno. Di cosa dovrebbero parlare allora? Di taciti fioretti forse, in tempo di Quaresima; di catechismo magari, purché a bassa voce nei locali rigorosamente chiusi di un oratorio, e con l’attenzione a non dire nulla di politicamente scorretto. Come un’ansia di ghettizzazione nei media, di chiusura dei cattolici in un bel recinto. A leggere certi giornali, si direbbe che gli italiani si sentano inseguiti da torme di chierici intrusivi, maniacalmente intenti a censurare e vietare. Abbiamo un dubbio: è questa la realtà, o ne è una esagitata rappresentazione mediatica? Sembra attuale insomma la domanda di quel massmediologo americano che si chiedeva se i media descrivono la realtà,o se la fabbricano. Rappresentando una soffocante pressione clericale che non c’è. Stabilendo che ogni argomento – politica, vita, e quell’educazione che per la Chiesa è questione irrinunciabile – è 'interferenza'. Sognando una Chiesa docilmente chiusa nei cortili delle parrocchie, e coscienze che limitino la loro attività all’area compresa fra il confessionale e l’altare. Soprattutto, una Chiesa che non si preoccupi di quel che ereditano i figli. Una comoda Chiesa: fuori dalla realtà, astratta dalla vita degli uomini, disincarnata – di tutte le pretese, la più inaccettabile.
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RIFLESSIONI SULLA MANCATA VISITA DEL VESCOVO DI SIENA ALLA SCUOLA DI ROSIA (SI)
Ci interessa il cuore.
Autore: Andrea Bechi - Fonte:
La mancata visita del vescovo agli studenti della scuola di Rosia ha suscitato una vivace polemica. Finalmente ieri sono intervenuti alcuni dei docenti, sollevando, quasi a margine del loro articolo, la questione che mi sembra centrale di tutta la problematica. Hanno posto una domanda: «è davvero con operazioni ad effetto e con il clamore che si pensa di rispondere al bisogno di "spiritualità" dell'individuo?». Lasciando perdere l'aspetto aggressivo della domanda (ovvero l'accusa alla chiesa di aver montato un caso per attirare l'attenzione), nelle parole si riconosce un orientamento educativo pericolosamente dualistico. La religione si occupi dello spirito, che alla ragione ci pensiamo noi. Ebbene, credo che qui stia la radice del disagio dei nostri ragazzi, dello scarso successo delle scuole nell'aiutare le famiglie a crescere uomini e donne capaci di affrontare il domani. I giovani, che vivono un'età segnata dal dramma esistenziale, che si chiedono se vale la pena vivere, per cosa giocare la vita, non sono interessati che a ciò che risponde a questa domanda. La storia, la letteratura, la geografia, la matematica sono capaci di attirare le loro energie e di stimolare la loro intelligenza solo nella misura in cui siano in qualche modo "vitali", cioè li riguardino e muovano non solo il loro ragionamento, ma anche il loro cuore, il loro "spirito" per usare la parola dei professori. Se togliamo alle materie quest'anima, si isteriliscono. Se ci chiediamo per quale motivo oggi i ragazzi siano così superficiali e distratti, poveri di cultura, la risposta va cercata in quello che si insegna: offriamo loro tanti "strumenti", senza dir loro perché valga la pena di usarli. Un giovane vuole essere felice, non vuole andare bene ad un'interrogazione, non desidera saper risolvere un'equazione di secondo grado. A meno che in quella equazione scorga qualcosa che ha a che fare con la sua felicità. Insomma, cari docenti, penso proprio che se tutta la ragione con la quale argomentate il vostro insegnamento non è aperta a tutta la dimensione umana, cuore compreso, spirito compreso, perdete tempo e soprattutto i ragazzi perdono tempo, perché non imparano l'unica cosa necessaria: ad essere uomini, ad affrontare la vita usando cervello e cuore per giudicare tutto ciò che accade. A me l'ha insegnato la Chiesa, ma anche un grande professore di Lettere del Liceo Scientifico, che entrava in classe con l'Unità e il Manifesto. Portava con sè anche una grande carica di umanità, una vera disponibilità a discutere su tutto e non ci zittiva quando le nostre ragioni trovavano appoggio nella fede.
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