BastaBugie n�101 del 21 agosto 2009
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LA SCIENZA E IL CALENDARIO PERFETTO NASCONO DAL CUORE DELLA FEDE
Autore: Antonino Zichichi - Fonte:
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IL TAR DEL LAZIO RETROCEDE L'ORA DI RELIGIONE: ANCORA INGIUSTIZIE DA CHI DICE CHE LA GIUSTIZIA E' UGUALE PER TUTTI
Autore: Paolo Ferrario - Fonte: Avvenire
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I.R.C. (INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE CATTOLICA): NON NE POSSIAMO PIU' DI ESSERE DISCRIMINATI!
Autore: Nicola Incampo - Fonte: CulturaCattolica.it
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IL PIU' INTELLETTUALE DEI PONTEFICI E' ANCHE IL PIU' SEMPLICE DEI FEDELI
Autore: Bruno Mastroianni - Fonte: Tempi
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A... A... BBRONZATISSIMI? NO, GRAZIE!
L'abbronzatura fu sempre il marchio infamante del lavoratore manuale, mentre oggi è diventata lo status symbol da ostentare
Autore: Vittorio Messori - Fonte: La sfida della fede (Ed. Sugarco)
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L'ATTUALITA' DEL SANTO CURATO D'ARS
Cosa ha da dire San Giovanni Maria Vienney all'uomo di oggi, mendicante di significato e di compimento
Autore: Benedetto XVI - Fonte: Sito del Vaticano
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RU 486: PERCHE' MAI DOVREMMO ADEGUARCI AGLI ALTRI? CHI L'HA DETTO?
Autore: Tommaso Scandroglio - Fonte: Avvenire
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CON LA RU486 SI ALLARGA L’OMICIDIO DI STATO
Fonte: Corrispondenza Romana
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AFRICA: GLI AIUTI UMANITARI FINISCONO PER AUMENTARE LA POVERTA'
Autore: Rino Cammilleri - Fonte: Antidoti
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LA SCIENZA E IL CALENDARIO PERFETTO NASCONO DAL CUORE DELLA FEDE
Autore: Antonino Zichichi - Fonte:
La data della Pasqua ha dato vita al calendario destinato a restare nei secoli dei secoli un’opera perfetta. Nessuna civiltà era riuscita a elaborare un calendario come quello che la nostra cultura ha saputo scoprire. Tutto nasce dall’evento mistico più importante per la Chiesa cattolica: la Risurrezione di Gesù Cristo. I vescovi del Concilio di Nicea (325 d.C.) decisero di dare alla Pasqua non una data nel calendario giuliano, ma ciò che la concezione mistica del Tempo aveva tramandato. La Pasqua doveva quindi cadere la prima domenica successiva alla prima luna piena che segue l’equinozio di primavera. Nasce così l’esigenza di conoscere la data esatta dell’equinozio di primavera che non può essere né in ritardo né in anticipo, rispetto alla data che indica il calendario. Che il calendario giuliano non fosse perfetto era noto ai vescovi del Concilio di Nicea. E infatti fu proprio in quegli anni che l’equinozio di primavera venne spostato dal 25 marzo – come voleva il calendario giuliano – al 21 marzo. Il motivo essendo gli effetti del terzo movimento della Terra. L’anno giuliano ha circa un centesimo di giorno in più di quello che dovrebbe avere, per essere in sincronia con l’inclinazione dell’asse terrestre rispetto al Sole. È da questa inclinazione che dipende l’equinozio di primavera. Se l’asse attorno a cui ruota a trottola la nostra Terra fosse fisso nello spazio cosmico il legame tra data di calendario e susseguirsi delle stagioni resterebbe fisso nei secoli. L’asse della trottola-terra invece si muove: di questo terzo movimento è dotato il satellite del Sole su cui abbiamo il privilegio di essere imbarcati. È un movimento molto lento, lentissimo. Per far un giro completo, l’asse terrestre impiega quasi 26.000 anni. Il calendario giuliano non teneva conto degli effetti di questo terzo movimento sull’equinozio di primavera, da cui dipende il giorno della Risurrezione di Cristo. Dai tempi dell’adozione del calendario giuliano erano passati 370 anni e si erano quindi accumulati quasi quattro giorni di ritardo rispetto al giorno corretto per l’equinozio di primavera. Ecco il motivo dell’avanzamento dal 25 al 21 marzo, per la data dell’equinozio di primavera, deciso dai vescovi del Concilio di Nicea. Oggi l’equinozio di primavera è sempre il 21 marzo e così resterà nei secoli grazie al calendario gregoriano, che tiene conto del terzo movimento della Terra. L’interesse nella data esatta dell’equinozio di primavera era di natura strettamente religiosa. Tutti i calendari di tutte le epoche e civiltà avevano come obiettivo il sincronismo delle stagioni con le date del calendario. Sapere cosa indica un calendario quando ci sono in gioco le stagioni e i solstizi è certamente molto importante. Ne sanno qualcosa i Romani quando, con il loro calendario che aveva solo dieci mesi – ancora oggi i nomi sono rimasti settembre (settimo), ottobre (ottavo), novembre (nono), dicembre (decimo) nonostante settembre sia il nono, ottobre il decimo, novembre l’undicesimo e dicembre sia il dodicesimo mese del calendario –, si trovarono ad avere l’estate mentre il calendario indicava l’inverno e l’inverno quando diceva estate. Corsero ai ripari aggiungendo due mesi. Il sincronismo tra data di calendario e stagioni si articola su un periodo molto lungo: i quasi duecento giorni (per l’esattezza 183) che separano la stagione estiva da quella invernale. La concezione mistica del Tempo focalizza invece il sincronismo su un solo giorno: l’equinozio di primavera, cui è legata la data della Risurrezione di Gesù Cristo. Fu Dionigi il Piccolo (500-560 d.C.) ad avere del Tempo una concezione mistica e Aloysius Lilius di Cirò in Calabria (1510-1576 d.C.) ad avere elaborato il legame perfetto tra equinozio di primavera e Pasqua di Risurrezione. Lo studio di Aloysius Lilius dette vita al calendario gregoriano promulgato da Gregorio XIII (1502-1585) nel 1582. Nascono così le radici del calendario perfetto che si ottiene sottraendo al calendario gregoriano tre giorni ogni diecimila anni. Con il calendario gregoriano perfetto lo sfasamento tra stagioni, che col calendario romano avveniva dopo pochi anni, avviene dopo milioni di anni. Quando il calendario gregoriano venne promulgato da Gregorio XIII, il 24 febbraio 1582 a Mondragone, Galilei era appena diciottenne. Ed è con lui che viene fuori un’altra grande conquista della cultura cattolica: il cannocchiale di alta precisione che nel 1609 Galilei decise di puntare verso il cielo per conoscere la verità sulla logica seguita da Colui che ha fatto e stelle e pietre. Era infatti ferma convinzione di Galileo Galilei che per venire a capo di questa logica fosse necessario porre domande al suo Autore. E le domande potevano essere di due classi diverse. Osservazioni rigorose di ciò che sta nei cieli ed esperimenti qui sulla Terra. Osservando i cieli Galilei scoprì sette straordinarie verità: le montagne della Luna, le macchie solari, i satelliti di Giove, le fasi di Venere, gli anelli di Saturno, la Via Lattea che non è luce riflessa dal Sole ma prodotta da miliardi di stelle e il fatto che il Sole ruota a trottola come fa la Terra. Fu così che Galilei divenne il più grande astronomo di tutti i tempi. Realizzando esperimenti qui sulla Terra Galilei scoprì le prime leggi fondamentali della Natura. Nessuno prima di lui aveva avuto l’idea di legare una pietra con uno spago e, fissandone un estremo al soffitto, studiare come oscilla. Galilei scoprì che le oscillazioni, se limitate nell’ampiezza, sono isocrone. Per fare questo aveva bisogno di un orologio. Usò il ticchettio del polso che mediamente batte al ritmo di un colpo al secondo. Nasce così il pendolo che ci ha portato in appena quattro secoli a una precisione nella misura del Tempo che è, oggi, di un secondo ogni vita d’universo: venti miliardi di anni. Non solo il calendario perfetto, ma l’astrofisica moderna e la scienza sono conquiste della nostra cultura che ha nei vescovi di Nicea, in Dionigi il Piccolo, in Aloysius Lilius, Gregorio XIII e Galileo Galilei le colonne portanti della grande alleanza tra fede, ragione e scienza, come insegna oggi Benedetto XVI. Galilei, per atto di fede nel Creatore, decise di puntare il suo telescopio verso il cielo e di studiare non solo le stelle ma anche le pietre in quanto entrambe opera dello stesso Autore. Aspetti pratici come le consuetudini pagane legate alla 'festa di primavera', le questioni di potere legate all’esazione fiscale e le problematiche matematico-astronomiche sono problemi di natura diversa, che però invitano ciascuno di noi a molte riflessioni sulla sfera trascendentale della nostra esistenza quando emerge in modo semplice un dettaglio: il calendario perfetto e la scienza avrebbero potuto essere il trionfo della cultura atea; esse sono invece nate nel cuore della nostra cultura.
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IL TAR DEL LAZIO RETROCEDE L'ORA DI RELIGIONE: ANCORA INGIUSTIZIE DA CHI DICE CHE LA GIUSTIZIA E' UGUALE PER TUTTI
Autore: Paolo Ferrario - Fonte: Avvenire
Nuovo attacco all’ora di religione. Dopo diversi tentativi andati a vuoto, il gruppo di associazioni laiciste e di altre confessioni non cattoliche che da tempo hanno messo nel mirino questo insegnamento, hanno trovato una sponda nel Tar del Lazio. I giudici amministrativi, con la sentenza 7076 hanno infatti disposto l’annullamento delle ordinanze del ministro Fioroni, emanate per gli esami di Stato del 2007 e del 2008. In pratica, il Tar ha stabilito che frequentare l’ora di religione non può portare crediti aggiuntivi e che gli insegnanti di religione non possono partecipare «a pieno titolo» agli scrutini.
In particolare, nella sentenza i giudici scrivono che «lo Stato, dopo aver sancito il postulato costituzionale dell’assoluta, inviolabile libertà di coscienza nelle questioni religiose, di professione e di pratica di qualsiasi culto “noto”, non può conferire ad una determinata confessione una posizione “dominante” - e quindi una indiscriminata tutela ed un’evidentissima netta priorità - violando il pluralismo ideologico e religioso che caratterizza indefettibilmente ogni ordinamento democratico moderno».
La decisione del Tar laziale ha già suscitato la legittima protesta dei docenti, per l’evidente tentativo, già per altro portato avanti anche nel recente passato, di emarginare l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche italiane.
«Questa sentenza è semplicemente assurda», tuona Nicola Incampo, docente e membro della commissione paritetica Ministero-Cei per la valutazione dell’insegnamento della religione cattolica. «Già nel 2006 – prosegue l’insegnante – una sentenza del presidente del Consiglio di Stato, organo giudicante di grado superiore rispetto al Tar, aveva già dichiarato la legittimità delle ordinanze del ministro Fioroni. Non si capisce, quindi, come adesso i giudici amministrativi possano tornare indietro pronunciandosi su una questione già definita a livello superiore».
Un’altra incongruità del dispositivo del Tar riguarda la presunta “discriminazione” contenuta nell’ordinanza Fioroni. Per i giudici, infatti, frequentare l’ora di religione non può essere considerato meritevole di crediti scolastici aggiuntivi, rispetto a chi, invece, ha deciso di non avvalersi dell’insegnamento. «Ma non è così – protesta Incampo –. Mentre la precedente ordinanza Berlinguer prevedeva, questa sì, i crediti soltanto per chi aveva deciso di frequentare l’ora di religione, il ministro Fioroni ha dato la possibilità di accumulare crediti a tutti, anche a chi frequenta attività sostitutive. Mi sembra evidente, in definitiva, il tentativo di estromettere, a colpi di sentenze, l’insegnamento della religione dai programmi scolastici». Un tentativo alquanto maldestro. La sentenza del Tar, infatti, arriva dopo la conclusione dei lavori della commissione paritetica Ministero dell’Istruzione-Cei, che ha deciso all’unanimità di passare dalla votazione con gli “aggettivi” (sufficiente, buono...) ai voti numerici. Quando la decisione sarà avallata dal Consiglio di Stato, anche il voto di religione farà media e il problema dei crediti sarà quindi superato una volta per tutte.
Di «decisione estemporanea, bizzarra e discriminatoria, che sarà sicuramente cancellata da ulteriori gradi di giudizio» ha parlato anche il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, mentre l’ex-ministro Giuseppe Fioroni, chiamato direttamente in causa, ha ricordato di aver soltanto «applicato la legge». «Offro un ulteriore spunto di riflessione – ha proseguito l’ex-titolare dell’Istruzione –: visto che al conseguimento dei crediti formativi concorrono una serie molto ampia e varia di discipline, non ultimi anche corsi di danza caraibica, ritengo quindi che possa contribuirvi anche l’ora di religione o della materia sostitutiva, come previsto per legge».
Contro la sentenza del Tar si è espressa la parlamentare del Pd, Paola Binetti, che si è detta contraria a creare «professori di serie A e altri di serie B». Non ammettere i docenti di religione agli scrutini, inoltre, secondo Binetti sarebbe «massimamente scorretto» e avrebbe ripercussioni negative «anche sugli studenti, in particolare su quelli che hanno scelto di avvalersi dell’insegnamento della religione e si aspettano che, una volta scelto, non sia un optional ma entri a pieno titolo nella valutazione».
Infine, per la parlamentare dell’Udc, Luisa Santolini, la sentenza del Tar del Lazio è «ideologica» e ha come fine quello di «distruggere le tradizioni italiane ed il sentire della gente».
Fonte: Avvenire
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I.R.C. (INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE CATTOLICA): NON NE POSSIAMO PIU' DI ESSERE DISCRIMINATI!
Autore: Nicola Incampo - Fonte: CulturaCattolica.it, 12 agosto 2009
Le sentenze che riguardano l’IRC sono come quei rotoloni di carta igienica: non finiscono mai! L’ultima è la sentenza del Tar del Lazio n. 7076 dove tra l’altro leggiamo: «appare aver generato una violazione dei diritti di libertà religiosa e della libera espressione del pensiero; nonché di libera determinazione degli studenti relativamente all’insegnamento della religione cattolica». Purtroppo siamo costretti a ripetere che il Concordato del 1929 così recita all’articolo 36: “L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica. E perciò consente che l’insegnamento religioso ora impartito nelle scuole pubbliche elementari abbia un ulteriore sviluppo nelle scuole medie, secondo programmi da stabilirsi d’accordo tra la Santa Sede e lo Stato”. L’Accordo di revisione dello stesso Concordato sancito con legge 121 del 25 marzo 1985 nell’articolo 9.2 stabilisce, a mio avviso, una continuità ed un orientamento nuovo, quando dice: “La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado”. Più che evidente la continuità con il passato (la sottolineatura della parola continuità è mia), ma anche da evidenziare il nuovo assetto dell’IRC che viene messo in relazione non con l’istruzione pubblica, ma con il patrimonio culturale del popolo italiano e sempre in rapporto con le finalità della scuola. Sono due le sottolineature che vanno bene evidenziate: da una parte per chiarire le caratteristiche di un insegnamento che si inserisce nella formazione culturale dell’alunno e dall’altra per distinguere l’IRC dalla catechesi che ha come finalità di formare il credente. Ma valore culturale del cattolicesimo non significa insegnamento dimezzato o di un generico cattolicesimo che non conosca i suoi aspetti caratteristici e individualizzanti, ma conoscenza precisa nella sua interezza, che comprende fonti, contenuti della fede, aspetti di vita, espressioni di culto e quant’altro è necessario per apprenderlo. E il tutto orientato alle finalità scolastiche che sono di conoscenze di quella specifica cultura italiana, e oggi dovremmo dire europea ed occidentale, che non è possibile spiegare e conoscere in tutte le sue forme (letteratura, arte, musica …) senza il cattolicesimo. E’ opportuno ancora ricordare che il Concordato del ’29 diceva, sempre all’articolo 36 comma 2: “Tale insegnamento sarà dato a mezzo di maestri e professori, sacerdoti o religiosi, approvati dall’autorità ecclesiastica e sussidiariamente a mezzo di maestri e professori laici, che siano a questo fine muniti di un certificato di idoneità da rilasciarsi dall’Ordinario diocesano”. Nel protocollo addizionale alla revisione del Concordato, in relazione in relazione all’articolo 9, viene ribadito che “l’insegnamento della religione cattolica è impartito da insegnanti riconosciuti idonei dall’autorità ecclesiastica, nominati, d’intesa con essa, dall’autorità scolastica” e lo stesso si dice degli insegnanti delle scuole materne ed elementari. Di tutto quanto detto sono profondamente convinto anche per la mia personale esperienza di docente e chiedo scusa se mi permetto di esprimere queste convinzioni con fermezza ma anche con senso di stima per il mio lavoro.
Fonte: CulturaCattolica.it, 12 agosto 2009
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IL PIU' INTELLETTUALE DEI PONTEFICI E' ANCHE IL PIU' SEMPLICE DEI FEDELI
Autore: Bruno Mastroianni - Fonte: Tempi, 2 luglio 2009
Di fatto, presi un po’ troppo dallo stereotipo del professore-teologo dedito alla lotta al relativismo e alla conciliazione tra fede e ragione, si può cedere all’idea che Joseph Ratzinger sia soprattutto un grande teorico, un intellettuale attrezzato capace di tenere testa al secolarismo con la sua preparazione. Per quanto tutto ciò corrisponda alla sua caratura, a vederlo solo da questo punto di vista c’è il rischio di perdersi un pezzo di Benedetto. Basta guardare gli eventi degli ultimi tempi. Per esempio l’Anno Sacerdotale indetto nel segno della devozione a san Giovanni Maria Vianney, con tanto di venerazione delle sue reliquie prima di procedere alla cerimonia. Così come l’Anno Paolino, conclusosi lunedì scorso, che ha ravvivato nella Chiesa la devozione al santo apostolo delle genti. Per non parlare dell’inginocchiarsi del Papa di fronte alle spoglie di san Pio da Pietrelcina, con la benedizione della reliquia del cuore. Insomma si percepisce come Benedetto, tra le tante cose, stia anche riportando in primo piano il culto dei santi. Proprio il più intellettuale dei papi, il teologo raffinato ed erudito, non disdegna i gesti di devozione più semplici. Di fronte all’odierna tendenza alla fede disincarnata di certa psico-teologia e di fronte alla spiritualità sentimentale adulta ed evanescente, il Papa ha una cura: affidarsi a uomini concreti che furono capaci con la loro vita di portare Dio nel mondo. A noi fedeli, ancora sostanzialmente fatti di carne e ossa, piace questa fede che si vede e che si tocca.
Fonte: Tempi, 2 luglio 2009
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A... A... BBRONZATISSIMI? NO, GRAZIE!
L'abbronzatura fu sempre il marchio infamante del lavoratore manuale, mentre oggi è diventata lo status symbol da ostentare
Autore: Vittorio Messori - Fonte: La sfida della fede (Ed. Sugarco)
Che fa la gente in vacanza? Innanzitutto, si preoccupa di acquisirne il «segno»: l'abbronzatura. La quale - sono cose note - fu sempre il marchio del lavoratore manuale, mentre si è ora rovesciata nello «status symbol» del benestante. Ed è inspiegabile, davvero, la stoica pazienza di chi sta immobile per ore sotto il dardeggiare del sole per brunire ogni centimetro di pelle. Spettacolo, ormai, talmente consueto che ci sembra normale: mentre, normale, non lo è per niente. In effetti, questa nostra è la prima e sola cultura che metta l'abbronzatura tra i valori appetibili, anzi socialmente quasi obbligatori. Dai tempi della Grecia e di Roma, sino agli anni dopo la prima guerra mondiale, chi si fosse esposto alla sferza solare non costrettovi dalla necessità avrebbe ricevuto il trattamento riservato ai malati di mente. Ancor oggi, nei Paesi che hanno conservato qualcosa della cultura tradizionale, chi deve stare al sole si copre il più possibile, come testimoniano le genti del deserto, specialiste in questo genere di cose. Colpa di presunti tabù moralistici che impedirebbero di scoprirsi? Ma poche società amarono la nudità e la praticarono anche in pubblico come quella classica. Eppure, in latino "abbronzato" si traduce con un termine significativo, che rimanda a una malattia: «infectus». E "abbronzatura" risponde al nome di «adustio», termine di patologia medica anch'esso, significando "ustione", "scottatura".
IL CULTO DEL CORPO Che significato dare dunque, a questo rito? Forse, è anche un riemergere dell'adorazione del Sole, tipica del paganesimo eterno e che ora ritorna (il dio Sole è l'emblema dei movimenti ecologici). Ma, soprattutto, la cosa appare legata a quel culto del corpo e della sanità fisica che contrassegna il nostro tempo: la pelle ustionata presuppone vita all'aria aperta e, dunque, salute. Forse, anche l'abbronzatura è uno dei tanti, inconsci esorcismi contro la malattia e la morte, realtà divenute indecenti perché in grado di mettere in crisi culture che contro di esse non hanno più alcuna difesa né psicologica né spirituale. Lo si vede durante tutto l'anno, ma si ha modo di constatarlo soprattutto in vacanza: la doverosa cura per il corpo e, dunque, per la salute, sembra essersi trasformata, per molti, in una visione del mondo, in una nuova, anch'essa inedita, ideologia: il salutismo, con i suoi riti e le sue preoccupazioni maniacali. Di recente, su una tribuna insospettabile come «l'Espresso», ha scritto un sociologo, specialista nell'individuare i segni del Sacro stravolti e nascosti sotto le apparenze della società secolarizzata, Sabino Acquaviva: «Con il progresso scientifico, con le conquiste della medicina e il rifiuto o l'accantonamento della fede in una vita eterna, il corpo - visto un tempo come sede dell'anima - è divenuto soltanto la sede del godere e della speranza di vivere a tempo indeterminato. La civiltà postindustriale ha trasformato l'evangelico "in principio era il Verbo" nel ben più materiale "in principio era il Corpo". Non si discute di ascetica, ma di vitamine. Bisogna essere belli, sempre in forma, eterni: la nuova filosofia igienista si occupa appunto del corpo come se fosse eterno e infinitamente perfettibile. Come se l'invecchiamento non fosse un fenomeno ineluttabile, ma un evitabile incidente di percorso. Negata o messa in discussione la vita eterna dello spirito, ci si batte per l'eternità del corpo». Continua quel sociologo, non accusabile certo di moralismo: «Nella società scientifica, edonistica, materialista, scettica su tutto e su tutti, la fede in una vita fisicamente eterna sembra dogmatica, acritica, indiscutibile. Il salutismo, la nuova ideologia igienista, ci aiuta a nasconderci la morte, spostandola in un futuro che quasi non ci riguarda, tanto è lontano. Viviamo igienicamente e vivremo bene, sani, in eterno. La malattia è un incidente, la morte un evento sfortunato che può capitare solo per qualche errore nella nostra razionale maniera di occuparci del corpo».
I (SEDICENTI) GIUSTI CONDANNATI DAL VANGELO Forse, proprio anche grazie a questo clima, ora si capisce meglio uno degli scandali maggiori del vangelo: l'evidente simpatia che Gesù nutre per i peccatori, mentre è sempre pronto a mettere in guardia i presunti "giusti". E "giusto", oggi, in regola cioè con i dettami della società dei benpensanti, è appunto il salutista, l'igienista, il macrobiotico, il cultore di rilassamenti più o meno orientali, il vegetariano, l'acquirente a peso d'oro di crusche e di gramigne, il maniaco del peso-forma, il consumatore di saccarina e di cibi ipocalorici, l'ipersportivo... E "peccatori" sono quegli ormai pochi che, in albergo, si vedono non disdegnare il fumare, il bere, il gustare la cucina, il prendere caffè non decaffeinato e con zucchero vero, il fare le ore piccole, il dormire sino a tardi invece di correre sul prato quando ancora c'è la rugiada. Hanno il loro grosso torto anch'essi, si intende: eppure, è un aver torto che, istintivamente, appare più "simpatico", più umano, più cordiale di quello dei cupi, fanatici fedeli dei culti salutisti. «È venuto il Figlio dell'uomo che mangia e beve e dicono: ecco un mangione e un bevitore, amico dei pubblicani e dei peccatori» (Mt 11,19). Bisogna andarci piano, certo, in discorsi come questi che non sopportano semplificazioni e battute: eppure, vien da sospettare che, per quella rievangelizzazione così necessaria, questi "peccatori" che non hanno il culto del chek-up periodico né l'ossessione della prevenzione sanitaria siano terreno più fertile dei "nuovi catari", i puri di quella religione igienista che, come visione di fede, ha la speranza di raggiungere l'eternità terrena tra jogging, trekking, footing e altri atti di liturgia corporale.
IL MITO DELLA MAGREZZA L'orrore del grasso e il mito della magrezza: fenomeno, anch'esso, sconosciuto a ogni altra cultura che non sia quella dell'Occidente postmoderno. In tutte le società tradizionali, l'uomo autorevole, il saggio, il sacerdote stesso non nascondono, anzi ostentano, un'adeguata pinguedine. Nei dialetti meridionali, "omo de panza" è sinonimo di notabile. L'abito da cerimonia - il frac, la marsina - ha una giacca che non si chiude davanti: era scontato che gli autorevoli che lo indossavano avessero un ventre prominente, caratteristica dell'età del giudizio. Il Buddha, nelle statue, ha una pancia vistosa. Nella stessa iconografia cristiana, l'istinto dei pittori e degli scultori non vide il Cristo magro come il look attuale impone per leader e manager. Nei quadri fiamminghi, Maria ha spesso l'aspetto di paffuta massaia. Le chiese barocche formicolano di grassi angioletti. L'istinto popolare ha sempre associato la corpulenza alla simpatia: prima ancora di ascoltarne le parole e di conoscerne il cuore, la gente volle subito bene ad Angelo Roncalli anche per quella sua paterna, imponente figura, certamente molto al di sopra di ogni peso ideale nel decalogo dei nuovi conformisti. Nella commedia dell'arte, il buono è grasso; il magro è l'infido, l'astuto. Da dove sbuca, dunque, questa esaltazione di pelle e ossa? Perché non la dannazione eterna, ma un poco di pancetta è oggi l'incubo delle maggioranze? Come mai la persona in carne è quasi un incivile che guasta il paesaggio della città secolare? Forse, sospettano certi psicoanalisti, c'è qui un'inconscia, inconfessabile pulsione necrofila, un segreto «amor mortis» che - sotto le apparenze del vitalismo esasperato, della ricerca dell'eterna giovinezza - è in realtà affascinato da ciò che più si avvicina allo scheletro. E non sarà che, dietro le apparenze della più edonistica cultura della storia, si nasconde l'antico orrore per la carne dello gnosticismo, questa continua tentazione cui il cristianesimo oppose la sua prospettiva di risurrezione, di vita eterna per quella carne corporale stessa?
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Fonte: La sfida della fede (Ed. Sugarco)
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L'ATTUALITA' DEL SANTO CURATO D'ARS
Cosa ha da dire San Giovanni Maria Vienney all'uomo di oggi, mendicante di significato e di compimento
Autore: Benedetto XVI - Fonte: Sito del Vaticano, 5 agosto 2009
Cari fratelli e sorelle, nell'odierna catechesi vorrei ripercorrere brevemente l'esistenza del Santo Curato d'Ars sottolineandone alcuni tratti, che possono essere di esempio anche per i sacerdoti di questa nostra epoca, certamente diversa da quella in cui egli visse, ma segnata, per molti versi, dalle stesse sfide fondamentali umane e spirituali. Proprio ieri si sono compiuti 150 anni dalla sua nascita al Cielo: erano infatti le due del mattino del 4 agosto 1859, quando san Giovanni Battista Maria Vianney, terminato il corso della sua esistenza terrena, andò incontro al Padre celeste per ricevere in eredità il regno preparato fin dalla creazione del mondo per coloro che fedelmente seguono i suoi insegnamenti (cfr Mt 25, 34). Quale grande festa deve esserci stata in Paradiso all'ingresso di un così zelante pastore! Quale accoglienza deve avergli riservata la moltitudine dei figli riconciliati con il Padre, per mezzo dalla sua opera di parroco e confessore! Ho voluto prendere spunto da questo anniversario per indire l'Anno Sacerdotale, che, com'è noto, ha per tema Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote. Dipende dalla santità la credibilità della testimonianza e, in definitiva, l'efficacia stessa della missione di ogni sacerdote. Giovanni Maria Vianney nacque nel piccolo borgo di Dardilly l'8 maggio del 1786, da una famiglia contadina, povera di beni materiali, ma ricca di umanità e di fede. Battezzato, com'era buon uso all'e-poca, lo stesso giorno della nascita, consacrò gli anni della fanciullezza e dell'adolescenza ai lavori nei campi e al pascolo degli animali, tanto che, all'età di diciassette anni, era ancora analfabeta. Conosceva però a memoria le preghiere insegnategli dalla pia madre e si nutriva del senso religioso che si respirava in casa. I biografi narrano che, fin dalla prima giovinezza, egli cercò di conformarsi alla divina volontà anche nelle mansioni più umili. Nutriva in animo il desiderio di divenire sacerdote, ma non gli fu facile assecondarlo. Giunse infatti all'ordinazione presbiterale dopo non poche traversie ed incomprensioni, grazie all'aiuto di sapienti sacerdoti, che non si fermarono a considerare i suoi limiti umani, ma seppero guardare oltre, intuendo l'orizzonte di santità che si profilava in quel giovane veramente singolare. Così, il 23 giugno 1815, fu ordinato diacono e, il 13 agosto seguente, sacerdote. Finalmente all'età di 29 anni, dopo molte incertezze, non pochi insuccessi e tante lacrime, poté salire l'altare del Signore e realizzare il sogno della sua vita. Il Santo Curato d'Ars manifestò sempre un'altissima considerazione del dono ricevuto. Affermava: «Oh! Che cosa grande è il sacerdozio! Non lo si capirà bene che in Cielo… se lo si comprendesse sulla terra, si morirebbe, non di spavento ma di amore!» (Abbé Monnin, Esprit du Curé d'Ars, p. 113). Inoltre, da fanciullo aveva confidato alla madre: «Se fossi prete, vorrei conquistare molte anime» (Abbé Monnin, Procès de l'ordinaire, p. 1064). E così fu. Nel servizio pastorale, tanto semplice quanto straordinariamente fecondo, questo anonimo parroco di uno sperduto villaggio del sud della Francia riuscì talmente ad immedesimarsi col proprio ministero, da divenire, anche in maniera visibilmente ed universalmente riconoscibile, alter Christus, immagine del Buon Pastore, che, a differenza del mercenario, dà la vita per le proprie pecore (cfr Gv 10,11). Sull'esempio del Buon Pastore, egli ha dato la vita nei decenni del suo servizio sacerdotale. La sua esistenza fu una catechesi vivente, che acquistava un'efficacia particolarissima quando la gente lo vedeva celebrare la Messa, sostare in adorazione davanti al tabernacolo o trascorrere molte ore nel confessionale. Centro di tutta la sua vita era dunque l'Eucaristia, che celebrava ed adorava con devozione e rispetto. Altra caratteristica fondamentale di questa straordinaria figura sacerdotale era l'assiduo ministero delle confessioni. Riconosceva nella pratica del sacramento della penitenza il logico e naturale compimento dell'apostolato sacerdotale, in obbedienza al mandato di Cristo: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi» (cfr Gv 20,23). San Giovanni Maria Vianney si distinse pertanto come ottimo e instancabile confessore e maestro spirituale. Passando «con un solo movimento interiore, dall'altare al confessionale», dove trascorreva gran parte della giornata, cercava in ogni modo, con la predicazione e con il consiglio persuasivo, di far riscoprire ai parrocchiani il significato e la bellezza della penitenza sacramentale, mostrandola come un'esigenza intima della Presenza eucaristica (cfr Lettera ai sacerdoti per l'Anno Sacerdotale). I metodi pastorali di san Giovanni Maria Vianney potrebbero apparire poco adatti alle attuali condizioni sociali e culturali. Come potrebbe infatti imitarlo un sacerdote oggi, in un mondo tanto cambiato? Se è vero che mutano i tempi e molti carismi sono tipici della persona, quindi irripetibili, c'è però uno stile di vita e un anelito di fondo che tutti siamo chiamati a coltivare. A ben vedere, ciò che ha reso santo il Curato d'Ars è stata la sua umile fedeltà alla missione a cui Iddio lo aveva chiamato; è stato il suo costante abbandono, colmo di fiducia, nelle mani della Provvidenza divina. Egli riuscì a toccare il cuore della gente non in forza delle proprie doti umane, né facendo leva esclusivamente su un pur lodevole impegno della volontà; conquistò le anime, anche le più refrattarie, comunicando loro ciò che intimamente viveva, e cioè la sua amicizia con Cristo. Fu «innamorato» di Cristo, e il vero segreto del suo successo pastorale è stato l'amore che nutriva per il Mistero eucaristico annunciato, celebrato e vissuto, che è divenuto amore per il gregge di Cristo, i cristiani e per tutte le persone che cercano Dio. La sua testimonianza ci ricorda, cari fratelli e sorelle, che per ciascun battezzato, e ancor più per il sacerdote, l'Eucaristia «non è semplicemente un evento con due protagonisti, un dialogo tra Dio e me. La Comunione eucaristica tende ad una trasformazione totale della propria vita. Con forza spalanca l'intero io dell'uomo e crea un nuovo noi» ( Joseph Ratzinger, La Comunione nella Chiesa , p. 80). Lungi allora dal ridurre la figura di san Giovanni Maria Vianney a un esempio, sia pure ammirevole, della spiritualità devozionale ottocentesca, è necessario al contrario cogliere la forza profetica che con-trassegna la sua personalità umana e sacerdotale di altissima attualità. Nella Francia post-rivoluzionaria che sperimentava una sorta di «dittatura del razionalismo» volta a cancellare la presenza stessa dei sacerdoti e della Chiesa nella società, egli visse, prima - negli anni della giovinezza - un'eroica clandestinità percorrendo chilometri nella notte per partecipare alla Santa Messa. Poi - da sacerdote - si contraddistinse per una singolare e feconda creatività pastorale, atta a mostrare che il razionalismo, allora imperante, era in realtà distante dal soddisfare gli autentici bisogni dell'uomo e quindi, in definitiva, non vivibile. Cari fratelli e sorelle, a 150 anni dalla morte del Santo Curato d'Ars, le sfide della società odierna non sono meno impegnative, anzi forse, si sono fatte più complesse. Se allora c'era la «dittatura del razionalismo», all'epoca attuale si registra in molti ambienti una sorta di «dittatura del relativismo». Entrambe appaiono risposte inadeguate alla giusta domanda dell'uomo di usare a pieno della propria ragione come elemento distintivo e costitutivo della propria identità. Il razionalismo fu inadeguato perché non tenne conto dei limiti umani e pretese di elevare la sola ragione a misura di tutte le cose, trasformandola in una dea; il relativismo contemporaneo mortifica la ragione, perché di fatto arriva ad affermare che l'essere umano non può conoscere nulla con certezza al di là del campo scientifico positivo. Oggi però, come allora, l'uomo «mendicante di significato e compimento» va alla continua ricerca di risposte esaustive alle domande di fondo che non cessa di porsi. Avevano ben presente questa «sete di verità», che arde nel cuore di ogni uomo, i Padri del Concilio ecumenico Vaticano II quando affermarono che spetta ai sacerdoti, «quali educatori della fede», formare «un'autentica comunità cristiana» capace di aprire «a tutti gli uomini la strada che conduce a Cristo» e di esercitare «una vera azione materna» nei loro confronti, indicando o agevolando a che non crede «il cammino che porta a Cristo e alla sua Chiesa», e costituendo per chi già crede «stimolo, alimento e sostegno per la lotta spirituale» (cfr Presbyterorum ordinis , 6). L'insegnamento che a questo proposito continua a trasmetterci il Santo Curato d'Ars é che, alla base di tale impegno pastorale, il sacerdote deve porre un'intima unione personale con Cristo, da coltivare e accrescere giorno dopo giorno. Solo se innamorato di Cristo, il sacerdote potrà insegnare a tutti questa unione, questa amicizia intima con il divino Maestro, potrà toccare i cuori della gente ed aprirli all'amore misericordioso del Signore. Solo così, di conseguenza, potrà infondere entusiasmo e vitalità spirituale alle comunità che il Signore gli affida. Preghiamo perché, per intercessione di san Giovanni Maria Vianney, Iddio faccia dono alla sua Chiesa di santi sacerdoti, e perché cresca nei fedeli il desiderio di sostenere e coadiuvare il loro ministero. Affidiamo questa intenzione a Maria, che proprio oggi invochiamo come Madonna della Neve.
DOSSIER "BENEDETTO XVI" Discorsi e omelie del Papa teologo Per vedere tutti gli articoli, clicca qui!
Fonte: Sito del Vaticano, 5 agosto 2009
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RU 486: PERCHE' MAI DOVREMMO ADEGUARCI AGLI ALTRI? CHI L'HA DETTO?
Autore: Tommaso Scandroglio - Fonte: Avvenire
Uno degli stratagemmi più usati per far passare talune idee – che si sanno o s’intuiscono non condivise dalla maggioranza del Paese – è quello di prendere come modello da imitare le leggi di altri Stati. Si sente spesso ripetere come un mantra che l’Italia è fanalino di coda dell’Europa se non del mondo nella sperimentazione sugli embrioni, nell’accesso alle tecniche di fecondazione artificiale, nel riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali... Da ultimo si è fatto ricorso a questo espediente anche per la Ru486, farmaco dagli effetti abortivi approvato pochi giorni fa dall’Agenzia italiana del farmaco. Per perorare la causa dell’aborto farmacologico si è fatto leva, tra le altre, su due argomentazioni affette entrambe da esterofilia acuta: ormai sono più di una ventina i Paesi europei in cui la Ru486 è stata adottata; nel 2007 la Commissione europea ha dato il via libera a questo preparato facendo proprio il parere dell’Emea, l’Agenzia europea del farmaco. In buona sostanza ci viene detto che se altri Paesi, in numero così elevato e con il beneplacito di un organismo sovranazionale, hanno deciso di commercializzare la Ru486 ciò sta automaticamente a significare che questo preparato è dalla parte della salute della donna e che l’Italia è colpevole di essere arrivata così in ritardo a questo importante appuntamento in materia di interruzione volontaria della gravidanza. È proprio così? Proviamo ad analizzare queste obiezioni. Il metro di paragone per comprendere se una legge, un semplice provvedimento amministrativo o una decisione tecnica come quella dell’Aifa sono leciti sul piano morale non può essere dato dal confronto con le esperienze di altri Stati o dal fatto che esista il beneplacito di un organo internazionale. Ciò che è stato ritenuto legittimo in una nazione non lo diventa per ciò stesso in un’altra, fosse pure confinante. Pare quasi banale ricordarlo. Ogni Stato – si sente ripetere sovente – è sovrano nel suo territorio. La pietra di paragone per assegnare la patente di liceità sul piano etico e la legittimità sul versante giuridico risiede nel confronto con il bene comune. È di immediata evidenza che la soppressione di un essere umano, perdipiù innocente, lede il bene comune: tant’è vero che – volendo fare gli esterofili anche noi – non esiste al mondo un ordinamento giuridico che non punisca l’omicidio. La Ru486 è un mezzo, oltre a quello chirurgico, per sopprimere un piccolo essere umano, e nessuna Commissione europea né alcuna legge di qualsiasi Stato potrà mai cambiare la natura di questo fatto così drammatico: contra facta nihil valent argumenta. Inoltre, in merito al giudizio espresso dalla Commissione europea, da un punto di vista puramente giuridico non siamo in presenza di un atto che ha natura assolutamente obbligatoria per gli Stati come potrebbe essere un regolamento o, in misura diversa, una direttiva. Si tratta né più né meno di un atto di approvazione che non vincola nessuno Stato ad adottare la Ru486. Curioso poi che si faccia a monte una selezione all’ingresso delle leggi straniere che dovrebbero essere emulate nei nostri confini. Chissà perché non si ode un simile vociare per importare da noi le norme che permettono in Francia lo sfruttamento dell’energia nucleare, o quelle cinesi sul lavoro subordinato. Sì, proprio la Francia, Paese che viene sempre indicato come esempio perché fu il primo, nel lontano 1988, ad adottare la Ru486. Se vogliamo essere proprio esterofili e avere lo sguardo aperto sul mondo, facciamolo nella consapevolezza di cosa provoca la pillola abortiva in qualunque parte del pianeta venga somministrata: la morte di chi sta per nascere. E il dolore per la morte di un bambino non ha confini.
Fonte: Avvenire
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CON LA RU486 SI ALLARGA L’OMICIDIO DI STATO
Fonte Corrispondenza Romana, 4 Agosto 2009
Chi si aspettava che il governo di centro-destra intervenisse sul piano legislativo per limitare i danni dell’aborto moderato, deve ricredersi. L’approvazione della pillola RU486 rende l’aborto più facile, oggi possibile in Italia anche a domicilio. La prima responsabilità risale all’Agenzia del Farmaco (AIFA), un organismo sanitario preposto a tutelare la nostra salute e non certo a facilitare la soppressione della vita umana. È stato infatti il CDA di questo organismo ad autorizzare, il 30 luglio, l’impiego su larga scala anche in Italia della pillola abortiva RU486. Ma responsabilità non minori vanno addebitate al governo, che nulla ha fatto per evitare che si giungesse alla legalizzazione di questo «pesticida umano» (la definizione è del grande genetista Jerôme Lejema). «Si realizza così […] – osserva giustamente Giuliano Ferrara – uno tra i più diabolici progetti di cancellazione etica del giusto e del decente, dell’umano e del razionale, che si siano conosciuti fino ad ora in Occidente» (“Il Foglio”, 30 luglio 2009). Mons. Fisichella, presidente dell’Accademia per la Vita, ha rilevato che chi fa ricorso alla RU486 «sta compiendo un atto abortivo diretto e deliberato e deve sapere delle conseguenze canoniche a cui va incontro, ma soprattutto deve essere cosciente della gravità oggettiva del loro gesto. L’aborto è un male in sé, perché sopprime una vita umana; questa vita anche se visibile solo attraverso una macchina, possiede la stessa dignità riservata a ogni persona. Il rispetto dovuto all’embrione non può essere da meno di quello riservato a ognuno che cammina per la strada e chiede di essere accolto per ciò che è: una persona» (“L’Osservatore Romano”, 1 agosto 2009). La conseguenza canonica cui mons. Fisichella si riferisce è la scomunica. Lo hanno ribadito il card. Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace (“Il Sole 24 ore”, 31 luglio 2009) e mons. Elio Sgreccia, presidente Emerito della Pontificia Accademia per la Vita (“La Repubblica”, 31 luglio 2009). Tuttavia, anche le autorità ecclesiastiche, come la classe politica di centro-destra, hanno mantenuto finora un atteggiamento incerto e remissivo. Come ha sottolineato ancora Ferrara: «Dovrebbe scaturire, da questa brutta faccenda, una rivolta politica, morale e religiosa. Dovrebbero farsi sentire ministri, primi ministri, sottosegretari, presidenti di regione, deputati e senatori che già hanno sottoscritto questa battaglia contro l’ultimo ritrovato di una cultura pestifera. La classe dirigente e i pastori delle chiese cristiane, in primo piano la cattolica, dovrebbero uscire dal mutismo e dal balbettamento, evitare un inutile confronto sui dettagli e andare al cuore della questione» (“Il Foglio”, 30 luglio 2009). Il problema non è rappresentato dai rischi per la vita (29 le madri finora morte per affetti collaterali) o dal fatto che la RU486 contraddice la Legge 194 perché l’aborto avverrebbe a domicilio invece che in una struttura pubblica (il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella, criticando la pillola abortiva, è arrivata a definire la Legge 194 una «buona legge»! – cfr. “La Repubblica”, 31 luglio 2009). La questione è che ci troviamo di fronte alla legalizzazione di una nuova forma di aborto volontario, ossia alla soppressione legalizzata di un essere umano innocente prima della nascita. Il ricorso all’aborto, ovvero la pratica dell’omicidio, sarà reso dalla legge più facile, inducendo nella mentalità l’idea che si tratti dell’assunzione di una medicina per curare un male e non di uno strumento funzionale alla soppressione della vita. L’aborto farmacologico in sé non è né più né meno grave di quello chirurgico. In entrambi i casi si compie un abominevole delitto. La possibilità di utilizzare entrambi i metodi, con la benedizione dello Stato, dimostra però come il processo di dissoluzione della morale continui sistematicamente ad avanzare in Italia.
Fonte: Corrispondenza Romana, 4 Agosto 2009
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AFRICA: GLI AIUTI UMANITARI FINISCONO PER AUMENTARE LA POVERTA'
Autore: Rino Cammilleri - Fonte: Antidoti, 12 agosto 2009
Sul settimanale «Tempi» del 21 luglio 2009 la studiosa Anna Bono fa notare che cresce il numero degli economisti africani contrari agli aiuti umanitari. Che ingrassano i dittatori e abituano la gente a mendicare. L’Africa ha avuto finora oltre mille miliardi dollari in aiuti. Risultato? La povertà è salita dall’11 al 66%. L’economista zambiana Dambisa Moyo fa presente che trent’anni fa paesi come il Burundi e il Burkina Faso (oggi tra i più poveri del mondo) avevano un Pil pro capite superiore a quello della Cina; il Kenya nel 1961, quando ancora era colonia britannica, ne aveva uno maggiore di quello della Corea del Sud. Per il kenyano James Shikwati «gli aiuti finanziano enormi burocrazie, contribuiscono a rendere dilagante la corruzione, soffocano la libera iniziativa, permettono ai leader politici di ignorare i bisogni dei loro connazionali. Ovunque hanno creato una mentalità pigra e hanno abituato gli africani a essere dipendenti e mendicanti». Per esempio, la Nigeria e la Repubblica Democratica del Congo: malgrado le loro immense ricchezze, non solo non fanno nulla per ridurre la povertà ma premono per essere classificate tra le nazioni più bisognose. Gli unici a ricordare tutto ciò pubblicamente sono il papa e, recentemente, Obama (che, dato il suo colore, può permettersi di parlare chiaro), che, ad Accra, nel Ghana, ha detto: «Nessun paese può creare ricchezza se i suoi leader sfruttano l’economia per arricchirsi. Nessun imprenditore vuole investire in un paese il cui governo fa su tutto una cresta del venti per cento. Nessuno ha voglia di vivere in un paese in cui regnano ferocia e corruzione. Questa non è democrazia, ma tirannia anche se qualche volta si va a votare. E deve finire». Ciò ha detto all’indomani di un G8 che, però, ha destinato altri venti miliardi di dollari agli aiuti. Moyo e Shikwati dicono chiaramente che è ora di smetterla. In Africa «ci sono centinaia di chilometri di strade che collegano il nulla al nulla e attraversano regioni in cui quasi nessuno dispone di un’automobile». Ci sono «attrezzatissime strutture ospedaliere inutilizzabili perché costruite in paesi sprovvisti di medici» e edifici scolastici rimasti vuoti per mancanza di insegnanti. Ci sono «fabbriche dalle quali non è mai uscito un prodotto finito o che hanno lavorato a regimi così bassi da fallire in breve tempo, come quella per la produzione del burro di karité costruita negli anni Novanta dalla cooperazione italiana in Burkina Faso, in una regione dove nessuno coltivava il karité e dove mancava l’acqua». Anna Bono ricorda anche il recente L’industria della solidarietà, della giornalista olandese Linda Polman (Bruno Mondadori), nel quale si punta il dito sul principio delle Ong di aiutare chiunque stenda la mano, senza distinguere tra vittime e aggressori. Si calcola che siano tra il 15 e il 20% i c.d. refugee warriors, guerriglieri che si mescolano ai civili nei campi profughi. Lucrano cure, cibo e alloggio per continuare con le loro stragi. E poi le tangenti sul transito dei convogli umanitari, le estorsioni, le percentuali ai politici e ai militari per avere il permesso di operare. Così che i vari contendenti dispongono «di sempre rinnovate risorse per continuare a combattere e a infierire sui civili».
Fonte: Antidoti, 12 agosto 2009
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