BastaBugie n�103 del 04 settembre 2009

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1 IN SARDEGNA UN VESCOVO PROIBISCE UN CONVEGNO SUL MOTU PROPRIO: VIETATO APPROFONDIRE IL PENSIERO DEL PAPA!

Autore: Roberto De Mattei - Fonte: Corrispondenza Romana
2 DOMANDE INQUIETANTI SUL CASO DEL DIRETTORE DI AVVENIRE, IL GIORNALE DEI VESCOVI ITALIANI

Autore: Roberto de Mattei - Fonte: Corrispondenza Romana
3 LA MIA STORIA DI MALEDETTO REVISIONISTA CHE SVELO LA VERITA' CHE NON VOGLIONO SENTIR DIRE

Autore: Giampaolo Pansa - Fonte: Meeting di Rimini
4 GRAN BRETAGNA ALLO SBANDO: IN VIGORE LA LEGGE CHE DEFINISCE GENITORE ANCHE LA PARTNER DELLA MADRE BIOLOGICA INSEMINATA ARTIFICIALMENTE

Autore: Elisabetta Del Soldato - Fonte: Avvenire
5 LA STORIA GIA' VISTA: RU 486, HITLER E I PROBLEMI DI COSCIENZA DEI MEDICI

Autore: Matteo Dellanoce - Fonte: storialibera.it
6 STATI UNITI: IL VESCOVO CORAGGIOSO CONTRO I CATTOLICI ADULTI CHE HANNO PREMIATO OBAMA

Autore: Giovanni Romano - Fonte: La Voce dal Vicolo
7 L'IMPORTANZA, LA MODESTIA E LA BELLEZZA DEL VELO PER LE DONNE ALLA MESSA
La Parola di Dio richiede alle donne di tenere il capo coperto durante le azioni liturgiche
Autore: Don Alfredo Morselli - Fonte: messainlatino.it
8 I 50 MILIONI DI CINESI SCOMPARSI NEI LAOGAI: PERCHE' NESSUNO FA NULLA?

Autore: Angelo Picariello - Fonte: Avvenire
9 NON E' VERO CHE IL PETROLIO STA FINENDO: BASTA CERCARLO

Autore: Pietro Sacco' - Fonte: Avvenire

1 - IN SARDEGNA UN VESCOVO PROIBISCE UN CONVEGNO SUL MOTU PROPRIO: VIETATO APPROFONDIRE IL PENSIERO DEL PAPA!

Autore: Roberto De Mattei - Fonte: Corrispondenza Romana, 29 Agosto 2009

Un convegno di riflessione sul Motu proprio Summorum Pontificum, organizzato da due parroci della Sardegna, don Luca Pretta e don Pascal Manca, con la collaborazione del Comune di Mandas, che si sarebbe dovuto svolgere dal 9 all’11 agosto 2009, è stato formalmente annullato dall’Arcivescovo di Cagliari, Mons. Giuseppe Mani.
Il convegno, che avrebbe avuto luogo a Mandas in locali messi a disposizione dal Sindaco della cittadina sarda, prevedeva una riflessione sul magistero liturgico di Benedetto XVI e un approfondimento del Motu proprio Summorum Pontificum. Al convegno avevano già dato l’adesione un centinaio di persone tra cui una sessantina di sacerdoti interessati a conoscere meglio la forma straordinaria del rito romano.
I due sacerdoti, don Pretta e don Manca, parroci rispettivamente di Gesico e Mandas, fin dal 14 settembre 2007 hanno risposto alle richieste dei fedeli applicando il Motu proprio e celebrando la S. Messa anche nella sua forma straordinaria così come concesso dal Santo Padre. In questo spirito, e per venire incontro ad una domanda sempre crescente sia da parte di laici che di sacerdoti, avevano organizzato il convegno di approfondimento sul rito bimillenario della Chiesa.
Ma a pochi giorni dall’inizio del convegno, don Manca si vede costretto ad annullare l’iniziativa su esplicita richiesta scritta del suo vescovo. Mons. Mani giustifica la sua decisione spiegando che ha accolto una protesta arrivata da sette parrocchiani di Mandas: «Nessuno ha pensato di limitare il diritto di discutere su quel tema, la verità è che sono venuti da me alcuni parrocchiani di Mandas e mi hanno chiesto di fare qualcosa perché il loro paese non diventasse il centro di un’iniziativa legata alla messa tradizionale». L’Arcivescovo sostiene quindi aver soltanto accolto una protesta arrivata da un gruppo di fedeli: «Non posso fare i nomi, ma non erano pochi e mi è sembrato giusto rispettarli». Ma solo poco tempo fa, oltre mille parrocchiani avevano sottoscritto una lettera al loro parroco, don Manca, per chiedere di stabilire ulteriori orari per la Messa nella forma straordinaria.

Fonte: Corrispondenza Romana, 29 Agosto 2009

2 - DOMANDE INQUIETANTI SUL CASO DEL DIRETTORE DI AVVENIRE, IL GIORNALE DEI VESCOVI ITALIANI

Autore: Roberto de Mattei - Fonte: Corrispondenza Romana, 5/9/2009

Il caso Boffo va bene al di là delle relazioni tra Berlusconi e il Vaticano, entro cui lo si vorrebbe ingabbiare, e pone un problema di fondo alla Chiesa cattolica.
La questione si riassume in questi termini: può l’organo dei vescovi italiani essere diretto da un uomo che è stato condannato per molestia e che, soprattutto, è sospettato di essere in una condizione definita dal Catechismo della Chiesa «intrinsecamente disordinata» e «contraria alla legge naturale» (n. 2357)? Poco importa come il fatto sia venuto alla luce. Quel che importa è che il direttore di “Avvenire” non lo abbia mai esplicitamente negato, aggiungendo alla doverosa smentita una altrettanta categorica condanna di ogni comportamento omosessuale.
Il problema non tocca in alcun modo la vita privata degli uomini politici, e tantomeno dei direttori dei giornali italiani, ma – insistiamo su questo punto perché è centrale – riguarda il direttore di un giornale appartenente alla Conferenza Episcopale Italiana (CEI). La domanda che poniamo alle autorità ecclesiastiche è la seguente: è legittimo invocare il “rispetto della vita privata” in casi come questo?
Berlusconi, Bossi, Casini, Fini e anche Franceschini, Prodi e Veltroni, sono liberi di comportarsi come vogliono nella loro vita privata. È lecito naturalmente giudicare la coerenza, o l’incoerenza, tra i loro comportamenti pubblici e privati ma, in ultima analisi, per la Chiesa la loro azione pubblica è più importante di quella privata. Per questo è preferibile un uomo politico immorale, ma contrario alla legalizzazione dell’immoralità, ad un altro uomo politico morigerato nella vita privata, ma favorevole a istituzionalizzare l’immoralità nelle leggi e nel costume.
Ben diverso è il caso di un personaggio designato dalla CEI per un incarico così delicato, quale è quello di essere il portavoce dei vescovi italiani. Per tutti gli incarichi di responsabilità nelle istituzioni ecclesiali, quali direttori di testate cattoliche, professori o insegnanti in università cattoliche o pontificie, rettori di seminari, superiori di ordini religiosi, parroci e vescovi, la Chiesa ha sempre richiesto, e non può cessare di richiedere, una rigorosa coerenza tra la vita pubblica e quella privata. Le ragioni sono molteplici, e anche ovvie.
In primo luogo la Chiesa non propone solo una dottrina astratta, ma anche modelli di vita, incarnati, nel più alto grado, dalla santità. Non si può pretendere la santità da tutti, ma da tutti si esigono comportamenti, anche privati, non contrari alla legge naturale e cristiana. Quando ciò non accade, ci si trova in una situazione di grave decadenza morale, come spesso è avvenuto nella storia della Chiesa. Questa situazione deve essere contrastata e non subita, o peggio ancora giustificata. E questo, non per mancanza di carità nei confronti delle membra deboli della Chiesa, che rimangono sempre fratelli da amare, ma per l’amore, più alto, che è dovuto in primis alla legge divina e poi a tutta la comunità cristiana che, con fatica, a questa legge cerca di conformarsi.
Una seconda ragione nasce dallo stretto rapporto intercorrente tra le istituzioni e gli uomini che le rappresentano. Un poliziotto implicato in una rapina danneggia in maniera grave la credibilità della istituzione a cui appartiene. Allo stesso modo chi predica la morale, quando la trasgredisce nei fatti, causa un danno non solo a sé stesso, ma ai princìpi che cerca di trasmettere al prossimo.
Oggi esiste una violenta offensiva contro la Chiesa, che mira a screditare i suoi rappresentanti, dipinti di volta in volta come pedofili, ladri, corrotti, razzisti, omosessuali, e comunque sempre in contraddizione con i princìpi da loro professati. L’unica replica possibile a questa manovra è la forza della Verità. Se le accuse sono false, vanno smascherate e denunciate. Se sono vere, non bisogna coprire i vizi, e tantomeno trasformarli in virtù, ma occorre estirparli prontamente, sottolineando la distinzione necessaria tra la Chiesa, sempre santa e immacolata, e gli uomini di Chiesa, deboli e fallibili come tutti i mortali. Essi vanno sempre amati, anche quando sbagliano, ma mai giustificati per i loro errori. Che senso ha esprimere loro “stima” e “solidarietà”?
Vi è ancora una ragione, fondata sul principio secondo cui se non si vive come si pensa, si finisce col pensare come si vive. Oggi la Chiesa è impegnata in una dura battaglia contro il relativismo culturale e morale che aggredisce la società. Questa battaglia esige idee forti, ma anche uomini forti, coerenti con le proprie idee. La pratica del relativismo morale conduce inevitabilmente al relativismo ideologico, minando il fronte di resistenza al nemico. Una delle cause più profonde della debolezza culturale della Chiesa nel mondo, sta oggi proprio nella debolezza morale dei suoi rappresentanti. Ad un posto di responsabilità come quello di direttore del giornale dei vescovi, bisognerebbe designare un cattolico forte e coerente, e non già un uomo di compromesso culturale e morale.
Se così non fosse, se cioè dovessimo immaginare che la vita privata di un personaggio destinato ad alta carica dai Pastori della Chiesa fosse priva di incidenza sulla sua attività pubblica, dovremmo chiederci perché mai la Santa Sede abbia inviato un congruo numero di visitatori apostolici presso un importante congregazione religiosa, sotto inchiesta per le trasgressioni morali private del suo fondatore. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Perché mai le università cattoliche e pontificie dovrebbero chiedere patenti di fede e di morale, pubblica e privata, ai propri docenti? Se si ammette il principio invocato per difendere il direttore di “Avvenire”, le conseguenze per la Chiesa sarebbero devastanti.
Al di là del disgusto per l’intera vicenda, quel che appare grave ai semplici fedeli, quali noi siamo, non è l’attacco a Dino Boffo di Vittorio Feltri, che in fin da conti fa il suo mestiere di giornalista, ma il silenzio con cui lo scandalo giudiziario è stato fino ad oggi coperto da chi aveva il dovere di intervenire e ha ora quello, impellente, di rimuovere dal suo incarico il direttore di “Avvenire”.
Che Dio illumini i nostri uomini di Chiesa!

Fonte: Corrispondenza Romana, 5/9/2009

3 - LA MIA STORIA DI MALEDETTO REVISIONISTA CHE SVELO LA VERITA' CHE NON VOGLIONO SENTIR DIRE

Autore: Giampaolo Pansa - Fonte: Meeting di Rimini, 27 agosto 2009

E' da parecchi anni che sono infastidito da gente testarda nel rifiutare la conoscenza come avvenimento. Parlo di chi non vuole saperne del revisionismo sulla nostra guerra civile. E più in generale del revisionismo sulla storia del comunismo italiano. Li tengo d’occhio da un pezzo, così come loro tengono d’occhio me. Insomma, siamo duellanti che si guatano da lontano. Per incrociare le lame di tanto in tanto.
Proprio perché li conosco bene, non credo di sbagliare se dico che oggi li vedo ammosciati. Sì, li scopro con la grinta dimezzata, persino lamentosi. Non hanno più l’arroganza di quando mi attaccavano ogni volta che usciva un mio libro. Adesso se possiedono ancora un po’ di boria, non osano più mostrarla in pubblico.
Il motivo è semplice. Gli anti-revisionisti si sono accorti che la loro merce è passata di moda. Un pubblico sempre più diffuso di lettori sta con il Pansa di turno. Per questo si sentono soli e anche un po’ abbandonati. L’applauso dei trinariciuti gli arriva ancora, ma non gli basta più. La crisi culturale della sinistra, primo sintomo della crisi politica, li ha travolti. E non possono contare su una sponda sicura, come gli accadeva prima.
Di chi è la colpa della decadenza che li angoscia? Gli ostinati se la prendono con il mercato culturale, che esige un pensiero sempre più leggero. E immagino che rimpiangano i tempi del pensiero pesante, anche sotto la forma del pensiero unico. (...)
Ma adesso smetto di parlare [di loro] per dire qualcosa su di me, mandato sul banco degli imputati. Con l’accusa di distruggere a colpi di revisionismo il pensiero pesante. Certo, sono un dilettante della ricerca storica, pur avendo alle spalle un’ottima laurea grazie a una tesi di storia contemporanea: Guerra partigiana fra Genova e il Po, pubblicata da Laterza nel 1967. E mi muovo da anni su un terreno che ho studiato a fondo e credo di conoscere come pochi: l’antifascismo armato, lo scontro fra la Resistenza e la Repubblica sociale, il dopoguerra macchiato da un’infinità di delitti.
Ecco un campo minato dai divieti dei parrucconi rossi: quelli di partito e quelli dell’accademia. Qui ho incontrato di continuo commissari politici travestiti da intellettuali e boriosi professori nullascriventi. Tutti pronti a muoversi da giudici spocchiosi dell’Inquisizione antifascista. Con un solo chiodo in testa: punire anche il più timido revisionismo come un’eresia maledetta e pericolosa, da soffocare.
Parlo delle revisioni che non tornano comode alla cultura comunista. E che, dunque, non debbono essere ammesse. Questi parrucconi mi fanno sorridere. Soprattutto perché fingono di dimenticare che le sinistre italiane sono sempre state iper-revisioniste, ogni volta che gli è convenuto esserlo.
Pensiamo a Stalin, prima grande padre buono di tutti i popoli della terra e poi despota feroce. Oppure al maresciallo Tito. Dipinto dal Pci come un eroe della libertà, il vincitore della guerra in Jugoslavia contro nazisti e fascisti. Poi sputacchiato sempre dal Pci, quando nel 1948 rompe con l’Unione Sovietica. E, infine, di nuovo esaltato dal Pci a partire dal 1955, quando la frattura con Mosca si ricompone.
Li ho visti in azione questi parrucconi. Ma pur essendo un dilettante solitario, senza un partito che mi difendesse, non mi sono spaventato. Ho tirato i sassi contro i padroni post-comunisti della storia italiana. Ho provato a scrivere le pagine lasciate in bianco da loro, per calcolo politico o per viltà intellettuale. Li ho sbugiardati. Li ho costretti a replicare spacciando altre bugie. Ho contribuito a svelare la loro mediocre doppiezza. Mi sono fatto dei nemici. Ma ho incontrato molti amici: italiani per bene, stanchi di troppe menzogne e alla ricerca della verità.
Nello scoprire questi tanti amici, libro dopo libro mi sono reso conto di una realtà che prima non vedevo con chiarezza. In Italia esiste un’opinione pubblica moderata, di centro-destra, di destra o semplicemente liberale, che per anni ha faticato a emergere sul terreno della cultura diffusa. All’inizio era un’opinione “povera”, perché non poteva contare sull’apparato culturale a disposizione della sinistra. I partiti che aveva alle spalle erano scomparsi nel gorgo di Tangentopoli. E l’unico rimasto in piedi, il Movimento sociale, stava cambiando pelle e natura.
Senza rendermene conto, ho contribuito a liberare questa opinione. Dopo I figli dell’Aquila, dedicato a chi aveva combattuto per la Rsi, e soprattutto dopo Il sangue dei vinti, ho ricevuto sino a oggi almeno tremila lettere. Sono soprattutto di donne che mi narrano la loro storia e quella della loro famiglia negli anni della guerra civile e del primo dopoguerra. E mi ringraziano per avergli dato il coraggio di scriverne, dopo decenni di silenzio obbligato.
La caduta del “bavaglio” della cultura comunista.
Il maledetto revisionismo ha fatto cadere un altro piccolo muro di Berlino. Era quello del bavaglio imposto dalla cultura e dalla storiografia comuniste a tanti italiani esuli in patria. I paria, i reprobi, gli sconfitti che l’arcigno Arco Costituzionale, fondato sulla Dc e sul Pci, non voleva riconoscere come cittadini con pari dignità. Un lettore mi ha scritto che, con i miei libri, non ho soltanto liberato la memoria dei morti, ma anche quella dei vivi, dei loro figli, dei loro nipoti. «Vissuti per anni con il sasso in bocca - diceva una lettrice - identico a quello che la mafia adopera per le sue vittime».
Adesso l’opinione pubblica fatta emergere dal revisionismo sulla guerra civile è meno povera di prima. Ma si scontra ancora con due grandi difficoltà. La prima è rivelata dal paradosso che connota l’Italia di oggi. Il vecchio Pci è scomparso da vent’anni, dopo la fine dell’Unione Sovietica. E i partiti nati dalle sue ceneri sono sempre più deboli. Eppure l’egemonia culturale rossa resiste ancora. Perché è un’egemonia proprietaria. E sta in piedi grazie a quel che possiede e usa di continuo.
L’elenco delle sue proprietà è lungo. Le cattedre di storia contemporanea in molte università. L’insegnamento della storia nelle scuole medie superiori. Una catena di case editrici. I tanti festival del libro, a cominciare dal rosso Salone di Torino che esclude quasi sempre autori invisi alla sinistra. I premi letterari. I convegni culturali in centri grandi e piccoli. Tanti giornalisti. E parecchi quotidiani. A cominciare da Repubblica: un giornale-partito, dalla pedagogia autoritaria, importante per numero di copie diffuse e per il pensiero unico che fa circolare e riesce ancora a imporre.
Ho descritto una struttura difficile da sgretolare. E che resiste quasi intatta a ogni crisi. È vero che conta meno di un tempo. Però seguita a rimanere in piedi. Assomiglia a un gigante sempre più confuso, ma tuttora in grado di far pesare la propria forza. Ha dalla sua anche una quota della televisione pubblica: la Rete 3 della Rai, il suo telegiornale, i suoi programmi culturali. Non è un caso se non sono mai riuscito a presentare i miei libri revisionisti su questa rete. La censura rossa mi ha sempre sbarrato il passo. Trovando molti piccoli censori pronti a obbedire.
I motivi di queste esclusioni sono tanti e tutti falsi: Pansa diffama la Resistenza, Pansa inventa stragi mai avvenute, Pansa scrive cose che non pensa per intascare buoni diritti d’autore, Pansa si è messo al servizio del centro-destra di Silvio Berlusconi... Ma esiste pure un motivo più serio, quello decisivo. E riguarda la storia del Pci nella guerra civile e nel dopoguerra.
L’apparato culturale e storiografico comunista ha sempre sostenuto che il Pci di Togliatti, di Longo e di Secchia era un partito democratico già all’inizio degli anni Quaranta. E non aveva mai coltivato l’intenzione di continuare la guerra civile anche dopo la Liberazione. Già, non ha mai cercato di conquistare il potere con le armi. Non ha mai voluto fare dell’Italia una repubblica popolare, dove la “democrazia progressiva”, così la chiamavano, sarebbe stata al servizio dell’Unione Sovietica.
Nei miei libri, mettendo in fila una serie di fatti incontestabili, ho invece provato che l’obiettivo finale del Pci era proprio un regime autoritario. Con un solo partito e una polizia politica onnipotente. I comunisti non combattevano per la libertà degli italiani, ma per un’altra dittatura, rossa invece che nera. Anche storici ben più professionali di me hanno affermato la stessa verità indiscutibile. Ma è proprio questa verità a suscitare la reazione rabbiosa dei dirigenti post-comunisti e degli storici rossi. La considerano una falso totale. E nel replicare vanno fuori di testa. Come ho potuto constatare anche in qualche risposta nervosa al mio ultimo libro, Il revisionista, uscito in maggio da Rizzoli.
Ecco uno snodo cruciale nella vicenda della Resistenza e del primo dopoguerra. E non si tratta soltanto di un problema storiografico. Siamo di fronte a una questione che si riflette sulla lotta politica del 2009. Basta dare un’occhiata alla tribuna d’onore del Partito democratico per rendersi conto che molti dirigenti vengono dal vecchio Pci. E sono cresciuti alla sua scuola.
Pensiamo a D’Alema, a Fassino, a Veltroni, a Bersani, a Livia Turco, ad Annamaria Finocchiaro, a Violante, a Reichlin e a tanti altri ancora. Ammettere la verità sul vecchio Partitone Rosso, manderebbe in crisi la loro cultura e le loro stesse figure. Qualunque giovane militante potrebbe chiedergli conto delle menzogne che anche loro hanno avallato. E della loro ostinazione a non rinnegarle.
Per questo di qui non si passa. Ci vorrà ancora del tempo prima che dall’area post-comunista arrivi qualche ammissione. Riconoscere che il Pci della guerra partigiana aveva propositi golpisti significa aprire una falla in una diga. Con l’obbligo di rileggere in un modo nuovo, e pericoloso, tutta la storia del comunismo italiano nella Prima Repubblica. Una storia che non è quella degli antichi egizi, ma del nostro tempo. Con vecchi protagonisti sempre sulla scena. Basta pensare all’uomo-immagine della sinistra radicale: Pietro Ingrao. Non era lui ad aver giustificato alla Camera dei Deputati la fucilazione di Imre Nagy e di altri dirigenti dell’insurrezione ungherese contro i sovietici? Sì, era lui. Ed eravamo già nel giugno 1958.
Ma l’opinione pubblica moderata incontra anche una seconda difficoltà. Questa deriva dalla scomparsa di un partito che si era sempre opposto alla cosiddetta vulgata resistenziale. E ai falsi storici che la sorreggevano. Mi riferisco al vecchio Msi, sciolto da anni, e poi di Alleanza nazionale che in marzo è entrata nel Popolo delle libertà. So per esperienza che molti dirigenti di An la pensano come prima a proposito della guerra civile. Il problema è che il loro leader non la pensa più nello stesso modo.
Sto parlando di Gianfranco Fini, oggi Presidente della Camera. Osservo come si muove, che cosa dice, quello che scrive. Ho anche discusso con lui, in un dibattito pubblico a Montecitorio, nel maggio di quest’anno. Ma continuo a non capirlo. Fini è un enigma vivente. Oggi respinge per intero un passato che pure gli appartiene, anche perché gli ha garantito la carriera. Siamo di fronte a un caso strabiliante di revisionismo all’incontrario. E penso che ci riserverà molte sorprese, tutte stupefacenti.
Serve a una cultura liberale una posizione come quella di Fini? Penso di no. La conoscenza a proposito della storia non progredisce nella confusione. Rovesciando un vecchio motto, potremmo dire: se il disordine sotto il cielo si fa grande, la situazione non diventerà mai eccellente.

Fonte: Meeting di Rimini, 27 agosto 2009

4 - GRAN BRETAGNA ALLO SBANDO: IN VIGORE LA LEGGE CHE DEFINISCE GENITORE ANCHE LA PARTNER DELLA MADRE BIOLOGICA INSEMINATA ARTIFICIALMENTE

Autore: Elisabetta Del Soldato - Fonte: Avvenire

 Dalla settimana prossi¬ma le donne omoses¬suali che avranno un figlio attraverso l’insemina¬zione artificiale potranno re¬gistrare il nome della loro partner alla voce “secondo genitore” sui certificati di na-scita.
  Le nuove regole entra¬no in vigore dopo mesi di cri¬tiche da parte di chi le consi¬dera un’ulteriore minaccia al valore della famiglia tradizio¬nale.
  E prevedono anche la can¬cellazione dell’obbligo, da parte delle cliniche per la fe¬condazione artificiale, di prendere in considerazione «la necesità di un padre» quando accettano di acco¬gliere una paziente.
  Le donne che sono già legate a un’altra donna da unione civile vedranno il nome della partner automaticamente in¬serito nel certificato di nasci¬ta di un figlio ottenuto grazie alla donazione di sperma e al¬l’inseminazione artificiale. Le donne singol che partorian¬no, dopo l’inseminazione ar¬tificiale, potranno inserire nel documento un’altra donna alla voce «secondo genitore» anche se non sono unite in matrimonio. In questo caso il partner dovrà dichiarare per iscritto il consenso.
  Le nuove regole saranno ap¬plicate a molte delle duemi¬la donne che ogni anno in Gran Bretagna accedono al¬l’inseminazione artificiale da donatore anonimo. Secondo alcuni le nuove direttive mi-neranno il territorio legale vi¬sto che i «secondi genitori» indicati sui certificati di na¬scita assumeranno gli stessi diritti e responsabilità legali del genitore biologico.
  Le direttive hanno sollevato molta preoccupazione e non solo tra le associazione a fa¬vore della famiglia tradizio¬nale e nella Chiesa.
  Per la deputata laburista Ge¬raldine Smith «avere un cer¬tificato di nascita con due madri è pura follia. È molto ingiusto da parte dello Stato nascondere la paternità ge¬netica a una persona. In que¬sto modo si mettono davan¬ti alle necessità dei bambini non ancora nati gli interessi degli adulti». Anche la parlamentare conservatrice Nadi¬ne Dorries è d’accordo: «Tut¬to ci indica che il modello tra¬dizionale di madre e padre che si prendono cura di un minore, funziona meglio».

Fonte: Avvenire

5 - LA STORIA GIA' VISTA: RU 486, HITLER E I PROBLEMI DI COSCIENZA DEI MEDICI

Autore: Matteo Dellanoce - Fonte: storialibera.it

Uno dei problemi che Hitler ebbe con l’Endsolung fu quello dei medici. Nel gettare le sostanze gasanti avevano problemi di coscienza perchè vedevano le atroci sofferenze dei condannati. Hitler fece costruire dei camini in maniera tale che gettando le sostanze dall'alto i medici non vedessero e non soffrissero. Risolto il problema. L'aborto, grazie allo sviluppo delle tecniche ecografiche, è stato smascherato come un omicidio con il famoso “urlo” che sconvolse Reagan! Oggi "il pesticida", spacciato per farmaco ( RU486), che ammazza persone sia autonome sia non autonome è come quei comignoli. Obnubila le coscienze perché non vedono e non sentono l'urlo. Il problema non è più eliminare il "popolo eletto" di Dio che negava al nazista di imporre la sua razza perfetta, ma visto il fallimento del progetto hitleriano, sopprimere tout court l'uomo relazionale e “Figlio” di Dio, in favore di una chimera tecnologica. La tecnica creatura dell'uomo crea l'uomo. Dopo l'omicidio di Dio grazie allo scientismo materialista e dialettico, oggi sulla stessa scia grazie al tecnologismo edonistico, sempre dialettico, ammazzano l'Io. E questo è il progresso? E questo è il cambiamento obamiano? E’ lo “Yes we can?” Ma per piacere! Questa è erodismo allo stato puro! Questo è un genocidio! Uno sterminio, un termine senza termine! Questo è RAZZISMO! Questo è NEGAZIONISMO! Libertà? Ma per piacere! E’ sempre il solito socialismo disumano ed antropologicamente egoistico (diabolico)! Che si chiami comunismo, fascismo, nazismo o progressismo, laicismo o, ancor peggio, democraticismo ammantato di solidarismo pseudo-cristiano, sempre quello è! Odio per la vita ed amore per la morte!

Fonte: storialibera.it

6 - STATI UNITI: IL VESCOVO CORAGGIOSO CONTRO I CATTOLICI ADULTI CHE HANNO PREMIATO OBAMA

Autore: Giovanni Romano - Fonte: La Voce dal Vicolo, 25 agosto 2009

Il Vescovo John M. D’Arcy, la cui diocesi ricomprende la Notre Dame University, non è disposto a lasciar cadere i punti controversi sollevati dalla premiazione del Presidente Obama. Al contrario, il Vescovo di Fort Wayne - South Bend ha stilato un pungente articolo per il prossimo numero della rivista America, in cui rivolge un appello alla rinomata università affinché valuti le conseguenze di non aver rispettato l’autorità dei vescovi.
In un articolo che sarà l’editoriale della rivista America, pubblicata dai gesuiti, il Vescovo D’Arcy scrive che “man mano che l’estate s’inoltra sul magnifico campus vicino al lago dove il giovane sacerdote della Santa Croce, Edward Sorin, C.S.C., piantò la tenda 177 anni fa e iniziò la sua grande avventura, dobbiamo chiarificare la situazione che ha tanto amareggiato la Chiesa nella primavera scorsa: fare chiarezza su quel che era in gioco e quel che non era in gioco”.
Secondo il Vescovo, che aveva richiesto al presidente di Notre Dame, Fr. John Jenkins, di non premiare Obama: “Non è in questione il presidente Obama... Non è una questione di democratici contro repubblicani... non è una questione se sia appropriato o meno per il Presidente degli Stati Uniti parlare alla Notre Dame o a qualunque grande Università Cattolica sulle questioni più urgenti del giorno”.
La risposta dei fedeli, scrive il Vescovo d’Arcy, “non ha nulla a che vedere con ciò che questa rivista (America) ha definito “settarismo cattolico”. Piuttosto, la risposta dei fedeli deriva direttamente dal Vangelo”.
La vera questione posta dalla situazione è se una Università Cattolica abbia o meno la responsabilità di dare pubblica testimonianza alla fede, afferma D’Arcy. “In caso contrario, qual è il significato di una vita di fede? E come può un’istituzione cattolica aspettarsi che i suoi studenti vivano secondo la fede nelle difficili decisioni che dovranno affrontare in una cultura spesso ostile al Vangelo?”, si chiede.
“Nella sua decisione di conferire la sua massima onorificenza a un presidente che si è ripetutamente opposto anche alla più piccola protezione legale per il bambino nel grembo, Notre Dame ha forse lasciato cadere la responsabilità che Papa Benedetto ritiene che abbiano le università cattoliche: dare pubblica testimonianza alle verità rivelate da Dio e insegnate dalla Chiesa?”, si chiede anche il Vescovo.
Monsignor D’Arcy poi richiama severamente la Notre Dame University per aver sponsorizzato durante molti anni il lavoro teatrale “I monologhi della vagina”.
“Sebbene abbia parlato con molta eloquenza sull’importanza del dialogo con il presidente degli Stati Uniti, il presidente di Notre Dame ha scelto di non dialogare col suo vescovo su queste due questioni, entrambi pastorali ed entrambi con serie ripercussioni sulla cura d’anime, che è la responsabilità principale del vescovo”, ha detto.
“Entrambe queste decisioni”, rivela il Vescovo D’Arcy, “sono state portate a mia conoscenza dopo essere state prese, e, nel caso della laurea honoris causa, dopo che il Presidente Obama aveva accettato”.
Mettendo in chiaro di non aver mai interferito nella gestione interna di Notre Dame o di nessun’altra istituzione d’istruzione superiore della diocesi, D’Arcy spiega che “il vescovo diocesano deve chiedersi se un’istituzione cattolica comprometta o meno il suo obbligo di dare pubblica testimonianza quando colloca il prestigio al di sopra della verità”.
“Il mancato dialogo con il vescovo porta alla luce una seconda serie di questioni”, prosegue.
“Di che tipo è la relazione di un’Università Cattolica con il vescovo locale? Nessun rapporto? O il vescovo è qualcuno che di tanto in tanto viene a celebrare la Messa nel campus? O è un tizio che siede sul palco durante la cerimonia del conferimento delle lauree?”.
“Oppure il vescovo è il maestro della diocesi, responsabile delle anime, incluse quelle degli studenti - in questo caso gli studenti di Notre Dame? La responsabilità del vescovo d’insegnare, di governare e di santificare finisce forse alle porte dell’università?”.
“Io pongo queste domande all’Università nello spirito della Ex corde Ecclesiae”, ha dichiarato.
Il Vescovo D’Arci mette poi in rilievo la forte vita spirituale di molti membri della facoltà e di molti studenti dell’università, e riconosce che “il dipartimento di teologia è cresciuto in eccellenza accademica nel corso degli anni, rinforzato da un reclutamento avveduto di docenti di prim’ordine nel loro campo, nella conoscenza della tradizione e nel loro modo di vivere la fede cattolica”.
“Tuttavia”, aggiunge, “restano in piedi le questioni relative al rapporto dell’Università nel suo complesso con la chiesa, e quel che è accaduto sul campus prima e durante la premiazione di Obama è significativo per l’attuale dibattito sull’istruzione superiore cattolica”.
Mettendo in rilievo che un gran numero di studenti e di membri della facoltà erano contrari al discorso inaugurale di Obama e al conferimento della laurea, il vescovo dice che alla rivista America “e ad altri nei media, sia cattolici che secolari, che hanno commentato le notizie da lontano, non hanno fatto una distinzione tra gli estremisti da una parte, e dall’altra gli studenti e coloro che si sono uniti a loro nelle ultime 48 ore prima della cerimonia. Il secondo gruppo (NO Response) ha agito con la preghiera e mostrando in modo civile il proprio disaccordo, hanno cooperato con le autorità universitarie”.
“In questo tempo di crisi per l’Università”, egli nota, “questi studenti e professori, con l’istinto della fede, si sono rivolti al vescovo per avere guida, incoraggiamento e preghiera”.
Sebbene all’inizio avesse inteso assentarsi dalla cerimonia della laurea, il Vescovo D’Arcy scrive che “Man mano che si avvicinava la laurea, sapevo che avrei dovuto essere con gli studenti. Era una questione di semplice giustizia che il vescovo fosse con loro, perché erano dalla parte della verità, e la loro dimostrazione era pacifica, radicata nella preghiera e ricca di significato”.
Il Vescovo D’Arcy prende di mira anche il consiglio d’amministrazione dell’Università “per non aver detto nulla” quando si è riunito ad aprile per il loro incontro di apertura programmato da tempo.
“Quando l’incontro si è concluso, non hanno emesso nessun comunicato e non hanno preso alcuna posizione. In un’epoca in cui la trasparenza viene invocata come modo di vivere nella vita e nei campus, hanno scelto di non prendere parte al dibattito che si svolgeva tutt’intorno a loro e che stava scuotendo l’università dalle radici”, ha scritto.
Quel che il consiglio d’amministrazione deve fare è “prendersi nuovamente la responsabilità, con appropriati studi e preghiera... con maggiore serietà e in uno spirito realmente cattolico”, esorta il Vescovo.
D’Arcy conclude il suo articolo ponendo alcune domande cruciali a Notre Dame “e ad altre università cattoliche”.
Il Vescovo chiede:
“Considerate vostra responsabilità, nelle vostre dichiarazioni pubbliche, nella vostra vita universitaria e nelle vostre azioni, incluso il conferimento pubblico di onorificenze, dare testimonianza alla fede cattolica in tutta la sua pienezza?”.
“Qual è il vostro rapporto con la Chiesa e, in particolare, con il vescovo locale e la sua autorità pastorale, come definito dal Concilio Vaticano II?”.
“Infine, una domanda più fondamentale: Dove si rivolgeranno le grandi università cattoliche per cercare una luce che li guidi negli anni a venire? Sarà il Land O’Lakes Statement o la Ex Corde Ecclesiae?”.
Il Land O’Lakes Statement fu firmato nel luglio 1967 da un gruppo di educatori cattolici, guidato dall’allora presidente della Notre Dame Fr. Theodore Hesburg. Il famoso storico cattolico Philip Gleason definì questo manifesto “una dichiarazione d’indipendenza dalla gerarchia”, aggiungendo che esso separava l’università cattolica dalla vita della fede e metteva in moto il declino dell’identità cattolica di parecchie grandi istituzioni d’istruzione superiore.
Il vescovo D’Arcy descrive il Land O’Lakes Statement come un documento “che proviene da un’epoca di frenesia, che ebbe il denaro come sua forza propulsiva. Il suo modo d’intendere la libertà era arroccato sulla difensiva, assolutista e ristretto. Non menziona mai Cristo e non nomina mai la verità”.
“Il secondo testo, Ex Corde Ecclesiae, parla costantemente della verità e della ricerca della verità. Parla di libertà nel senso più ampio; la tradizione filosofica cattolica e teologica sono legate al bene comune, ai diritti degli altri e sempre soggette alla verità”.
“Su queste tre domande, che sottopongo rispettosamente, si fonda il futuro dell’istruzione superiore cattolica in questo paese e in molti altri luoghi”, conclude il Vescovo D’Arcy.

Fonte: La Voce dal Vicolo, 25 agosto 2009

7 - L'IMPORTANZA, LA MODESTIA E LA BELLEZZA DEL VELO PER LE DONNE ALLA MESSA
La Parola di Dio richiede alle donne di tenere il capo coperto durante le azioni liturgiche
Autore: Don Alfredo Morselli - Fonte: messainlatino.it

Il Codice di Diritto Canonico del 1917 prescriveva alle donne di tenere il capo coperto in Chiesa, soprattutto al momento della Santa Comunione. Nel nuovo Codice non c'è traccia di questa disposizione e ormai questa antica e venerabile usanza è caduta nel dimenticatoio; eppure essa era fondata su una disposizione dello stesso Apostolo San Paolo. Ma, tra l'esegesi razionalista moderna, che tende a storicizzare tutte le disposizioni particolari ("roba d'altri tempi..."), e il famigerato luogo comune per cui "l'uomo di oggi" non sarebbe più in grado di capire certe cose, anche la consuetudine, per le donne, di coprire il capo in chiesa, è andata perduta.
Per non parlare poi di molte suore, che, un tempo ben vestite (chi non ricorda i cappelloni delle Figlie della Carità di San Vincenzo de' Paoli?), oggi espongono il ciuffo, per andar di pari passo con chi ha gettato tonaca e colletto bianco alle ortiche (e qui, visti i magrissimi risultati estetici, avendo tolto il velo, c'è assai spesso da stenderne subito un altro, questa volta pietoso, come si suol dire). Ma guai se ci limitassimo a rimpiangere i tesori che ci hanno scippato: dobbiamo cercare, con l'aiuto della Madonna, anche per questo caso, le ragioni della Tradizione: e allora leggiamo le parole dell'Apostolo, e vediamo come alcuni Padri della Chiesa le hanno interpretate.
"Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l'uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. Se dunque una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. L'uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell'uomo. E infatti non l'uomo deriva dalla donna, ma la donna dall'uomo; né l'uomo fu creato per la donna, ma la donna per l'uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli. Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l'uomo, né l'uomo è senza la donna; come infatti la donna deriva dall'uomo, così l'uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio. Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto? Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l'uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo. Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio" (1 Cor 11,3-16).
Da questo brano, noi possiamo ben comprendere i motivi per cui S. Paolo consiglia alle donne di tenere il capo coperto durante le azioni liturgiche. I motivi sono, essenzialmente, quattro.

1) LA SIMBOLOGIA DELLE NOZZE TRA CRISTO E LA NATURA UMANA
In chiesa, durante la liturgia, l'uomo e la donna non rappresentano solo se stessi, ma l'uomo - ogni uomo - rappresenta Cristo, lo Sposo: la donna rappresenta il genere umano, la natura umana sposa del Verbo. Possiamo comprendere ciò considerando la natura sponsale della fede (Ti sposerò nella fede e tu conoscerai il Signore - Os 2,22), il contesto generale della liturgia (l'atmosfera in cui la fede è esercitata nel modo più perfetto) e l'esplicito richiamo alle nozze di S. Paolo: E infatti non l'uomo deriva dalla donna, ma la donna dall'uomo; né l'uomo fu creato per la donna, ma la donna per l'uomo - 1 Cor 11, 8-9. Cristo sta all'uomo (maschio e femmina) come l'uomo sta alla donna. Inoltre l'uomo, diversamente dalla donna, è "immagine e gloria di Dio", non per se stesso, ma in quanto rappresenta Cristo: perciò egli non può stare con il capo coperto, perché in questo modo egli "disonora il suo capo" (11,4) il suo proprio rappresentare Cristo: un uomo con il capo coperto non rappresenta bene Cristo, così una donna con il capo scoperto, non rappresenta bene la natura umana e la Chiesa sposa di Cristo. In questo senso Tertulliano dice: "Poiché io sono l'immagine del creatore, non c'è posto in me per un altro capo (che non sia Cristo)" (Contro Marcione, V, 8, 1).

2) UN SEGNO DELLA SOTTOMISSIONE A CRISTO
Una donna con il capo coperto dal velo, ricorda a tutti coloro che sono in chiesa che la natura umana è sposa di Cristo: perciò la donna, in quanto rappresenta la natura umana, deve avere un segno della sua dipendenza sul suo capo (1 Cor 11,10): questo segno della dipendenza è il segno dell'autorità di Cristo nei confronti della sua Sposa, la natura umana. Perciò il Concilio Gangrense chiama il velo memoriale, ricordo della sottomissione. S. Giovanni Crisostomo lo chiama insegna della sottomissione; Tertulliano giogo della sua umiltà (cf. Cornelius a Lapide, ad loc.).

3) IL RISPETTO DEL PERFETTO EQUILIBRIO DEL COSMO
L'edificio della chiesa rappresenta il cosmo, ricolmato della gloria di Dio, specialmente durante la celebrazione della S.Messa (I cieli e la terra sono pieni della tua gloria…). Il cosmo è perfettamente ordinato (Ma tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso - Sap 11,20). Nessuno può dimenticare la presenza, all'interno della chiesa-cosmo, della gerarchia celeste, perfettamente ordinata (Voi vi siete invece accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all'adunanza festosa… - Eb 12,22). Non è quindi conveniente che in un cosmo perfettamente ordinato qual è la celebrazione liturgica, la ordinata relazione tra Cristo-Sposo e Chiesa-Sposa - la particolare relazione che la celebrazione liturgica ricrea nel modo più perfetto -, non sia mostrata (Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli - 1 Cor 11,10).

4) UN SEGNO NATURALE DI UMILTÀ
Ultimo aspetto, ma non di minore importanza: "Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l'uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo" (1 Cor 11, 14-15). È obbligatorio, per le donne, portare il velo in Chiesa? Oggi non più, ma S. Paolo ce ne spiega i sempre validi motivi di convenienza.

Nota di BastaBugie: per antica tradizione il colore del velo è nero per le donne sposate e le vedove, bianco per le nubili. Le regine, sebbene sposate, possono usare il bianco.
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Per approfondimenti si può leggere il seguente articolo:

ECCO COME MI SONO ARRESA ALLA BELLEZZA DI INDOSSARE IL VELO IN CHIESA
Spero sia utile a molte ragazze la mia storia prima del giorno in cui ho deciso di accettare l'insegnamento della Parola di Dio sul velo per le donne
di Federica
https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=6659

DOSSIER "COMUNIONE SULLA LINGUA"
Come ricevere l'Eucarestia

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Fonte: messainlatino.it

8 - I 50 MILIONI DI CINESI SCOMPARSI NEI LAOGAI: PERCHE' NESSUNO FA NULLA?

Autore: Angelo Picariello - Fonte: Avvenire

 Si chiamano laogai, sono i lager cinesi. Una tragedia dai numeri impressionanti, che ricorda quella dei gulag, ma che a differenza di essi sopravvive tranquillamente al crollo del regime comunista. Anzi. Proprio il boom economico crea, e finanzia, quella cortina fumogena dietro la quale questo crimine può continuare senza interruzioni. A 20 anni da piazza Tien an Men, nul¬la, sotto questo profilo, sembra cambiato
  Harry Wu, fondatore della Laogai Re¬search foundation, cattura la platea del Meeting nella giornata iniziale, gremendo oltre la capienza la sala A1, a parlare di 'Tien an men: la Cina 20 anni dopo'. Basta una cifra, approssimativa: circa 50 milioni di cinesi sa¬rebbero scomparsi nei laogai. Numeri in gra¬do di superare gli orrori nazisti e dei cam¬pi di concentramento russi messi insieme. E se Alexandr Solgenitsin ha coniato il ter¬mine gulag, Harry Wu dedica tutto il suo impegno di esule cinese a far conoscere la parola laogai, i campi di lavoro cinesi, dei quali si sa ancora molto poco. Da Rimini lancia il suo j’accuse al regime cinese. Raccontando semplicemente la sua auto-biografia di Controrivoluzio¬nario   (il libro pubblicato da San Paolo in collaborazione con Mondo e missione)  che testimonia di una tristissima linea di continuità fra il regime comunista e quello attuale, nella persecuzione dei cat¬tolici. Harry Wu, nato nel 1937 a Shangai da famiglia benestante (il padre era dirigente di banca), cattolico, come racconta alla gente del Meeting, ci è diventato da ragazzo, a 12 anni. Dieci anni do¬po, nel 1959, il suo arresto, nel pieno del regime di Mao «per il solo fatto di aver a¬vanzato una domanda sui fatti di Ungheria». Passerà 19 anni nei laogai, in 12 diversi campi di lavoro. Fuggito negli Usa al termine della pena, Wu, oggi citta¬dino americano, da lì si batte a tempo pieno per far conoscere i crimini del Par¬tito comunista cinese, che in realtà pro¬seguono.
  Ma persino gli Usa che lo ospitano non hanno il coraggio di una presa di posizione chiara. «Nel luglio 2008 – raccon¬ta – sono stato chiamato alla Casa Bian¬ca da Bush e ho spiegato la situazione dei diritti umani in Cina. Ma le ultime due amministrazioni Usa si sono solo riempite la bocca di questo tema senza fare molto in concreto per fermare le violazioni dei diritti umani in Cina», dice riferendosi anche a Clinton e lasciando il giudizio sospeso su Obama. Lungo l’elenco di violazioni che Harry Wu snocciola dal palco di Rimini: la repressione degli oppositori politici, la pianificazio¬ne forzata delle nascite attraverso la legge del figlio unico (parla di «30 milioni di aborti in un solo anno»), il traffico di or¬gani: «Il 95% dei 30mila trapianti annuali in Cina – denuncia – avviene con orga¬ni di detenuti uccisi».

Fonte: Avvenire

9 - NON E' VERO CHE IL PETROLIO STA FINENDO: BASTA CERCARLO

Autore: Pietro Sacco' - Fonte: Avvenire

Un secolo e mezzo di petrolio alle spalle. Difficile sperare di avere altri centocinquanta anni di greggio davanti a noi, dicono in tanti. Perché il petrolio non è infinito, e prima o poi non ce ne sarà più. L’Agenzia internazionale dell’energia ha previsto che toccheremo il mitico 'picco di Hubbert' – il momento in cui avremo sfruttato metà del petrolio esistente – tra il 2013 e il 2037. Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni, è tutt’altro che preoccupato. «Se mai il petrolio dovesse fi¬nire, quel giorno avremo smesso di averne bisogno già da tempo» .
TUTTI INFONDATI GLI ALLARMI SULLA FINE DEL GREG¬GIO?
Quelle sono previsioni che fanno i conti sen¬za l’oste. Difatti se ne fanno da decenni, e so¬no sempre risultate sbagliate. E non solo quelle sul petrolio. Negli Stati Uniti dell’Ottocento avevano previsto la fine del legname. Presto, vedrete, qualcuno parlerà della fi¬ne del gas. Ma è l’approccio che è sbagliato: questi studiosi guardano a quanto petrolio abbiamo oggi a disposizione, poi a quanto ne consumiamo oggi, e ti¬rano le somme. Non tengono conto del fatto che abbiamo molto più petrolio di quanto ne co-nosciamo. Nel pianeta c’è tutto quel greggio che ancora non abbiamo cercato.
C’È COSÌ TANTO ORO NERO ANCORA DA SCOPRIRE?
La domanda che ci dobbiamo fare non è quanto petrolio possiamo ancora trovare, ma quanto siamo disposti a pagarlo. Se siamo pronti a spendere di più, diventano econo¬micamente convenienti modalità di estrazione nuove e più costose. Penso ai giaci¬menti in acque molto profonde o a quelli dalle sabbie bituminose. C’è molto petrolio che potremo sfruttare, se la dinamica di doman¬da e offerta farà salire il prezzo.
DOBBIAMO PREPARARCI A DECENNI DI GREGGIO COSTOSO?
No, non è detto. Intanto perché con le tec¬nologie che abbiamo oggi siamo anche in grado di scovare nuovo petrolio in giacimenti che ritenevamo vicini all’esaurimento. E poi perché sappiamo che nell’area del Medio Orien¬te c’è ancora tantissimo greggio facile da estrarre, e quindi poco costoso. Ma lì ci sono altri problemi.
QUESTIONI POLITICHE?
Sì, perché in Iran o Arabia Saudita, dove si trovano i giacimenti mag¬giori, i governi sono ostili agli investimenti delle compagnie internazionali. L’Iran ha scoperto quattro nuovi grandi giacimenti so¬lo pochi giorni fa, se lasciassero lavorare di più i gruppi occidentali, che hanno tecnolo¬gie di gran lunga migliori, potremmo sfrut¬tare molto di più la ricchezza petrolifera di quell’area. Senza parlare dell’Iraq, dove è dal¬la prima guerra del Golfo che nessuno cerca più greggio.
LE NUOVE TECNICHE DI ESTRAZIONE POTREBBERO MODIFICARE LA 'MAPPA DEL PETROLIO'?
Oggi siamo in grado di andare con le esplo¬razioni verso zone nuove. La maggiore riser¬va di petrolio dalle sabbie bituminose è in Canada, poi c’è l’olio pesante dell’Orinoco, in Venezuela. E anche l’Africa ha un poten¬ziale ancora tutto da sfruttare. Ma una quo¬ta importante del petrolio esistente è anco¬ra nei Paesi dell’Opec, e dobbiamo impara¬re a convivere con questa realtà, dove un car¬tello di Paesi produttori cerca di alzare il prez¬zo del greggio – anche se non ci riesce quasi mai – e ostacola un uso migliore delle sue ri¬sorse.
NON CONVERRÀ CONCENTRARE I NOSTRI SFORZI SULLE FONTI ALTERNATIVE?
Già lo stiamo facendo. Prima con il petrolio facevamo quasi tutto, per l’Italia 20- 30 anni fa il greggio era anche la prima fonte di elet¬tricità. Oggi questa quota è molto ridotta gra¬zie allo sfruttamento del gas naturale. Poi ab¬biamo l’alternativa nucleare e le fonti rinno¬vabili, che però non sono ancora economi-camente convenienti. Ma per i mezzi di tra¬sporto, per muovere le automobili o gli aerei, il petrolio non ha ancora un rivale credibile.

Fonte: Avvenire

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