BastaBugie n�125 del 29 gennaio 2010
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COSA DIRE DI FRONTE A UNA CATASTROFE? PERCHE' C'E' IL MALE?
Fonte: I tre sentieri
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BELLA: UN INNO ALLA VITA DI RARA EFFICACIA
Se vuoi far ridere Dio, raccontagli i tuoi progetti
Autore: Loretta Bricchi Lee - Fonte: Avvenire
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DIO E LA MATEMATICA: AMICI INSEPARABILI
Alla faccia di Odifreddi e compagni
Fonte: Corrispondenza Romana
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ECCO PERCHE' NON VOTARE MERCEDES BRESSO, PRESIDENTESSA DELLA REGIONE PIEMONTE
Autore: Massimo Introvigne - Fonte: Libero
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SONO PIU' NOIOSE LE OMELIE DEI PRETI O LE OMELIE DEI GIORNALI?
Autore: Antonio Socci - Fonte: Libero
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ECCO DOVE SBAGLIA CHI VUOLE SALVARE CON LA TEOLOGIA L'EVOLUZIONISMO DI DARWIN (CHE NON RIESCE A PORTARE NEANCHE UNA PROVA SCIENTIFICA)
Autore: Roberto de Mattei - Fonte: Il Foglio
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L'INFORMAZIONE LIBERA SULLA RETE, VERA SPINA DEL REGIME CINESE
Autore: Bernardo Cervellera - Fonte: Avvenire
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BENEDETTO XVI E PIO XII, VITTIME DEL PREGIUDIZIO IDEOLOGICO
Autore: Bernard-Henri Lévy - Fonte: Il Corriere della Sera
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OMELIA PER LA IV DOMENICA TEMPO ORDINARIO - ANNO C - (Lc 4,21-30)
Fonte: Il settimanale di Padre Pio
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COSA DIRE DI FRONTE A UNA CATASTROFE? PERCHE' C'E' IL MALE?
Fonte I tre sentieri, 16 gennaio 2010
Dinanzi alle catastrofi molti credenti restano interdetti. Non sanno rispondere a se stessi e a maggior ragione non sanno rispondere agli altri. Vediamo allora come va affrontato il discorso. Elenchiamo tre possibili risposte. La prima è errata. La seconda è insufficiente. La terza è quella corretta. Iniziamo dalla prima. 1.La sofferenza è sempre frutto degli errori umani. Una simile affermazione è sbagliata. Se è vero che la sofferenza è entrata nel mondo in conseguenza del peccato originale, è pur vero che non si può assolutizzare questa convinzione per le singole sofferenze. Così come non si può escludere Dio dalle origini delle singole sofferenze. Bisogna infatti tener presente che se è vero che tutto ciò che accade non necessariamente è voluto da Dio, è pur vero che tutto ciò che accade è necessariamente permesso da Dio. All’indomani dello tsunami del 2005, in televisione, un anziano cardinale, alla domanda se quella immane tragedia fosse potuta essere un castigo divino, rispose categoricamente di ‘no’, ma che tutto doveva essere spiegato con i movimenti tipici dello Terra. Ora, oltre al fatto che Dio può anche castigare, va detto che Dio stesso non era certo “distratto” nel momento in cui accadeva quella immane tragedia. 2.Dinanzi alla sofferenza è possibile solo il silenzio. Spesso si afferma che dinanzi alla sofferenza non bisogna parlare, non bisogna spiegare, ma solo fare silenzio: piangere con chi piange. Certamente la sofferenza si configura come un mistero. Ma attenzione: si configura come un mistero in merito alle singole risposte, non certo alla Risposta. Più semplicemente: quando accade una tragedia, sfugge certamente il singolo significato, ma non il Significato con la “S ” maiuscola, ovvero il fatto che comunque quella sofferenza trova un senso in Dio e nella sua permissione. 3.Contemplare e rispondere: la dimensione dell’eterno. La posizione giusta è invece un’altra. E’ prima di tutto quella di contemplare il Crocifisso: capire quanto, nel Cristianesimo, Dio non si limita a consolare sulla sofferenza, ma Egli stesso ne fa vera esperienza. Dio poteva scegliere un’altra strada, ma ha scelto la sofferenza. E l’ha scelta non solo per le sue creature, ma anche per Sé. Egli stesso si è messo a capo e ha preso la Croce: “Chi vuol seguirmi, rinneghi se stesso (via purgativa), prenda la sua croce (via illuminativa) e mi segua (via unitiva).” (Matteo 16,24) Attenzione però: questo contemplare deve essere accompagnato anche da una spiegazione. L’intelligenza esige argomenti, e fin dove è possibile non si può trascurare questa esigenza. Non basta dire: dinanzi alla sofferenza si può solo far silenzio. Qui entra in gioco la cosiddetta Teologia della Croce e –diciamolo francamente- viene chiamato in causa anche il fallimento dell’annuncio cristiano che si è imposto negli ultimi tempi. Bisogna infatti recuperare la prospettiva dell’eternità come prospettiva dominante, ovvero il fatto che il cristiano deve convincersi che questa vita è solo un passaggio ed una “preparazione” per ciò che sarà davvero la vera vita, quella del Paradiso che consisterà nel “possesso” di Dio. Insomma, guardare le cose sub species aeternitatis, cioè nella prospettiva dell’eternità. Dio, quando permette la sofferenza degli innocenti, è perché sa che quella sofferenza non solo è un’occasione per la salvezza propria e degli altri, ma è anche un “nulla” rispetto all’immensa gioia del Paradiso. Ciò che invece si è fatto strada negli ultimi tempi è una vera “paganizzazione” dell’annuncio cristiano, laddove le reali preoccupazioni sembrano essere quelle terrene e sociali…quasi a convincersi che, tutto sommato, l’unica nostra possibilità di gioia è su questa terra. Benedetto XVI, nella sua Lettera ai Vescovi in merito al ritiro della scomunica ai vescovi ordinati da mons.Marcel Lefebvre, del 10.3.2009, ha scritto queste testuali parole: “Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più.” Dunque, il vero problema non è l’inquinamento atmosferico, né tantomeno la guerra o altro: ma la perdita di Dio e della Vita di Dio, cioè della Grazia. In conclusione vanno tenute in considerazione tre cose. A) Vivere nella prospettiva dell’eternità non vuol dire dimenticarsi di lavorare per il miglioramento di questa vita e per il servizio ai fratelli. Il servizio acquista senso proprio nella consapevolezza di rendere conto a Dio. Se tutto finisce con la morte, l’uomo inevitabilmente tende all’egoismo: a che pro sacrificarsi? Meglio gestire la propria vita nel perseguimento del potere, piuttosto che in quello del servizio. B) Vivere nella prospettiva dell’eternità non vuol dire non apprezzare la bellezza della vita terrena. Anzi, proprio quando pretendiamo convincerci che questa vita è “tutto”, essa diventa un inferno: nella constatazione del contrasto insanabile tra il desiderio di perenne felicità, che ci portiamo nel cuore, e la precarietà inevitabile che la vita terrena ci offre. Colui che ateo teoricamente (non crede in Dio) o praticamente (crede in Dio, ma agisce come se Dio non ci fosse) non può mai avere la gioia. Se infatti sta vivendo un qualcosa di bello, già lo preoccupa la possibilità di perdere ciò che sta vivendo; e questa stessa preoccupazione lo inquieta. Se invece sta vivendo un disagio, tende a disperarsi, perché è costretto a soffrire senza alcuna speranza che quella sofferenza abbia un senso e possa essere convertita in gioia eterna. C) Un annuncio cristiano che dimentichi tutto questo, perché –si ritiene- possa dare un’immagine di Dio troppo severa, finisce paradossalmente con l’ammettere davvero una possibile “cattiveria” di Dio. Se infatti il messaggio che implicitamente si trasmette è quello per cui la vera felicità è su questa terra, verrebbe allora da chiedersi: perché Dio permette che muoia un bambino e che, per esempio, rimanga in vita un delinquente? Leggiamo questo passo del Vangelo: “(…)quei diciotto, sopra i quali rovinò la Torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo.” (Luca 13, 4-5) Gesù dice chiaramente che chi è vittima di una catastrofe non necessariamente è più peccatore degli altri; ma è come se aggiungesse: voi, adesso vi preoccupate di stabilire se coloro che sono morti nel crollo della Torre di Siloe fossero o meno peccatori, ma non pensate che esiste una morte molto peggiore di questa, che è – appunto - la morte eterna.
Fonte: I tre sentieri, 16 gennaio 2010
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BELLA: UN INNO ALLA VITA DI RARA EFFICACIA
Se vuoi far ridere Dio, raccontagli i tuoi progetti
Autore: Loretta Bricchi Lee - Fonte: Avvenire, 11 novembre 2007
Romantico, a tratti drammatico, introspettivo, per molti è il film ´cristiano´ dell’anno e un inno alla vita di rara efficacia. Si tratta di Bella, diretto da Alejandro Gomez Monteverde e appena uscito nelle sale cinematografiche americane. Un’opera singolare per almeno due aspetti: girata in tre settimane con un budget di appena tre milioni di dollari, nel 2006 ha conquistato a sorpresa il prestigioso «People’s Choice Award» del Festival di Toronto, vincendo la concorrenza di The Departed di Martin Scorsese e The Queen di Stephen Frears; inoltre non è nata nei soliti circuiti, ma nell’ambito del movimento Regnum Christi, braccio laicale della congregazione dei Legionari di Cristo, a cui fanno riferimento i tre fondatori della casa di produzione Metanoia Films. La storia è ambientata nella New York di oggi. José (Eduardo Verástegui) vede interrompersi la carriera nel football professionistico. Finisce a lavorare come cuoco nel ristorante messicano di suo fratello Manny (Manuel Perez), nella Grande Mela. Lì assiste al brutale licenziamento, a causa dell’ennesimo ritardo, di una cameriera, Nina (Tammy Blanchard). José la segue fuori dal locale per offrirle conforto e viene a sapere che, senza un marito, Nina ha appena scoperto di essere incinta. E per questo sta pensando di abortire. La giornata che José decide di passare con la ex collega si trasforma in un viaggio interiore alle radici del proprio dolore. L’amicizia che nasce quasi per caso cambierà nel giro di poche ore la vita di entrambi i protagonisti. Nina capisce con l’aiuto di José il valore del bambino che porta in grembo. José attraverso Nina coglie l’unicità della propria esistenza che si stava lasciando sfuggire fra delusione e rimorsi. Il finale dischiude il significato, fin lì incomprensibile, del titolo Bella. La qualità cinematografica e il contenuto pro-life del film hanno spinto il cardinale Justin Rigali, arcivescovo di Filadelfia e presidente del comitato per la difesa della vita della Conferenza episcopale statunitense, a scrivere ai vescovi americani incoraggiandoli a ospitare proiezioni di Bella e a diffonderne il messaggio. «La maggior parte dei film seguono trame prevedibili» ha commentato Wendy Wright, leader di Concerned Women for America, « Bella, come la vita reale, ti sorprende con un racconto sottile ma profondo, di eccezionale grazia». E la rete dei blog e siti cattolici americani ha iniziato un passaparola che non si vedeva dai giorni di The Passion. A rendere per alcuni il film ulteriormente accattivante è un elemento autobiografico che unisce il personaggio di José all’attore Eduardo Verástegui. Già cantante del gruppo di pop latino Kairo e fascinoso protagonista di soap opera in Messico, nel 2000 Verástegui tenta il successo a Miami, dove Jennifer Lopez lo chiama a recitare la parte dell’amante gitano nel videoclip di Ain’t So Funny. Arrivano presto proposte di parti da recitare, per lo più in commedie leggere come Chasing Papi (2003), ma anche un senso di profonda insoddisfazione, che si tramuta in una vera e propria crisi esistenziale. Provocato dall’esempio del proprio insegnante privato di inglese, Verástegui si avvicina quindi alla fede cattolica. L’incontro con un sacerdote dei Legionari di Cristo, padre Juan Rivas, attivo a Hollywood, e la lettura del libro Rome sweet home (traduzione italiana: Roma dolce casa, edizioni Ares) dello scrittore cattolico (ex protestante) Scott Hahn fanno il resto. Da lì, per il Brad Pitt messicano, idolo di migliaia di teenagers latinoamericane, inizia una nuova vita, anche professionale. Verástegui incontra prima il regista in erba Alejandro Monteverde, poi Leo Soverino, un avvocato della Fox Entertainment che resta incuriosito nel vedere quella sorta di muscoloso fotomodello che partecipa con fervore alla messa della sua parrocchia di Los Angeles. I tre decidono di fondare la Metanoia Films e di raccontare una storia fuori dai canoni commerciali, una storia «su come il dolore di due persone possa diventare la salvezza di entrambi – ha detto Monteverde – sull’amore come sacrificio di sé». E a loro si aggiunge, come produttore esecutivo, Steve McEveety, già produttore con Mel Gibson di Braveheart e La Passione di Cristo. È così che nel 2004 nasce il progetto di Bella. Un film che secondo alcuni potrebbe addirittura puntare a un Oscar, ma che Eduardo Verástegui dice di avere in realtà già vinto. Durante le fasi preliminari del film, l’attore si era recato in una clinica dove si praticavano aborti per poter studiare da vicino le emozioni di chi sta per compiere un gesto così fatale. Lì aveva fatto amicizia con una coppia messicana. Alcuni mesi più tardi, ha ricevuto una telefonata in cui padre e madre gli hanno chiesto il permesso di chiamare il bambino appena nato Eduardo. http://www.filmgarantiti.it/it/edizioni.php?id=18
Fonte: Avvenire, 11 novembre 2007
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DIO E LA MATEMATICA: AMICI INSEPARABILI
Alla faccia di Odifreddi e compagni
Fonte Corrispondenza Romana, 9 Gennaio 2010
Come si sa, non sono affatto rari gli scienziati credenti (si va, per limitarci ai contemporanei, da Enrico Medi ad Antonino Zichichi, da Francis Collins a Jerome Lejeune, da Guglielmo Marconi a Tony Hewish, da Giovanni Prodi a Ennio De Giorgi), più rari sono coloro che hanno il coraggio di dirlo pubblicamente, specie nell’attuale contesto di cristianofobia in cui, a professare apertamente le verità dogmatiche e morali insegnate dalla Chiesa, si rischia l’emarginazione, il dileggio e perfino l’allontanamento da questo o quel pubblico ufficio. Il matematico Antonio Ambrosetti, docente a Trieste dopo aver lavorato a Chicago, Parigi, Bonn, Losanna, Madrid e Brema, socio dei Lincei, consulente dell’Unesco, dottore honoris causa, ha voluto dedicare un libretto al rapporto tra scienza e fede, mostrando in particolare che la sua specialità, la matematica, in nessun modo si oppone all’ammissione dell’esistenza di un Sommo Creatore e Reggitore dell’universo (A. Ambrosetti, La matematica e l’esistenza di Dio, Lindau, 2009, 11 €). Scrive l’Autore in apertura del saggio: «Tempo fa una studentessa di giornalismo scientifico mi fece un’intervista. Abbiamo parlato della mia passione per la Matematica, degli argomenti delle mie ricerche e dei riconoscimenti ricevuti dalla comunità internazionale. A un certo punto, non ricordo bene perché (forse avevo fatto io un breve accenno, forse era stata colpita dal crocifisso che è in bella evidenza nel mio ufficio alla Sissa, alle spalle della mia scrivania) la ragazza mi chiese se fossi un credente. Alla mia risposta affermativa, domando: “Ma come fa, uno scienziato, anzi un matematico come lei, a credere in Dio?” Le risposi stupito, forse anche un po’irritato, che l’equazione razionalità = ateismo è del tutto errata, come è dimostrato dal grande numero di illustri pensatori del passato e del presente, grandi matematici compresi» (p. 9). L’autore racconta nel saggio la sua propria esperienza, prima come studente poi come docente, presso la Normale di Pisa, università in cui ebbe come punti di riferimento i matematici Giovanni Prodi ed Ennio De Giorgi. Entrambi eminenti scienziati e aperti credenti: «Questi due matematici possono essere visti come esempi paradigmatici di grandi scienziati cristiani in cui Matematica e fede in Dio hanno convissuto in modo straordinario» (p. 25). Il primo diede vita a Pisa ad un gruppo cattolico per la cultura ed ebbe una fede «ragionata, molto razionale, meditata, non superficiale» (p. 23), il secondo aveva una fede più intima, amava il Vecchio Testamento ed «era pieno di una grande carità per gli umili e i sofferenti», i quali lo aspettavano davanti l’Università per avere qualcosa! (p. 24). In ogni caso è assurdo che noi cristiani, figli di una società bimillenaria come la Chiesa cattolica, che ha avuto eccellenti maestri in ogni campo dello scibile – anche i più lontani dalla sua missione che è essenzialmente spirituale e soprannaturale, si pensi alla Specola Vaticana o al gesuita italiano Angelo Secchi († 1878), fondatore dell’astrofisica – ci lasciamo intimidire davanti alle pretese di superiorità razionale e scientifica dell’arrogante e ipocrita laicismo odierno.
Fonte: Corrispondenza Romana, 9 Gennaio 2010
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ECCO PERCHE' NON VOTARE MERCEDES BRESSO, PRESIDENTESSA DELLA REGIONE PIEMONTE
Autore: Massimo Introvigne - Fonte: Libero, 8 gennaio 2010
L'attuale presidentessa della Regione Piemonte, candidata alla riconferma, offre il raro esempio di una vita tutta consacrata al servizio di quel processo di negazione teorica e pratica delle verità naturali e cristiane che la scuola cattolica contro-rivoluzionaria chiama Rivoluzione. Da questo punto di vista, l'esempio è da manuale e il rilievo del personaggio è nazionale. “Non sono interessata a partecipare a questa corsa per accreditarsi verso il mondo cattolico. Non sono credente e non ho cambiato idea. Se mai decidessi di convertirmi, ma lo escludo, non abbraccerei certo la religione cattolica. Diventerei valdese, Perché i Valdesi hanno il senso della differenza tra fede e morale religiosa e il ruolo dello Stato. Fede e morale religiosa sono un fatto privato”. Sono affermazioni di Mercedes Bresso, candidata alla riconferma alla presidenza della Regione Piemonte, in una famosa intervista a "La Stampa" del 30 settembre 2005. “Ero seria, non era una provocazione”, ha confermato la Bresso – con riferimento alla battuta sui Valdesi – confessandosi al "Corriere della Sera" del 24 febbraio 2009. L’anticlericalismo della “zarina”, come la chiamano a Torino per il piglio autoritario, viene da lontano. Da un’antica militanza radicale e dalla collaborazione con Emma Bonino quando quest’ultima – racconta la Bresso – “era vicepresidente del CISA, l’associazione che assicurava alle donne diritto all’aborto”: “con Franca Rame facemmo una dichiarazione di aborto. Fummo incriminate per autocalunnia” (intervista a "Gay TV", 5.6.2009). Scelte confermate da una vita privata francamente rivelata nelle interviste: “Mi sono sposata due volte. Entrambe con rito civile” (ibid.). “Non ho figli perché non ne ho voluti. Sensi di colpa? Pas du tout” ("Corriere della Sera", 16.4.2008). Nonostante gli sforzi dell’UDC, il prodotto Bresso risulta invendibile a una Chiesa piemontese che non sembra davvero intenzionata a salire sulla Mercedes. Su tutti i temi che il Papa indica come “non negoziabili” – e che invita a far prevalere nelle scelte politiche su ogni altro argomento – le posizioni della Bresso sono antitetiche a quelle cattoliche. Radici cristiane, identità? No: “Stato laico come garanzia di una società sempre più multiculturale e multireligiosa. Su questo non sono disposta a transigere” ("La Stampa", 30.9.2005). Come logica conseguenza, abolizione del Concordato: “I Patti Lateranensi?... Sì, sarebbe il momento di abolirli” ("Corriere della Sera", 24.2.2009). Aborto? Dalla vecchia militanza con Emma Bonino e Franca Rame, la Bresso è passata alla battaglia per la RU486. “La scelta della pillola abortiva rientra fra le opzioni previste da una legge dello Stato, la 194. Una soluzione dal punto di vista medico che permette alle donne di soffrire di meno” ("La Stampa", 30.9.2005), dichiara la zarina, benché giuristi e medici smentiscano tutte e due queste affermazioni. E la Bresso non bada a spese (dei contribuenti) pur di promuovere la pillola che uccide, senza ricovero ospedaliero: “Sono contraria all’obbligo di ospedalizzazione, una volta assunta la pillola abortiva Ru486, per le donne che decidono di interrompere la gravidanza. Sono convinta che, sotto il profilo etico, non ci siano differenze tra l’interruzione di gravidanza terapeutica e quella farmacologica. Da questo punto di vista, un eventuale aggravio di costi per la Regione è del tutto indifferente” (dichiarazione del 6.8.2009, sul suo sito). Caso Eluana? A suo tempo la Bresso si è offerta per farle sospendere l’alimentazione e l’idratazione in Piemonte: “Ovviamente saranno utilizzate strutture pubbliche perché quelle private sono sotto scacco del ministro [Sacconi]” ("La Stampa", 20.1.2009). “Tutti sappiamo che la vita di Eluana è artificiale. Si sostiene che alimentazione e idratazione non sono trattamenti medici e questo è un falso” ("L’Unità", 23.1.2009). E alle critiche del cardinale arcivescovo di Torino Severino Poletto ha risposto: “A Poletto, che richiama i medici cattolici alla obiezione di coscienza, chiedo: quale è la differenza tra l'Italia di oggi e gli stati clericali, come quello degli Ayatollah?” ("Repubblica", 22.1.2009). “Il disporre della propria vita e della propria morte rappresenta un diritto di libertà assoluto per l’individuo” (appello della sorella della zarina, Paola Bresso, condiviso e diffuso sul proprio sito dalla presidente il 4.3.2009). Le posizioni del centro-destra e della Chiesa sono liquidate come “assurdità e “sciocchezze” perché Eluana fa parte di una “coorte crescente di persone che non sono più né vive né morte e che in qualche modo trascinano i vivi con sé verso la morte, verso la disperazione” (video diffuso sul sito, 22.4.2009). Famiglia? “Era seria quando ha detto che il gay pride vale una processione religiosa? «Possono essere entrambe manifestazioni di orgoglio identitario»” ("Corriere della Sera, 24.2.2009"). A "La Stampa" la Bresso dichiara che per le coppie omosessuali “per quanto riguarda la Regione ci muoveremo per garantire pari opportunità a tutti i cittadini e per combattere ogni discriminazione” (30.9.2005). Che cosa questo significhi davvero lo rivela al canale omosessuale "Gay TV": “PER IL MOMENTO [maiuscole mie] credo si debba introdurre un provvedimento simile al Pacs che garantisca diritti veri. In prospettiva, compatibilmente con il necessario cambiamento culturale, credo che si debba pensare ad un riconoscimento vero e proprio come il matrimonio” (5.6.2009). No, la Chiesa non salirà sulla Mercedes. Del resto, la Mercedes non la vuole. La Chiesa – si legge nell’appello redatto dalla sorellina Paola, sottoscritto e diffuso dalla Bresso il 4 marzo 2009 – è un’istituzione che vuole “imporre agli altri il proprio punto di vista, chiamato anche «verità»”. La zarina lancia il suo appello contro la presunta “trasformazione del ruolo pubblico della religione in offensiva politica da parte delle gerarchie ecclesiastiche” (ibid.). Cattolici: comprereste una Mercedes usata da questa signora? Postilla: Qualche amico politicamente perplesso cui ho anticipato il testo mi ha risposto: "D'accordo. Ma il centro-destra non candida forse in Piemonte un esponente della Lega? E la Lega non è in contrasto con la Chiesa sull'immigrazione?". A questa domanda sul piano dei principi per fortuna non devo rispondere io. Ha già risposto la Congregazione per la Dottrina della Fede, allora presieduta dal cardinale Joseph Ratzinger, in una lettera ai vescovi degli Stati Uniti in occasione della campagna elettorale del 2004 (http://www.cesnur.org/2004/04_ratzinger.htm). Qui si contrapponevano democratici - quasi tutti abortisti, molti favorevoli all'eutanasia e molti contrari alla guerra in Iraq e alla pena di morte - e repubblicani, il cui partito era a maggioranza contro l'aborto e l'eutanasia ed era anche tutto favorevole alla guerra in Iraq e alla pena di morte. Superficialmente si sarebbero potute considerare le due posizioni dal punto di vista dei cattolici sullo stesso piano: il Papa (allora Giovanni Paolo II) era naturalmente contrario all'aborto e all'eutanasia ma era contrario anche alla guerra in Iraq e alla pena di morte. Ma sarebbe stato un errore, spiegava la Congregazione per la Dottrina della Fede, senza fare nomi di partiti ma enunciando i principi. Infatti "ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici sul fare la guerra e sull’applicare la pena di morte, non però in alcun modo riguardo all’aborto e all’eutanasia". Quelli in materia di vita e di famiglia sono "principi non negoziabili" e obbligatori in modo assoluto per tutti i cattolici. Il resto - che comprende questioni gravissime come la guerra e la pena di morte e dunque senz'altro l'atteggiamento sull'immigrazione - è materia "negoziabile" su cui "ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici". Questo per quanto riguarda il principio. Quanto al fatto, occorrerebbe studiare meglio il complessivo magistero della Chiesa in tema d'immigrazione, che non coincide con le dichiarazioni del tale o talaltro monsignore. Si dirà che il centro-destra avanza talora tesi scandalose come quella secondo cui sarebbe meglio aiutare gli immigrati a casa loro anziché farli venire in così gran numero da noi. Tesi come questa, forse? "La soluzione fondamentale [al problema dell'immigrazione] è che non ci sia più bisogno di emigrare, perché ci sono in Patria posti di lavoro sufficienti, un tessuto sociale sufficiente, così che nessuno abbia più bisogno di emigrare. Quindi, dobbiamo lavorare tutti per questo obiettivo, per uno sviluppo sociale che consenta di offrire ai cittadini lavoro ed un futuro nella terra d’origine", anziché nella terra d'immigrazione. Solo che queste parole non sono di un esponente del centro-destra italiano. Sono di Benedetto XVI, 15 aprile 2008, sull'aereo che lo portava negli Stati Uniti.
Fonte: Libero, 8 gennaio 2010
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SONO PIU' NOIOSE LE OMELIE DEI PRETI O LE OMELIE DEI GIORNALI?
Autore: Antonio Socci - Fonte: Libero, 10 gennaio 2009
E’ buffo leggere sulla prima pagina della Repubblica una reprimenda di Giancarlo Zizola contro le omelie dei preti. Proprio quella stessa prima pagina che ogni domenica, da anni, contiene interminabili e illeggibili omelie di Eugenio Scalfari. Se sono noiose e logorroiche le omelie clericali (e lo sono spesso) non sono migliori quelle anticlericali: penso non solo a Scalfari o a Pannella su Radio radicale, ma a molti altri che moraleggiano col ditino alzato sui giornali, come Claudio Magris o Barbara Spinelli, per citarne solo due. Se dai pulpiti piove uggiosa insignificanza (ed è vero!), dalle pagine dei giornali, con gli articoli di certi soloni, diluvia il tedio, sottoforma di banalità, di pregiudizio astioso, di sussiegoso moralismo e di ideologia. Del resto i giornali sono pronti per incartare l’insalata ai mercati già quando escono dalla tipografia. Dunque “se Sparta piange, Atene non ride”. Però fermarsi qui sarebbe un’autoconsolazione sciocca. Piuttosto i due fenomeni – l’omiletica clericale e quella anticlericale – sono simmetrici ed evidenziano la desolante incapacità generale di cogliere e comunicare davvero il senso del vivere, del morire, dell’amare, del soffrire, il senso dei fatti della cronaca e il senso della storia. Il colmo poi è che Zizola indichi ai preti come esempio da seguire il cardinal Martini la cui predicazione, ora pure sul Corriere della sera, appare – con tutto il rispetto – singolarmente fumosa, stanca e (sul piano dottrinale) ambigua. E’ uggiosa come un pomeriggio piovoso di novembre (almeno per chi scrive). Se è giusto lamentare che i predicatori di oggi dimenticano i fondamentali (inferno, morte eterna, purgatorio, paradiso), se è giusto lamentare – come pare faccia perfino Zizola – che dimenticano “la verità centrale della fede cristiana, la Resurrezione”, non risulta che Martini faccia eccezione. Anzi. Eppure Zizola sostiene nientemeno che il più efficace tentativo di “riqualificare la predica” di questi decenni della Chiesa sia rappresentato dalla cosiddetta “Scuola della Parola tenuta dal cardinal Martini nel Duomo di Milano”. Francamente a me non risulta che da quella remota (e dimenticata) iniziativa di Martini sia sorto un movimento di conversione che ha cambiato il volto di Milano (non conosco una sola persona che si sia convertita ascoltando Martini). Anzi, mi risulta che il bilancio della cristianità milanese degli ultimi decenni sia drammatico. I movimenti di rinascita cristiana (che ci sono, forti, a Milano) non sono certo nati dalla “Scuola della Parola” di Martini. Ma dalla scuola di vita che tanti santi dei nostri giorni sono, per giovani e non più giovani. Questo mi pare il punto. Soffriamo non una penuria di eloquenti oratori o di biblisti, ma di padri e di santi, quelli che sanno toccare il cuore non (solo) per la capacità di parlare, ma perché loro stessi sono un avvenimento di vita nuova per chi li incontra. Voglio fare un esempio per quanto riguarda la Chiesa. Padre Pio notoriamente non era un grande oratore. Tutt’altro. Le sue omelie erano semplici e scarne: ricordava la verità come è espressa nel Catechismo della Chiesa Cattolica e tanto bastava. Eppure ha smosso milioni di persone, oceani di uomini e donne sono andati da lui e si sono convertiti, spesso cambiando radicalmente vita, per essersi confessati da lui o per aver visto ciò che accadeva alla messa che lui celebrava (riviveva infatti tutta la Passione di Gesù). E’ solo un esempio, ma che basta a capire che la Chiesa non ha bisogno anzitutto di predicatori eloquenti, ma di santi. Infatti Benedetto XVI ha dedicato questo “anno sacerdotale” non a un grande oratore, ma a un uomo umile (e grande) della provincia francese, il santo Curato d’Ars, indicato come esempio per ogni sacerdote. Non per l’omiletica, ma perché era un vero uomo di Dio. Perché quello che manca oggi nella Chiesa, come diceva un saggio maestro, “non è la ripetizione letterale dell’annuncio, ma l’esperienza di un incontro”. Un incontro che ti fa sentire “la carezza del Nazareno”. Spesso è un incontro che manca agli stessi sacerdoti. Che è fin troppo facile criticare: tutti infatti li criticano, pochi, anche fra i cristiani, pregano per loro o stanno loro vicini. E dunque spesso i sacerdoti di fronte al problema dell’omelia cercano di cavarsela buttandola in politica o in sociologia spicciola. Perciò si sentono tante confuse omelie improntate ai buoni sentimenti politically correct, all’etica sociale, ai valori, al “dover essere” e via dicendo. Spesso i preti finiscono per scopiazzare le omelie dei santoni laici che pontificano dalle pagine dei giornali. In certe prediche di Natale per esempio la sovrapposizione fra omelie e articoli moraleggianti è quasi perfetta. Penso all’editoriale di Claudio Magris uscito sul Corriere della sera alla vigilia di Natale. Tutta una filippica contro la gente che si scambia regali ed è contenta per il Natale. Magris ha in gran dispetto la gente contenta. Per farli sentire in colpa inizia il suo articolo citando nientemeno un giornale del Perù (o c’è andato in vacanza da poco o pensa che il Perù sia il centro del mondo). Il suddetto giornale peruviano avrebbe rilevato che in Perù sotto Natale aumentano i suicidi (ma siamo sicuri che in un paese così disastrato non abbiano altri motivi per suicidarsi che il consumismo natalizio?). Oltre a quel “famosissimo” giornale Magris citava un’altra fondamentale fonte di riflessione: “il giornaletto di un liceo di Schio, dove mi è capitato di leggere l’articolo di una ragazzina che protestava contro lo sciagurato dovere di fare regali di Natale, che rende quella settimana più affannosa di ogni altra”. Riferimenti forti, come si vede, pensieri profondi… Più o meno con geremiadi del genere dai pulpiti natalizi si sentono puntualmente invettive contro il consumismo dei regali, perché si ritiene che si debbano sempre affliggere i fedeli con i sensi di colpa, invece di donare loro la gioia – almeno a Natale – di una grande notizia, del grande regalo che Dio ha fatto all’uomo: se stesso. Il re del mondo è venuto qui, a salvarci, ma il parroco liquida la notizia in due parole perché ritiene più importante romperti le scatole sul consumismo. Eppure non occorre una grande oratoria per annunciare al mondo questa grande notizia, quella che dà la vera felicità. Non serve una gran dialettica, basterebbe un uomo commosso. Anche se balbettasse solo poche parole, dicendo “amico, non essere più triste, è nato il tuo Salvatore!”, la sua commozione folgorerebbe i nostri cumuli di disperazione. Farebbe respirare. Sarebbe la carezza del Nazareno al nostro povero cuore. Che è l’omelia più bella.
Fonte: Libero, 10 gennaio 2009
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ECCO DOVE SBAGLIA CHI VUOLE SALVARE CON LA TEOLOGIA L'EVOLUZIONISMO DI DARWIN (CHE NON RIESCE A PORTARE NEANCHE UNA PROVA SCIENTIFICA)
Autore: Roberto de Mattei - Fonte: Il Foglio, 29 dicembre 2009
Come ogni polemica, anche quella in corso sull’evoluzionismo è rivelatrice. La virulenza verbale degli anticreazionisti porta alla luce l’essenza teofobica del loro pensiero. Il silenzio dei principali organi di stampa cattolici rivela a sua volta l’imbarazzo di chi si illude di trovare un compromesso tra due realtà incompatibili: creazione ed evoluzione. Il teo-evoluzionismo, ovvero il tentativo di conciliare la fede cattolica con la teoria dell’evoluzione, caratterizza quella corrente che Pievani, con irrisione, definisce «darwinismo ecclesiastico» (cfr. il saggio dallo stesso titolo di Orlando Franceschelli e Telmo Pievani, su “Micromega” 4/2009, pp. 108-116). I “teo-darwinisti”, accreditati come “esperti” di gran parte del mondo cattolico, condividono la teoria dell’evoluzione e cercano anzi di offrirle una ciambella di salvataggio che però i darwinisti “puri”, come Pievani e Odifreddi, sprezzantemente rifiutano. La contraddizione è destinata ad esplodere. L’evoluzionismo “ortodosso”, darwiniano e neo-darwiniano, non è una corrente scientifica, ma una lobby filosofica atea e materialista che, da quando apparve l’Origine delle specie di Darwin (1859), non è ancora riuscita a produrre una sola prova a suffragio della sua teoria. Due “salti” della presunta catena evolutiva risultano in particolare indimostrabili dalla scienza: il passaggio dalla materia inerte alla vita e quello dall’animale all’uomo pensante. Solo un “miracolo” può salvare la teoria dell’evoluzione. Ed è qui che entrano in scena i teo-evoluzionisti, affermando che grazie ad un diretto intervento divino si sarebbero accese la prima scintilla della vita della materia e la seconda scintilla della coscienza nell’ “ominide”. Ciò che è impossibile alla scienza sarebbe possibile grazie all’intervento miracoloso di Dio. Per avere un’idea delle posizioni teo-evoluzioniste, basta attingere ai libri di Francisco J. Ayala, Il dono di Darwin alla scienza e alla religione (San Paolo, Milano 2009, pp. 308), con prefazione di Fiorenzo Facchini e, dello stesso Facchini, Le sfide dell’evoluzione. In armonia tra scienza e fede (Jaca Book, Milano 2008, pp. 174). Ayala è un ex-sacerdote, Facchini un monsignore-paleontologo. Entrambi sono discepoli del nebuloso gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), attraverso la mediazione di Theodosius Dobzhansky (1900-1975), un biologo russo-americano, di cui Ayala fu assistente. Secondo Facchini, la darwiniana trasformazione delle specie è una “verità scientifica”, anche se il rifiuto evoluzionista della creazione sembra a lui «un passo decisamente troppo lungo per essere vero» (“Osservatore Romano”, 30 settembre 2009). Si tratta dunque di trovare l’arduo accordo tra fede ed evoluzione. Come Teilhard, che citano ad ogni piè sospinto, Facchini ed Ayala ritengono che l’uomo sia fatto della stessa “stoffa” dell’universo e degli altri viventi: materia in evoluzione. In questo processo evolutivo, come spiega il gesuita francese, l’ “ominizzazione” rappresenta il punto di arrivo (la “freccia”) della evoluzione dei viventi: l’uomo è l’evoluzione diventata cosciente di sé stessa, l’ “autocoscienza” della materia. Il culmine del processo non è tuttavia l’uomo, ma il “Cristo cosmico”, il “punto omega”, vertice di convergenza evolutiva dell’universo materiale. Teilhard compendia il suo credo panteista in un celebre “Inno alla Materia” che capovolge il Cantico delle creature di san Francesco. Il poverello di Assisi, contemplando le creature materiali, risaliva a Dio creatore dell’universo, mentre Teilhard divinizza la materia, rivolgendole queste parole: «Benedetta sii tu potente Materia, Evoluzione irresistibile, Realtà sempre nascente, tu che spezzando ad ogni momento i nostri schemi ci costringi ad inseguire, sempre più oltre, la Verità (…) Tu che ferisci e medichi – tu che resisti e pieghi – tu che sconvolgi e costruisci – Linfa delle nostre anime, Mano di Dio, Carne del Cristo, o Materia, io ti benedico» (Inno dell’Universo, Queriniana, Brescia 1992, pp. 48-50). Per salvare la cosmogonia evoluzionistica, i teo-darwinisti sono costretti a negare frontalmente quanto San Paolo proclamò all’Areopago di Atene: «Dio trasse da uno solo tutta la stirpe degli uomini» (Atti 17, 26). Gli evoluzionisti cattolici negano infatti la rivelazione scritturale di Adamo ed Eva come unici progenitori dell’umanità, accettando il poligenismo evoluzionista, che postula la contemporanea apparizione di uomini in varie parti della terra. La Chiesa però ha sempre e solo insegnato il monogenismo. Su questo punto, il Concilio Vaticano II ha confermato il Concilio di Trento (sess. 5, can. 2), affermando che da un solo uomo, Adamo, Dio ha prodotto l’intero genere umano (Gaudium et Spes, 22; Lumen Gentium, 2). La ragione è evidente, ed è lo stesso Odifreddi, ex seminarista, a spiegarla alla luce dei suoi studi di gioventù: con la negazione della storicità di Adamo ed Eva, ridotti a metafora collettiva, cade il peccato originale e con questo la necessità dell’Incarnazione di Cristo, Redentore dell’umanità. Con Cristo crolla la Chiesa da Lui fondata e tutti i suoi ministri e rappresentanti (compresi i sacerdoti teo-evoluzionisti). Per questo Teilhard de Chardin venne colpito il 30 giugno 1962 da un monitum del Sant’Uffizio (oggi Congregazione della Dottrina della Fede) mai revocato. Scienza e fede non sono mai in contrasto, a condizione che entrambe siano vere. Qui invece una fede sfigurata cerca di armonizzarsi con una teoria scientifica falsa. La stabilità della specie, negata dall’evoluzionismo, è infatti un’evidenza sperimentabile ad occhio nudo ogni giorno, come il fatto che la terra gira. Nella scala dei viventi esistono specie diverse, dai micro-organismi cellulari all’uomo, ma nessuna può definirsi “imperfetta” o in via di trasformazione. Pier Carlo Landucci, un sacerdote-scienziato che sapeva coniugare scienza e fede, notava giustamente che l’attuale quadro del mondo vivente può essere considerato come un’istantanea del presunto movimento evolutivo. Se la teoria dell’evoluzione fosse vera e la scala delle specie fosse il risultato di un processo perfettivo della natura, il mondo dovrebbe abbondare di specie abbozzate, rudimentali e incomplete, cioè in ritardo rispetto alle singole specie complete verso cui sarebbero avviate (La verità sull’evoluzione e l’origine dell’uomo, Editrice La Roccia, Roma 1984). La prova sperimentale del contrario è sotto i nostri occhi. Ma il teo-evoluzionismo non è solo un errore scientifico e filosofico: è innanzitutto una malattia dello spirito. Da oltre quarant’anni il mondo cattolico si illude di sopravvivere attraverso la via del dialogo e del compromesso. Eppure tutta la storia della Chiesa è la storia di una guerra teologica e culturale combattuta contro gli errori che l’hanno aggredita, dalle prime eresie trinitarie e cristologiche fino al modernismo del Novecento. Benedetto XVI, nelle udienze del mercoledì, ha efficacemente evocato le grandi figure dei Padri e dei Dottori che nel corso dei secoli hanno difeso la Chiesa dagli attacchi esterni ed interni. Possibile che oggi non ci sia un teologo o un uomo di Chiesa disposto a misurarsi con l’evoluzionismo contemporaneo, facendo proprie le parole dello stesso Papa Ratzinger: «Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario» (Benedetto XVI, Omelia per l’inizio del pontificato, 24 aprile 2005).
Fonte: Il Foglio, 29 dicembre 2009
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L'INFORMAZIONE LIBERA SULLA RETE, VERA SPINA DEL REGIME CINESE
Autore: Bernardo Cervellera - Fonte: Avvenire, 23 gennaio 2010
Le diatribe scoppiate in questi giorni fra Google e la Cina e poi fra Washington e Pechino rappresentano un messaggio importante per l’intera comunità internazionale. A metà gennaio, il gigante di Internet ha scoperto che i suoi sistemi cinesi sono stati violati da alcuni hacker locali (forse su commissione del governo di Pechino), i quali sono riusciti a rubare e dati e indirizzi e-mail di dissidenti. Google, a quel punto, ha deciso che la misura fosse colma. La società americana aveva già accettato una buona dose di censura entrando nel mercato cinese nel 2006: filtraggio di contenuti critici sul Partito comunista; cancellazione di materiale concernente Tibet, Taiwan, Falun Gong, persecuzioni religiose... La scelta di Google era stata bollata dai cybernauti come tradimento della libertà della Rete, uno dei principi sbandierati dalla stessa compagnia, che si era difesa dicendo che «un po’ di informazione libera è meglio di niente». Frustrata dalla incontentabile censura di Pechino, Google vuole ora riconsiderare il suo rapporto con le autorità e da una settimana ha tolto ogni filtro alle sue informazioni, con grande gioia di milioni di cinesi che finalmente trovano con facilità notizie sul massacro di Tiananmen, sulle violenze contro il Dalai Lama e gli uiguri, sulle accuse di corruzione al Partito. Fra i cinesi c’è però il timore che il regime non demorda e costringa la società Usa a sottomettersi di nuovo alla censura o a uscire dal Paese. L’iniziativa di Google ha dell’eroico. Fino a ora tutte le compagnie di Internet (Microsoft, Yahoo, Skype, Cisco...) avevano accettato una dose di censura per rimanere sul mercato cinese (384 milioni di utenti). Google si è però accorta che la Cina, come ogni dittatura, non è mai soddisfatta e domanda una sottomissione sempre maggiore. È possibile che dietro l’'umiliazione' delle aziende straniere vi sia il tentativo di dare più spazio a quelle locali, come Baidu, che sta soffrendo per la crisi e mal sopporta la concorrenza. La causa di Google è stata sposata da Hillary Clinton che due giorni fa ha accusato Pechino (e qualche altro Paese) di erigere un 'nuovo Muro di Berlino' su Internet. Il ministero degli Esteri ha riposto con durezza, rivendicando la volontà di seguire le proprie leggi e giudicando l’intervento della Clinton «dannoso» ai rapporti fra Cina e Stati Uniti. Anche per il segretario di Stato si può parlare di 'conversione' o di ripensamento. Solo un anno fa, a Pechino, avevo messo in chiaro che l’Amministrazione avrebbe discusso di tutto con la Cina, ma senza mettere in crisi le relazioni economiche. Tuttavia, forse anche Hillary Clinton si è resa conto che la Cina vuole sempre di più: al silenzio di Washington su Dalai Lama, uiguri e arresti di dissidenti non corrisponde un’apertura altrettanto generosa sull’economia, che resta ancora molto protetta. La vicenda di Google sembra segnare la fine dell’omertà, del tacere le violazioni ai diritti umani in cambio di ricchi contratti. Ci si è accorti che dove la libertà di informazione è minata, prima o poi viene azzoppata anche la libertà di commercio, e che l’unica via per lavorare con Pechino è accettare una solidarietà 'mafiosa'. I più felici di questa diatriba sono gli attivisti per i diritti umani. Molti cinesi, alla notizia della rimozione della censura, hanno inscenato veglie a lume di candela e deposto fiori davanti alla sede pechinese di Google. Vari blogger hanno inneggiato alla società Usa e hanno domandato la libertà per Hu Jia e per Liu Xiaobo, due attivisti condannati a 4 e a 11 anni proprio per aver diffuso su Internet le loro idee di democrazia e l’auspicio della fine del Partito unico. Il controllo sulla Rete è l’unico modo per tenere sottomessa la popolazione e la censura è il metodo per mantenere il potere. L’informazione è potere; la mancanza di informazione sostiene la dittatura.
Fonte: Avvenire, 23 gennaio 2010
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BENEDETTO XVI E PIO XII, VITTIME DEL PREGIUDIZIO IDEOLOGICO
Autore: Bernard-Henri Lévy - Fonte: Il Corriere della Sera, 20.01.2010
Bisognerebbe smetterla con la malafede, il partito preso e, per dirla tutta, la disinformazione, non appena si tratta di Benedetto XVI. Fin dalla sua elezione, si è intentato un processo al suo «ultraconservatorismo», ripreso di continuo dai mass media (come se un Papa potesse essere altra cosa che «conservatore»). Si è insistito con sottintesi, se non addirittura con battute pesanti, sul «Papa tedesco», sul «post-nazista» in sottana, su colui che la trasmissione satirica francese «Les Guignols» non esitava a soprannominare «Adolfo II». Si sono falsificati, puramente e semplicemente, i testi: per esempio, a proposito del suo viaggio ad Auschwitz del 2006, si sostenne e — dal momento che col passar del tempo i ricordi si fanno più incerti — ancor oggi si ripete che avrebbe reso onore alla memoria dei sei milioni di morti polacchi, vittime di una semplice «banda di criminali», senza precisare che la metà di loro erano ebrei (la controverità è davvero sbalorditiva, poiché Benedetto XVI in quell’occasione parlò effettivamente dei «potenti del III Reich» che tentarono «di eliminare» il «popolo ebraico» dal «rango delle nazioni della Terra» Le Monde, 30/5/2006). Ed ecco che, in occasione della visita del Papa alla sinagoga di Roma e dopo le sue due visite alle sinagoghe di Colonia e di New York, lo stesso coro di disinformatori ha stabilito un primato, stavo per dire che ha riportato la palma della vittoria, poiché non ha aspettato nemmeno che il Papa oltrepassasse il Tevere per annunciare, urbi et orbi, che egli non aveva saputo trovare le parole che bisognava dire, né compiuto i gesti che bisognava fare e che dunque aveva fallito nel suo intento… Allora, visto che l’evento è ancora caldo, mi si consentirà di mettere qualche puntino su qualche «i». Benedetto XVI, quando si è raccolto in preghiera davanti alla corona di rose rosse deposta di fronte alla targa commemorativa del martirio dei 1021 ebrei romani deportati, non ha fatto che il suo dovere, ma l’ha fatto. Benedetto XVI, quando ha reso omaggio ai «volti» degli «uomini, donne e bambini» presi in una retata nell’ambito del progetto di «sterminio del popolo dell’Alleanza di Mosè», ha detto un’evidenza, ma l’ha detta. Di Benedetto XVI che riprende, parola per parola, i termini della preghiera di Giovanni Paolo II, dieci anni fa, al Muro del Pianto; di Benedetto XVI che chiede quindi «perdono» al popolo ebraico devastato dal furore di un antisemitismo per lungo tempo di essenza cattolica e nel farlo, ripeto, legge il testo di Giovanni Paolo II, bisogna smettere di ripetere, come somari, che egli è indietro-rispetto-al-suo-predecessore. A Benedetto XVI che dichiara infine, dopo una seconda sosta davanti all’iscrizione che commemora l’attentato commesso nel 1982 dagli estremisti palestinesi, che il dialogo ebraico cattolico avviato dal Concilio Vaticano II è ormai «irrevocabile»; a Benedetto XVI che annuncia di aver l’intenzione di «approfondire» il «dibattito fra uguali» che è il dibattito con i «fratelli maggiori» che sono gli ebrei, si possono fare tutti i processi che si vuole, ma non quello di «congelare» i progressi compiuti da Giovanni XXIII. Quanto alla vicenda molto complessa di Pio XII, ci tornerò, se necessario. Tornerò sul caso di Rolf Hochhuth, autore del famoso «Il vicario», che nel 1963 lanciò la polemica sui «silenzi di Pio XII». In particolare, tornerò sul fatto che questo focoso giustiziere è anche un negazionista patentato, condannato più volte come tale e la cui ultima provocazione, cinque anni fa, fu di prendere le difese, in un’intervista al settimanale di estrema destra Junge Freiheit, di colui che nega l’esistenza delle camere a gas, David Irving. Per ora, voglio giusto ricordare, come ha appena fatto Laurent Dispot nella rivista che dirigo, La règle du jeu, che il terribile Pio XII, nel 1937, quando ancora era soltanto il cardinale Pacelli, fu il coautore con Pio XI dell’Enciclica «Con viva preoccupazione», che ancora oggi continua ad essere uno dei manifesti antinazisti più fermi e più eloquenti. Per ora, dobbiamo per esattezza storica precisare che, prima di optare per l’azione clandestina, prima di aprire, senza dirlo, i suoi conventi agli ebrei romani braccati dai fascisti, il silenzioso Pio XII pronunciò alcune allocuzioni radiofoniche (per esempio Natale 1941 e 1942) che gli valsero, dopo la morte, l’omaggio di Golda Meir: «Durante i dieci anni del terrore nazista, mentre il nostro popolo soffriva un martirio spaventoso, la voce del Papa si levò per condannare i carnefici». E, per ora, ci si meraviglierà soprattutto che, dell’assordante silenzio sceso nel mondo intero sulla Shoah, si faccia portare tutto il peso, o quasi, a colui che, fra i sovrani del momento: a) non aveva cannoni né aerei a disposizione; b) non risparmiò i propri sforzi per condividere, con chi disponeva di aerei e cannoni, le informazioni di cui veniva a conoscenza; c) salvò in prima persona, a Roma ma anche altrove, un grandissimo numero di coloro di cui aveva la responsabilità morale. Ultimo ritocco al Grande Libro della bassezza contemporanea: Pio o Benedetto, si può essere Papa e capro espiatorio.
Fonte: Il Corriere della Sera, 20.01.2010
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OMELIA PER LA IV DOMENICA TEMPO ORDINARIO - ANNO C - (Lc 4,21-30)
Fonte Il settimanale di Padre Pio, (omelia per il 31 gennaio 2010)
La predicazione del Vangelo ha sempre trovato ostacoli. I missionari, sull’esempio di Gesù, sono sempre stati più o meno perseguitati dai nemici della Fede. Vediamo già nella prima lettura che il profeta Geremia si spaventa di fronte al mandato di Dio che lo stabilisce profeta delle Nazioni. Egli sa benissimo che ciò comporta sofferenze e incomprensioni, ma Dio lo rassicura dicendo di non temere: «Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti» (Ger 1,19). Nel Vangelo abbiamo letto come Gesù stesso ha trovato l’opposizione dei suoi compaesani. Il testo del Vangelo dice che «all’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù» (Lc 4,28-29). Così è per tutti quelli che diffondono il Vangelo di Gesù Cristo, l’unica Verità che rischiara le tenebre di questo mondo. Che cosa spinge tanti missionari ad affrontare tanti pericoli, ad esporsi a mille persecuzioni, a rischiare la loro stessa vita e spesso a perderla nei più crudeli martìri? La carità, unicamente la carità, che, come scrive san Paolo nella seconda lettura, «tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13,7). Il pensiero che ci sono tanti fratelli da salvare, che ancora non conoscono Gesù, ha spinto numerose schiere di missionari a versare il loro sangue in sublime testimonianza di amore. Gesù è morto in Croce anche per quei fratelli lontani e così pure noi dobbiamo dare la vita per la loro salvezza. San Francesco d’Assisi ebbe sempre una grande ansia missionaria. Egli stesso voleva recarsi tra i saraceni per annunziare il Vangelo; ma, non potendovi andare, nel 1219 egli inviò sei frati, i santi Berardo e compagni, missionari in Spagna e in Marocco. Arrivati a Siviglia i frati iniziarono a predicare Cristo ai saraceni, ma come risposta ebbero battiture e incarcerazione. I soldati di Cristo non si scoraggiarono, continuarono per la loro missione e raggiunsero il Marocco, sempre animati da questo grande amore per la salvezza delle anime. E qui trovarono la palma del martirio. Il sultano li rinchiuse in prigione e con torture e lusinghe cercò di far loro rinnegare Gesù Cristo. Ma essi non facevano che testimoniare con sempre maggior coraggio la verità del Vangelo, cosicché il sultano, preso da furore, spaccò loro di propria mano la testa a colpi di sciabola. San Francesco quando seppe dell’accaduto esclamò: «Ora io so di avere cinque veri frati!». Il sacrificio di questi martiri entusiasmò per l’Ordine Francescano un giovane portoghese, che più tardi divenne celebre in tutto il mondo: sant’Antonio di Padova. Anche se non avremo la grazia di affrontare il martirio, tante volte troveremo molte difficoltà a compiere il bene. Non scoraggiamoci per questi ostacoli. Dio vede ogni nostro sacrificio, nulla è inutile ai suoi occhi. Anche le nostre sconfitte si cambieranno nelle più esaltanti vittorie, se opereremo sempre per amore di Dio e dei fratelli. La seconda lettura ci parla della carità, la regina delle virtù. Il cristiano si dovrebbe riconoscere per tale proprio dalla carità. Ma si sa quanto sia facile parlarne e, invece, quanto sia difficile metterla in pratica. Bisogna essere caritatevoli nel pensare sempre bene di tutti, nel cogliere il lato positivo che vi è in tutti, nel giudicare bene. Si racconta come un giorno a san Francesco di Assisi portarono un sacerdote, che, al dire della gente, dava scandalo con la sua vita dissoluta. La gente sperava che san Francesco lo riprendesse aspramente. Al contrario, il Santo non diede retta alle chiacchiere, si mise in ginocchio davanti al sacerdote e disse: «Non so se quello che dicono sia vero, una cosa sola so: dalle mani del sacerdote io ricevo il perdono di Dio». Se non siamo sicuri di una cosa non dobbiamo assolutamente dare dei giudizi avventati. Se invece abbiamo la certezza che qualcuno si sia comportato male pensiamo che certamente noi avremmo fatto molto peggio. Facciamo dunque come san Filippo Neri, il quale, quando si accorgeva che un fratello sbagliava in qualche cosa, si umiliava profondamente e diceva: «Se Dio non mi tenesse le mani in testa, io farei molto peggio». Dobbiamo evitare assolutamente le chiacchiere, che tanto offendono la carità fraterna. Si racconta che un giorno san Filippo Neri, a una donna che si era confessata di aver sparlato del prossimo, diede come penitenza di spennare una gallina, di gettare le piume al vento e poi di raccoglierle. La donna rispose che era impossibile raccogliere poi quelle piume disperse dal vento e il Santo soggiunse: «E così è impossibile rimediare a tutto il male che fai con le tue chiacchiere». Dobbiamo essere caritatevoli nelle opere: fare il bene a tutti e farlo bene. Non sono tanto le parole a convertire i peccatori, ma è la carità ad attirare i cuori a Dio. C’era una donna anziana molto malata e purtroppo senza fede, che continuava a lamentarsi e a bestemmiare. Tutti quelli che cercavano di curarla non ricevevano che insulti e parolacce e dopo poco tempo ci rinunciavano e la lasciavano sola. Alla fine solo una suora trovò il coraggio e la forza di assisterla ogni giorno e di non dare retta ai mille insulti con i quali era ripagata. Passavano le settimane e la malata iniziava a cambiare, a diventare più paziente, più buona, finché un giorno disse: «Ora so che Dio esiste, altrimenti chi ti ricompenserebbe per tutto il bene che mi stai facendo?». Ella giunse alla fede per la carità che vide nella suora. Più saremo buoni e tanto più saremo un riflesso di Dio e così tanti nostri fratelli crederanno in Lui.
Fonte: Il settimanale di Padre Pio, (omelia per il 31 gennaio 2010)
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