BastaBugie n�95 del 17 luglio 2009
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SANTA MARIA GORETTI E LA PUREZZA OGGI
Non può esistere un serio combattimento contro i nemici della civiltà cristiana se la purezza non è posta a fondamento
Autore: Plinio Corrêa de Oliveira - Fonte: Messainlatino.it
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L'INGANNO DELLE ONG
L'illuminante caso dei neri del biafra
Autore: Rino Cammilleri - Fonte: Antidoti
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IL PAPA NON È MAI SOLO (NONOSTANTE GLI ATTACCHI DI CHI SI DICHIARA CATTOLICO, MA NON LO E')
Autore: Stefano Fontana - Fonte: L’Occidentale
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LA CINA CASCA SULLA RELIGIONE
Hu Jintao scappa dal G5 per reprimere gli uiguri
Autore: Anna Bono - Fonte: Svipop
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CARITAS IN VERITATE
Come vanno corrette le imprecisioni di Paolo VI
Autore: Roberto de Mattei - Fonte: Il Foglio
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G8 E CLIMA
Qualcuno ci spieghi le piroette di Berlusconi
Autore: Riccardo Cascioli - Fonte: Svipop
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G8 E L’ENCICLICA CARITAS IN VERITATE
Il commento del Papa
Autore: Benedetto XVI - Fonte: Vatican.va
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OMELIA PER LA XVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO - B - (MC 6,30-34)
Fonte: Il settimanale di Padre Pio
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SUPPLICA AL SANTO PADRE SULLA MESSA TRIDENTINA NELLE PARROCCHIE
Autore: Paolo e Giovanni Gandolfo Lambruschini - Fonte: Maranatha.it
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SANTA MARIA GORETTI E LA PUREZZA OGGI
Non può esistere un serio combattimento contro i nemici della civiltà cristiana se la purezza non è posta a fondamento
Autore: Plinio Corrêa de Oliveira - Fonte: Messainlatino.it
Maria Goretti (1890-1902) nasce il 16 ottobre 1890 a Corinaldo (Ancona) dai contadini Luigi Goretti e Assunta Carlini. Nel 1896 il padre sposta la famiglia nell’Agro Pontino, ma nel 1900 muore e la famiglia per sopravvivere si associa ai Serenelli, padre e figlio, che coltivano un’altra porzione della stessa cascina. Il 5 luglio 1902 la dodicenne Maria è pugnalata dal ventenne Alessandro Serenelli (1882-1970) mentre resiste al suo tentativo di violentarla. Muore il 6 luglio. Pio XII la canonizza nel 1950, dopo che per sua intercessione il suo assassino si era convertito (dopo il carcere, si era ritirato in un convento francescano come semplice collaboratore laico, e lì rimase fino alla morte). Potremmo dire molte cose sulla festa di Santa Maria Goretti (1890-1902), ma il sublime esempio che ci ha lasciato riguardo alla purezza è in un contrasto così evidente con le abitudini dei nostri giorni da richiedere un commento. Mentre la Chiesa commemora la purezza di questa santa, la vittima di una brutale aggressione che quando è poco più di una bambina sacrifica la sua vita per amore della castità, noi ai nostri giorni assistiamo al dilagare di mode scandalose come quella del topless, di cui davvero preferirei non parlare. Ma anche il topless è parte di un processo, come sempre avviene per la Rivoluzione. Dal costume da bagno a un pezzo degli anni 1940 si è passati al bikini degli anni 1950, poi al topless. Il passo successivo sulle spiagge è il nudo integrale. La Rivoluzione vuole la completa degradazione dei costumi e della morale cattolica. La società odierna è in marcia verso il nudismo, spinta insieme da forze segrete e dalla passiva accettazione della gente. L’accettazione del nudismo equivale in campo morale all’instaurazione dell’anarchia. L’anarchia ha il nudismo come corollario. Infatti l’anarchia si batte per eliminare non solo ogni forma di autorità, ma anche ogni differenza e ogni forma di decoro nell’abbigliamento. L’attacco su un fronte aiuta quello sull’altro, nella direzione di una distruzione completa della civiltà cristiana. Di recente un buon numero di anarchici inglesi si è riunito per un convegno – sia detto en passant, in un castello di proprietà di un duca – dove sia gli uomini sia le donne si sono presentati completamente nudi. L’anarchia e il nudismo marciano insieme. Cito spesso il principio psicologico secondo cui “bisogna vivere come si pensa altrimenti si finisce con il pensare come si vive”. Applicandolo al tema di oggi, possiamo dire che non tutti i fautori del nudo integrale sono anarchici ma che accettando il nudismo si scivola verso l’anarchia. In questo giorno di festa di Santa Maria Goretti è triste considerare l’indifferenza di tanti cattolici che continuano a ripeterci che “i veri problemi sono altri” e che accettano con indifferenza la degradazione morale dei costumi, il processo che dal bikini è andato al topless e marcia verso il nudo integrale. Viaggiando a maggiore o minore velocità, questi cattolici indifferenti marciano nella stessa direzione della Rivoluzione. Santa Maria Goretti rappresenta un’adesione molto radicale all’insegnamento del Magistero della Chiesa sulla castità. Il suo esempio ci dice che per un cattolico è preferibile morire che perdere la purezza. Un insegnamento duro? Ma la Chiesa ha sempre parlato in questo modo. Il Preziosissimo Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo nell’Eucarestia è sempre stato chiamato, e lo è tuttora, “il vino che genera i vergini”. Come Santa Maria Goretti non avrebbe potuto resistere al suo aggressore senza una speciale grazia divina, così anche noi non siamo capaci di resistere all’onda lunga dell’impurità del mondo contemporaneo senza una grazia speciale. Per ottenere questo aiuto indispensabile dobbiamo avere fede, mantenerci pii, pregare e non dimenticare la penitenza e la riparazione. C’è un altro punto che voglio sottolineare. Tra le soluzioni alla crisi contemporanea non si parla quasi mai della castità. Invece dovrebbe avere un ruolo preponderante. Non può esistere un vero ordine sociale senza la famiglia bene ordinata, e non può esistere un vero ordine familiare se ciascun membro della famiglia non pratica la castità secondo il proprio stato. C’è la perfetta castità del religioso o della religiosa ma c’è anche la castità matrimoniale delle coppie sposate. Sono due forme sante della virtù: entrambe devono essere praticate e difese. Senza la purezza qualunque ordine sociale o politico inevitabilmente cade in rovina. Non può esistere un serio combattimento contro i nemici della civiltà cristiana, né una seria battaglia per la sua restaurazione, se la purezza non è posta a fondamento. Dobbiamo chiedere a Santa Maria Goretti di essere la nostra patrona nella difesa della purezza e di aiutarci a conservare la purezza. E quando, per qualche sventurata circostanza, deviamo da questa linea diritta, dobbiamo chiedere alla Santa d’ispirarci una vera contrizione e pentimento, come fece con il suo stesso assassino. Se saremo puri, saremo le pietre vive con cui sarà costruito il regno del Cuore Immacolato di Maria il cui trionfo è stato predetto a Fatima. (Traduzione di Massimo Introvigne)
Fonte: Messainlatino.it
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L'INGANNO DELLE ONG
L'illuminante caso dei neri del biafra
Autore: Rino Cammilleri - Fonte: Antidoti, 10 luglio 2009
Su «Libero» del 26.6.09 un libro di Linda Polman (L’industria della solidarietà, Bruno Mondadori) è stato recensito da Ernesto Aloia. I più anziani ricorderanno il caso del Biafra nel 1967, diventato sinonimo di “fame”. Il fatto è che non ci fu alcuna carestia. Il Biafra era la regione più ricca della Nigeria e il suo governatore, Emeka Ojuwku, si ribellò. Il governo reagì col blocco economico ed avrebbe avuto ragione dei ribelli se Ojuwku non si fosse rivolto alla Mark Press, agenzia ginevrina di pubbliche relazioni, perché convincesse il mondo che il governo nigeriano affamava i biafrani. Partirono le foto dei negretti denutriti e le poche Ong allora esistenti cominciarono a mandare aerei di cibo. Ma Ojukwu pretese che parte dello spazio nelle stive degli aerei fosse usato per le armi ai suoi uomini. Poi impose tasse di atterraggio e importazione. Arrivarono legioni di giornalisti e il caso del Biafra divenne internazionale, finanziando l’esercito personale di Ojukwu. Questi nel 1970 fuggì con le sue mogli e auto di lusso verso i suoi conti svizzeri. Oggi le Ong sono trentasettemila e raggranellano come la quinta potenza economica mondiale. Ogni nuova crisi è presentata come «la più grave emergenza umanitaria della storia recente». I loro dirigenti sono professionisti laureati in non-profit management, sono esperti di marketing, di pianificazione e di product placement. L’enorme massa di denaro raccolto (dagli Stati e dai privati) finisce in gran parte nelle tasche dei vari «signori della guerra» (che in alcuni casi arrivano a intascare l’80% degli aiuti). O dei talebani al confine del Pakistan, che incamerano un quarto degli aiuti destinati ai campi profughi che controllano. Insomma, ormai «gli aiuti sono diventati una vera e propria componente delle strategie dei contendenti» nelle varie guerre che si combattono qua e là nel mondo. E l’Africa delle “emergenze umanitarie” è una risorsa a cui legioni di Ong non intendono rinunciare.
Fonte: Antidoti, 10 luglio 2009
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IL PAPA NON È MAI SOLO (NONOSTANTE GLI ATTACCHI DI CHI SI DICHIARA CATTOLICO, MA NON LO E')
Autore: Stefano Fontana - Fonte: L’Occidentale, 21 Giugno 2009
“Un papa scomodo?” si chiedeva Giandomenico Mucci su “La Civiltà cattolica” del 2 maggio scorso. La domanda è doverosa davanti alle continue critiche e veri e propri attacchi cui è soggetto Benedetto XVI. Contro di lui si sono pronunciati, tra gli altri, Giovanni Reale, Dario Antiseri, Eugenio Scalfari, Alberto Melloni, Paolo Flores d’Arcais, Sergio Romano, Stefano Rodotà, Gian Enrico Rusconi, il Times, il New York Times, il Washington Post, Le Monde, il Fondo Monetario internazionale, il Governo del Belgio. "Il papa non è mai solo”, aveva detto Benedetto XVI a proposito delle voci sul suo “isolamento” suscitate dal tono sofferto di certe frasi contenute nella sua Lettera ai vescovi sul ritiro della scomunica ai lefebvriani. Certo, egli non è solo, ma continua ad essere sotto attacco, da fuori e da dentro il mondo cattolico. Da dentro la Chiesa la contestazione avviene soprattutto nella forma del magistero parallelo, ossia nel procedere “Etsi Benedictus non daretur”. Il caso più evidente è quanto va scrivendo ormai da tempo il cardinale Martini, da ultimo nel libro scritto insieme a don Verzé, a cominciare dall’ormai famoso articolo sul “Corriere della Sera” in cui sosteneva che non si può sapere quando comincia e quando finisce la vita umana. Il caso meno eclatante, ma forse anche più incidente nel vissuto ecclesiale, sono i libri di Enzo Bianchi, il priore della comunità di Bose. Nel suo ultimo libro “Per un’etica condivisa” (Einaudi 2009), egli si muove parallelamente al papa, dicendo esattamente il contrario. Addirittura parla anche lui di “principi non negoziabili”, facendone però un elenco diverso da quello fornito dal papa nel famoso discorso ai Popolari europei del 30 marzo 2006. In altre parole fa il verso al papa, polemizza di sponda, lo prende in giro. Benedetto XVI parla della verità di Cristo e della identità del cristiano?, Enzo Bianchi pensa che il cristiano debba semplicemente “far emergere quell’immagine di Dio che ogni essere umano, anche il non cristiano, porta in sé”. Il papa denuncia il fondamentalismo laicista?, Bianchi afferma che “l’anticlericalismo è sempre in reazione al clericalismo”. Benedetto XVI dice che il cristianesimo non può non farsi cultura?, Enzo Bianchi sostiene che “la de-culturazione dell’evangelizzazione si accompagna all’in-culturazione del Vangelo”. Il papa – e la Chiesa italiana – sono impegnati sul fronte etico della vita e della famiglia?, Enzo Bianchi ritiene che “Per tutti i cristiani la conoscenza della verità, del bene e del male nell’etica è sempre una conoscenza limitata e relativa”. Enzo Bianchi, e tanti che si collocano nella medesima linea, ritengono che la verità in sé non c’è, ma coincide con la coscienza della verità che ognuno ha, sempre limitata e progressiva. Benedetto XVI la pensa diversamente, come appare dal libro “L’elogio della coscienza” appena pubblicato da Cantagalli. Il magistero parallelo pensa che nessuno sia nella verità, e che la missione vada sostituita con l’etica della discussione. Capita però che la Commissione teologica internazionale abbia prodotto un Documento sulla legge naturale in cui sostiene che l’etica della discussione può essere un procedimento per saggiare le etiche proposte, ma non può produrre nuovi contenuti sostanziali? Sempre dentro la Chiesa cattolica, c’è poi anche la posizione di chi, come padre Bartolomeo Sorge, direttore di “Aggiornamenti sociali”, non si contrappone al papa ma cerca di edulcorarlo e, diciamo così, di addomesticarlo. Per esempio nell’editoriale del numero di giugno della sua rivista sul senso del pontificato di Benedetto XVI, padre Sorge dimentica completamente il tema della verità esaltando solo quello della carità. Ne risulta una immagine dimezzata del papa. Uno dei temi principali della critica al papa continua ad essere la valutazione del Concilio. Alberto Melloni e Giuseppe Ruggeri, teste d’uovo della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII di Bologna, eredi di Dossetti e Alberigo, pubblicano “Chi ha paura del Vaticano II?” (Carocci, Roma 2009) in cui si contesta il famoso discorso di Benedetto XVI alla curia romana del dicembre 2005, quando egli propose l’ermeneutica della continuità in luogo di quella della discontinuità per interpretare il Vaticano II. Il libro propone invece la coppia discontinuità/riforma, suggerendo che ad essere discontinuo è questo pontificato. Dal campo esterno gli attacchi si muovono su alcuni temi ormai diventati classici: aver reintrodotto “la formula antigiudaica nella preghiera del Venerdì santo”, aver detto nella prefazione al libro di Pera che il dialogo interreligioso è impossibile, non tenere conto degli episcopati, aver tolto la scomunica al vescovo negazionista Williamson. Nel fascicolo di “Reset” ora in edicola Alberto Melloni e Francesco Margiotta Broglio giocano a tiro al piccione con Benedetto XVI: “Format Ratzinger, papa stop and go”. Si potrebbero esaminare una ad una le loro contestazioni e osservare, per esempio, che il papa non ha ripristinato nessuna “formula antigiudaica” ma solo l’oremus per la conversione degli ebrei; che nella prefazione a Pera il papa dice sì che il dialogo interreligioso è impossibile – e, in verità, si può discutere con un musulmano se Dio sia uno e trino oppure no? – ma anche che è possibile e doveroso il dialogo sulle conseguenze culturali e sociali delle religioni; che a proposito dell’autoritarismo del papa l’accusa più frequente è proprio l’opposta, ossia che egli semmai è poco energico e troppo mite e tollerante; che di Williamson si è saputo dopo e che a più riprese il papa ha negato il negazionismo e che sul ritiro della scomunica ha scritto una eloquente lettera ai vescovi spiegando, ben oltre l’usuale, le sue motivazioni. Ma sarebbe inutile perché gli attacchi dall’esterno del mondo cattolico, come questo apparso su “Reset” – perché non è stata data la parola anche ad un cattolico papista oltre che al progressista Melloni? – sono di carattere politico e quindi non sempre colgono la dimensione teologica dei problemi. Non si vuol negare che non sempre i collaboratori del papa siano stati all’altezza, ma non si può nemmeno ridurre un pontificato ai soliti temi politicamente corretti. Con questo abbiamo toccato il tema teologico, che è quello decisivo. Questo papa è scomodo non perché la sua linea non sia chiara (stop and go), ma al contrario perché lo è, forse più di Giovanni Paolo II. Essa consiste nel “rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio”. Linea chiara vuol dire che propone dei limpidi criteri di demarcazione. Certamente, così facendo, infastidisce il cattolicesimo della chiesa minima – o “nuda” come ha detto di recente il cardinale Bagnasco – ed anche i fautori di una laicità non positiva – per dirla alla Sarkozy – però fa il suo dovere e conferma tanti altri, credenti o laici, che dal papa si aspettano parole chiare. Solo se le linee di demarcazione sono chiare, si può discutere e ognuno può fare le proprie scelte.
Fonte: L’Occidentale, 21 Giugno 2009
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LA CINA CASCA SULLA RELIGIONE
Hu Jintao scappa dal G5 per reprimere gli uiguri
Autore: Anna Bono - Fonte: Svipop, 10-7-2009
La Cina è uno dei G5, i cinque paesi – gli altri sono Brasile, India, Messico e Sudafrica – invitati al recente G8 di L’Aquila. Il 6 luglio il premier cinese Hu Jintao era già in Italia per alcuni incontri con le autorità italiane: conversazioni amichevoli, buoni propositi, complimenti reciproci e accordi economici per il valore di due miliardi di dollari. Poi il giorno dopo Hu Jintao è ripartito per Pechino, lasciando alla sua delegazione il compito di presenziare al summit. Una simile decisione conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, la gravità di quanto sta succedendo in Cina. Tutto è incominciato nella notte tra il 5 e il 6 luglio a Urumqi, capitale dello Xinjiang, dove da 2 a 3 mila Uiguri si sono scontrati con un migliaio di agenti di polizia e poi, nel disperdersi, hanno distrutto e incendiato vetrine e automezzi. Gli scontri sono proseguiti nei giorni successivi, con un bilancio che parla di alcune centinaia di morti e migliaia di feriti. Le autorità cinesi, che hanno provveduto all’arresto di oltre 1.500 persone, parlano di una rivolta violenta, un complotto ordito da gruppi di Uiguri in esilio, mentre i dimostranti sostengono che si trattasse di una pacifica manifestazione di protesta per la morte di due Uiguri uccisi nel sud della Cina nel corso di una serie di scontri tra operai Uiguri e Han (l'etnia maggioritaria cinese), e accusano le forze dell’ordine di aver aperto il fuoco sparando sulla folla indiscriminatamente. Gli Uiguri, in prevalenza dediti all’agricoltura, sono un’etnia di fede islamica. Costituivano la maggioranza della popolazione dello Xinjiang finché Pechino, a causa dei giacimenti di petrolio e di gas naturale di cui la regione è ricca, vi ha favorito l’insediamento di milioni di Han (cinesi) che ora controllano l’economia, il commercio e i posti di potere nell’amministrazione locale. Gli Uiguri in rivolta protestano contro il governo centrale, rispetto al quale chiedono maggiore autonomia, e contro l’emarginazione e le discriminazioni subite da parte della popolazione immigrata Han. Si ribellano inoltre alle persecuzioni dei fedeli e alle limitazioni poste al culto. Nello Xinjiang è proibita l’educazione religiosa ai giovani di età inferiore a 18 anni, si distruggono moschee e scuole islamiche per “favorire lo sviluppo economico” e nelle scuole gli alunni sono obbligati dagli insegnanti a mangiare di giorno durante il mese del Ramadan, che l’Islam dedica al digiuno diurno. Secondo il direttore di AsiaNews, Bernardo Cervellera, “l’emarginazione sociale e politica a cui sono sottoposti gli Uiguri nella loro terra è pari solo alla stessa emarginazione subita dai tibetani nel Qinghai e nel Tibet” e gli avvenimenti delle ultime ore ricalcano lo schema adottato in Tibet da Pechino lo scorso anno: “Anche nel marzo 2008, alla vigilia delle Olimpiadi, una manifestazione pacifica si è trasformata in uno scontro violento con l’esercito che ha fatto decine di morti, a cui sono seguiti migliaia di arresti e la legge marziale”. Le altre comunità religiose cinesi non vivono giorni migliori: “Da almeno due anni – ha spiegato Cervellera in un lancio d’agenzia del 6 luglio – è in atto una campagna per eliminare tutte le comunità protestanti sotterranee e le cosiddette Chiese domestiche, distruggendo le chiese, arrestando i pastori, bastonando i fedeli, proibendo la diffusione di Bibbie”. Quanto ai cattolici, i 70 vescovi ufficiali riconosciuti da Pechino sono sotto stretta sorveglianza per essersi riconciliati segretamente con il Papa. I circa 40 vescovi sotterranei, vale a dire non riconosciuti dalle autorità cinesi, sono tutti agli arresti domiciliari e alcuni di essi sono scomparsi da tempo. Monsignor Giacomo Su Zhimin, vescovo di Baoding, Hebei, è stato arrestato nel 1996 e di lui non si è più saputo nulla. L’ultimo di cui si sono perse le tracce è Monsignor Giulio Jia Zhiguo, scomparso il 30 marzo scorso. Di recente, la crisi economica internazionale ha accentuato antagonismi e animosità: e non soltanto nello Xinjiang. Secondo quanto riferito dal Ministero cinese della sicurezza, ogni anno si verificano in Cina non meno di 87 mila rivolte, scatenate soprattutto da problemi sul lavoro e dalla disoccupazione, ma sempre più spesso connotate etnicamente.
Fonte: Svipop, 10-7-2009
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CARITAS IN VERITATE
Come vanno corrette le imprecisioni di Paolo VI
Autore: Roberto de Mattei - Fonte: Il Foglio, 10/07/2009
Per comprendere in profondità il significato dell’enciclica di Benedetto XVI “Caritas in veritate”, occorre situarla all’interno di un dibattito che da oltre un secolo traversa il pensiero cattolico. Il problema nasce verso la metà dell’Ottocento, con il sorgere della cosiddetta “questione sociale” e con essa di una serie di nuove dottrine, come il liberalismo e il socialismo. L’enciclica “Rerum Novarum” (1891) di Leone XIII, considerata la prima risposta cattolica a tali sfide, è in realtà l’approdo di un ampio dibattito che vede confrontarsi due scuole di economisti e sociologi cristiani. I primi sostengono che la questione sociale va affrontata innanzitutto alla luce del primato della virtù teologica della carità; i secondi affermano invece il primato della virtù morale della giustizia. Dalle due posizioni discendono inevitabili conseguenze. Il primato della giustizia porta a enfatizzare il ruolo dello stato come soggetto chiamato a regolare la vita pubblica, attribuendo a ciascuno il suo. Il primato della carità porta invece a sottolineare il ruolo dell’individuo, come attore decisivo di ogni relazione sociale. Ne conseguono nel primo caso lo stato pianificatore, tendenzialmente socialista; nel secondo, la tutela del mercato, della proprietà privata, della libera impresa. La soluzione più sicura, adombrata dalla “Rerum Novarum”, resta quella di una sintesi tra giustizia e carità, con prevalenza di quest’ultima, secondo la bella formula di Giuseppe Toniolo: “Chi più può, più deve; chi meno può, più riceve”. La carità è essenzialmente il dono di sé e di ciò che si possiede: essa ha la sua origine nello spirito di rinuncia e di sacrificio proprio del Cristianesimo. Nel 1967, la“Populorum progressio” di Paolo VI, rovesciando la tradizione che si era fino ad allora delineata nel pensiero della chiesa, proclamò il primato della giustizia sulla carità. L’enciclica formulava un giudizio negativo sul capitalismo liberale (n. 26), criticava il “libero scambio” (n. 58), auspicava programmazione e pianificazione (n. 33), prevedeva la limitazione della proprietà privata e la ridistribuzione dei redditi (nn. 23- 24), esprimeva il culto del progresso, del lavoro, della “solidarietà mondiale” (nn. 58-59). Il documento di Benedetto XVI ripropone invece in termini nuovi la dottrina tradizionale, sviluppando i paragrafi 26-31 della sua precedente enciclica “Deus caritas est”, relativi proprio al rapporto tra giustizia e carità. E’ interessante paragonare gli Incipit delle encicliche di Benedetto XVI e di Paolo VI. La Caritas in veritate afferma che “la carità nella verità è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera” (n. 1) e costituisce “la via maestra della dottrina sociale della Chiesa” (n. 2). Essa “è il principio non solo delle microrelazioni (rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo), ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici” (n. 2). La “Populorum progressio” lanciava invece fin dall’inizio un appello alla liberazione dei popoli “dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell’ignoranza” (n. 1), riecheggiando le utopie postconciliari, secondo cui sarebbe stato possibile assicurare pace e benessere alla società intera. “Giustizia e pace” era il programma proposto da Papa Montini per “lo sviluppo integrale dell’uomo e lo sviluppo solidale dell’umanità” (n. 5). E’ importante notare come la carità a cui si richiama Benedetto XVI si radica nella verità, perché “un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali” (n. 4). La dottrina sociale della chiesa è dunque “caritas in veritate in re sociali”: annuncio della verità dell’amore di Cristo nella società. Tale dottrina “è servizio della carità, ma nella verità” (n. 5). “Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. E’ il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario” (n. 3). Anche la giustizia è naturalmente presente nel documento pontificio. Essa non solo non è una via alternativa o parallela alla carità, ma è inseparabile da essa (n. 6). Tuttavia “la carità eccede la giustizia, perché amare è donare, offrire del ‘mio’ all’altro; ma non è mai senza la giustizia, la quale induce a dare all’altro ciò che è ‘suo’, ciò che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare” (n. 6). In questo senso, al concetto di carità si collega quello di dono. “La carità è amore ricevuto e donato” (n. 5). Nella giustizia rendiamo al prossimo ciò che è suo, mentre nella carità gli doniamo ciò che è nostro. Nei confronti dell’enciclica del suo predecessore, Benedetto XVI ha una posizione analoga a quella assunta nei confronti del Concilio Vaticano II: essa va recuperata interpretandola alla luce della Tradizione. Il Papa sottolinea come la “Populorum progressio” è in grado di parlare ancora a noi, solo se “inserita nella grande corrente della Tradizione” (n. 12). Per comprendere il significato e il ruolo dello sviluppo di cui parlava Paolo VI, “il corretto punto di vista, dunque, è quello della Tradizione della fede apostolica, patrimonio antico e nuovo, fuori del quale la Populorum progressio sarebbe un documento senza radici e le questioni dello sviluppo si ridurrebbero unicamente a dati sociologici” (n. 10). La “Populorum progressio”, ad esempio, influenzata dalle teorie neomaltusiane degli anni Sessanta, alludeva non tanto velatamente alla necessità di limitare responsabilmente le nascite (n. 37). L’enciclica di Benedetto XVI si richiama apertamente alla “Humanae Vitae” (1968) dello stesso Paolo VI affermando che i problemi toccati in quest’ultimo importante documento non riguardano la morale meramente (n. 15). Il Papa è consapevole del fatto che l’incremento demografico non produce povertà, ma ricchezza. L’apertura moralmente responsabile alla vita è dunque una ricchezza sociale ed economica (n. 44) ed è al centro del vero sviluppo (n. 28). Per questo gli stati sono stati chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e l’integrità della famiglia, “fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società” (n. 44). Benedetto XVI sottolinea quindi il valore positivo del mercato e dell’impresa, che però deve essere fortemente ancorata all’etica. E’ certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso, ma questa non è la sua natura (n. 36). Il mercato è uno strumento: ciò che deve essere chiamato in causa non è esso, ma l’uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale (n. 36). Rispondere alle esigenze morali più profonde della persona ha anche importanti e benefiche ricadute sul piano economico. “L’economia infatti ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento”; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona (n. 45). Per molti economisti la difesa della libertà economica si unisce con una assoluta libertà in campo morale. In campo liberale, ad esempio, molti sono a favore della liberalizzazione della droga, dell’aborto e di ogni sperimentazione nel campo della bioetica. Per chiarire bene questo punto, Benedetto XVI afferma che “la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica” (n. 75) nel senso che essa implica il modo stesso di concepire la vita umana, minacciata dalle tecniche di manipolazione genetica e dalla “mens eutanasica”. “Non si possono minimizzare – egli afferma – gli scenari inquietanti per il futuro dell’uomo e i potenti strumenti che la cultura della morte ha a disposizione” (n. 75). Infine un’affermazione ricca di profonde conseguenze: Dio deve trovare un posto “anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica” (n. 56). “Senza Dio – infatti – l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia” (n. 78). In questa riga sta tutta l’enciclica e forse il nucleo dell’intero Magistero di Benedetto XVI.
Fonte: Il Foglio, 10/07/2009
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G8 E CLIMA
Qualcuno ci spieghi le piroette di Berlusconi
Autore: Riccardo Cascioli - Fonte: Svipop, 12-7-2009
Il buon successo del G8 de L’Aquila, con i ritorni positivi di immagine per il nostro paese, ci ha fatto veramente piacere. Quanto ai contenuti però è lecito essere più prudenti, perché aldilà del positivo clima di collaborazione si sono lette molte buone intenzioni e sottoscritti degli impegni (vedi gli aiuti per l’Africa) che meriterebbero alcune puntualizzazioni. Sicuramente torneremo su questi punti, ma una cosa ci pare importante rilevare subito, perché ci lascia notevolmente perplessi. Ovvero quello che è stato presentato come l’accordo sul clima. Sul tema ci sarebbe molto da dire, ma ci sono due aspetti che saltano subito agli occhi. Il primo è la posizione del governo italiano. Il presidente del Consiglio Berlusconi, radioso per il successo politico conquistato, si è spinto fino a lanciare una frecciatina al suo “vecchio amico” Bush lodando il cambiamento di politica del nuovo presidente americano Barack Obama. Con Obama, dice Berlusconi, si è finalmente potuto trovare un accordo altrimenti impossibile. Ora, questa affermazione anzitutto non è completamente vera se andiamo a vedere quale accordo sul clima era scaturito dal G8 di un anno fa in Giappone, con Bush regnante. Ma a parte questo, a noi pare di ricordare che il governo Berlusconi fosse completamente d’accordo con Bush e di essere stato criticato proprio per questo. Ci pare anche di ricordare che il ministro Ronchi a Bruxelles per mesi abbia combattuto – con successo - per mitigare il pacchetto clima-energia dell’Unione Europea, che pure si basa sulla necessità di porre stretti limiti alle emissioni di gas serra. Ora invece scopriamo che, anche per Berlusconi, Bush era cattivo e il ministro degli Esteri Frattini – la cui competenza in materia di clima ci era stata fin qui nascosta – in una intervista ad Avvenire (12 luglio) ci va giù ancora più pesante su Bush e arriva a sconfessare addirittura l’iniziativa dei senatori del suo partito che non più di 3 mesi fa avevano impegnato il governo a ben altre politiche sul clima. Ora, a prescindere dal giudizio che si voglia dare sulle diverse posizioni, sarebbe il caso che il governo Berlusconi ci spiegasse esattamente qual è la sua linea politica in questa materia. Perché il forte sospetto che ci assale è che in realtà non ci sia una linea politica se non quella di andare d’accordo con l’inquilino della Casa Bianca chiunque esso sia e qualunque posizione egli abbia. Il che non è molto rassicurante per il nostro paese. Il secondo aspetto riguarda il contenuto “scientifico”. Berlusconi ha detto che si è tutti d’accordo (ma la Cina si è sfilata) che dobbiamo fare il massimo per far sì che la temperatura globale della terra non superi i 2°C (entro il 2100). Ora, pur dando per buono il discusso Rapporto 2007 dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), usato dai “catastrofisti” come fosse una Bibbia, noi troviamo che tale rapporto contempla sei scenari diversi. In pratica, dice l’IPCC, in mancanza di politiche sul clima si potranno verificare diverse ipotesi di emissioni di gas serra tali che le temperature potranno crescere per fine secolo da 1,1 a 6,4°C, con le “stime migliori” che restringono il range da 1,8 a 4°C (pp.7-8 del Summary for Policy Makers). Dunque, a parte che almeno uno scenario contempla la possibilità di non superare comunque l’aumento di 2°C, quale scenario hanno preso i G8 come riferimento per poter affermare che il taglio del 50% delle emissioni di Co2 entro il 2050 avrà quell’effetto sulla temperatura? E in base a quale valutazione scientifica è stato scelto uno scenario anziché gli altri 5? E inoltre: visto che il limite per la salvezza del pianeta è stato posto a +2°C, su quale base scientifica poggia la convinzione che a +1,999°C siamo salvi e a +2,001° siamo perduti? Che a +1,999°C il clima si stabilizza e a +2,001°C scatterà una serie di reazioni dagli esiti catastrofici? Non sarà forse che l’allarme clima è soltanto il pretesto per forzare un altrimenti impensabile consenso di tanti paesi e dell’opinione pubblica a politiche energetiche ed economiche volute da una élite?
Fonte: Svipop, 12-7-2009
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G8 E L’ENCICLICA CARITAS IN VERITATE
Il commento del Papa
Autore: Benedetto XVI - Fonte: Vatican.va, 12 luglio 2009
Cari fratelli e sorelle, nei giorni scorsi, l’attenzione di tutti si è rivolta al G8 che si è tenuto a L’Aquila, città tanto provata dal terremoto. Le problematiche in agenda erano talora drammaticamente urgenti. Ci sono nel mondo sperequazioni sociali ed ingiustizie strutturali non più tollerabili, che esigono, oltre a doverosi interventi immediati, una coordinata strategia per ricercare soluzioni globali durevoli. Durante il summit i Capi di Stato e di Governo del G8 hanno ribadito la necessità di giungere ad accordi comuni al fine di assicurare all’umanità un futuro migliore. La Chiesa non possiede soluzioni tecniche da presentare, ma, esperta in umanità, offre a tutti l’insegnamento della Sacra Scrittura sulla verità dell’uomo e annuncia il Vangelo dell’Amore e della giustizia. Mercoledì scorso, commentando nell’udienza generale l’Enciclica Caritas in veritate pubblicata proprio alla vigilia del G8, dicevo che “occorre una nuova progettualità economica che ridisegni lo sviluppo in maniera globale, basandosi sul fondamento etico della responsabilità davanti a Dio e all’essere umano come creatura di Dio”. Questo perché – ho scritto nell’Enciclica – “in una società in via di globalizzazione, il bene comune e l’impegno per esso non possono non assumere le dimensioni dell’intera famiglia umana” (n. 7). Già il grande Pontefice Paolo VI, nell’Enciclica Populorum progressio, aveva riconosciuto e indicato l’orizzonte mondiale della questione sociale. Proseguendo sulla medesima strada, anch’io ho avvertito il bisogno di dedicare la Caritas in veritate a tale questione, che nel nostro tempo è diventata “radicalmente questione antropologica”, nel senso cioè che essa implica il modo stesso di concepire l’essere umano sempre più posto nelle mani dell’uomo stesso dalle moderne biotecnologie (cfr ibid. 75). Le soluzioni ai problemi attuali dell’umanità non possono essere solo tecniche, ma devono tener conto di tutte le esigenze della persona, che è dotata di anima e corpo. Potrebbe infatti disegnare foschi scenari per il futuro dell’umanità “l’assolutismo della tecnica”, che trova la sua massima espressione in talune pratiche contrarie alla vita. Gli atti che non rispettano la vera dignità della persona, anche quando sembrano motivati da una “scelta di amore”, in realtà sono il frutto di una “concezione materiale e meccanicistica della vita umana”, che riduce l’amore senza verità a “un guscio vuoto da riempire arbitrariamente” (cfr n. 6) e può così comportare effetti negativi per lo sviluppo umano integrale. Per quanto sia complessa l’attuale situazione nel mondo, la Chiesa guarda al futuro con speranza e ricorda ai cristiani che “l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo”. Proprio oggi, nella Colletta della Messa, la liturgia ci invita a pregare: “Donaci, o Padre, di non aver nulla di più caro del tuo Figlio, che rivela al mondo il mistero del tuo amore e la vera dignità dell’uomo”. Ci ottenga la Vergine Maria di camminare sulla strada dello sviluppo con tutto il nostro cuore e la nostra intelligenza, “vale a dire con l’ardore della carità e la sapienza della verità” (cfr n. 8).
Fonte: Vatican.va, 12 luglio 2009
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OMELIA PER LA XVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO - B - (MC 6,30-34)
Fonte Il settimanale di Padre Pio, 19 luglio 2009
La prima lettura di questa domenica è un messaggio rivolto ai pastori d’anime, a tutti quelli che hanno ricevuto da Dio l’altissima missione di condurre le pecorelle del Signore ai pascoli della vita eterna. Il profeta Geremia richiama fortemente al loro dovere i capi religiosi del suo tempo, i quali più che il bene del gregge a loro affidato cercavano i loro interessi personali. Ecco, allora che rivolge loro queste severe parole: «Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo [...] voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati» (Ger 23,2). A questo punto, il profeta Geremia, a nome di Dio, promette che Dio stesso si occuperà di queste pecorelle inviando loro il Messia, della stirpe di Davide. Così dice il Profeta: «Ecco verranno giorni nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra» (Ger 23,5). Chiaramente, questo Messia è Gesù, l’unico Salvatore del mondo, che ha radunato le pecorelle disperse a prezzo del suo sangue. La seconda lettura ci presenta ancor meglio Gesù come Pastore delle nostre anime, che è venuto a far di tutti noi un solo gregge. Così scrive san Paolo agli efesini: «Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva» (Ef 2,14), ovvero il peccato che ci separava da Dio, ci separava tra di noi e ci faceva vagare per sentieri tortuosi ed impervi. Purtroppo, tante volte ricadiamo nella palude dei nostri peccati, per cui Gesù, il Buon Pastore, ci viene incontro per ricondurci sul retto sentiero. Egli viene a noi per mezzo dei salutari rimorsi di coscienza, suscitando un profondo pentimento e il desiderio di confessare sinceramente i nostri peccati. Lasciamoci afferrare dalle mani di Gesù, lasciamoci caricare sulle sue spalle e ricondurre all’ovile. Chi rimane con Lui non avrà da temere alcun male. Si rimane con Lui quando si osservano i suoi comandamenti, quando si prega, si evita il peccato e si compiono le opere buone. Allora egli potrà ritenere rivolte a se stesso le bellissime parole del salmo che abbiamo ascoltato: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce» (Sal 22). Nelle inevitabili prove della vita dobbiamo ancorarci ancora di più a questa certezza e credere senza esitazione che Gesù, Buon Pastore della nostra anima, è sempre accanto a noi, e che in Lui dobbiamo confidare. Il salmo, infatti, continua con queste consolanti parole: «Anche se vado per una valle oscura non temo alcun male, perché tu sei con me» (ivi). La cosa più sbagliata che possiamo fare in quei momenti è quella di agitarci. Facendo così impediamo a Gesù di agire, di prendersi cura della nostra vita. In quei momenti, la cosa più bella da fare sarà quella di chiudere gli occhi dell’anima e di dire con piena fiducia: “Gesù, in Te confido, pensaci Tu”. E allora, anche nelle tenebre della nostra valle oscura, risplenderà la luce della speranza. Infine, il Vangelo ci presenta il nostro Redentore che si muove a compassione della folla che sembrava proprio come un gregge senza pastore. Gesù si mise allora ad insegnare loro molte cose (cf Mc 6,34). Gesù ha compassione di noi ed è più sollecito Lui di beneficarci più quanto lo siamo noi di essere aiutati. Prima di tutto, Gesù si prende cura delle nostre anime, insegnandoci le verità che sono via al Cielo. Leggendo il suo Vangelo e ascoltando la Chiesa, noi saremo sicuri di vivere nella verità. Poi il Signore ci dona i suoi Sacramenti che ci danno la sua grazia, e in modo particolare il Sacramento dell’Eucaristia che non ci offre solo la sua grazia, ma ci dona Lui stesso, dietro le povere sembianze di un po’ di pane e di un po’ di vino. Inoltre, Gesù ha compassione di noi prendendosi cura della nostra vita. La Provvidenza divina vigila costantemente su di noi, e quanto più grande sarà la nostra fiducia, tanto più numerose saranno le grazie anche di ordine materiale che riceveremo dalla mano paterna di Dio. Lungo i secoli, Gesù ha suscitato numerosi pastori secondo il suo cuore. Prima di tutto gli Apostoli, fino ad arrivare ai nostri giorni. Uno di questi pastori che hanno ricalcato fedelmente le orme di Gesù è stato senza dubbio san Giovanni Maria Vianney, additato dal papa Benedetto XVI come modello per tutti i sacerdoti. San Giovanni Maria Vianney, da tutti chiamato il Santo Curato d’Ars, si distingueva per la sua continua preghiera e per la sua generosa penitenza. Per le pecorelle affidate alla sua cura, egli pregava e offriva continui sacrifici. Egli non cercava il suo tornaconto, ma unicamente la gloria di Dio e il bene delle anime. Quando giunse ad Ars, qualcuno gli disse che in quel paese «non c’era nulla da fare», che le persone pensavano solo alla terra, che non si davano pensiero del cielo e non andavano a Messa alla domenica. Egli rispose che, dunque, «c’era tutto da fare». E si mise all’opera. In che modo? Stando in ginocchio e vegliando le notti in preghiera davanti al Tabernacolo. E, con l’andare degli anni, il paese cambiò profondamente, al punto che quasi tutti partecipavano alla Messa ogni giorno della settimana. Preghiamo con fiducia e chiediamo al Signore che ci siano sempre pastori secondo il suo Cuore.
Fonte: Il settimanale di Padre Pio, 19 luglio 2009
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SUPPLICA AL SANTO PADRE SULLA MESSA TRIDENTINA NELLE PARROCCHIE
Autore: Paolo e Giovanni Gandolfo Lambruschini - Fonte: Maranatha.it, 1° luglio 2009
Beatissimo Padre, Le scriviamo, umilmente, con il desiderio di farLe conoscere ciò che sta nel profondo del nostro cuore. Ci sentiamo anzitutto di rivolgerLe un ringraziamento, per gli insegnamenti che Lei ha profuso nelle Udienze, nelle Omelie, nelle Lettere e nelle Encicliche che da anni, accompagnano la nostra crescita spirituale. Ciò ha assicurato a noi e crediamo bene a tutta la Chiesa, un grande giovamento, proprio in questi tempi di grande “crisi”. Il Suo insegnamento, rappresenta veramente una liberazione dall'orrore spirituale dei tempi moderni, un rifugio certo e un ristoro sicuro per l'anima dopo essere stati addottrinati da tante false sapienze e interpretazioni personali elevate a falsi dogmi. Grazie a Lei, sta cominciando a trovare soluzione un malessere spirituale che covava da anni nella Chiesa, e che noi abbiamo percepito con grande dolore. Un malessere dovuto ad una confusione tra il vero e il falso, tra il giusto e l'errore, sempre più difficili da distinguere, e sempre meno nettamente percepiti, anche dagli stessi pastori. Purtroppo però, le vogliamo comunicare quello che ci sta veramente a cuore, quello che abbiamo sperimentato all’indomani del 7 di luglio del 2007 nella semplicità di una ordinarissima vita di parrocchia. In particolare, desideriamo porre alla Sua conoscenza quello che per noi è stata la nostra vita, così come la vita di molti, a seguito del Motu Proprio Summorum Pontificum. Grazie ad esso e alla sensibilità liturgica di Vostra Santità, [vicina al cuore di chi, come noi, non vede del “male” nell'espressione liturgica della fede che ha alimentato spiritualmente tanti Santi nei secoli di vita della Chiesa] abbiamo ottenuto, pur con tanti sacrifici, sofferenze ed umiliazioni dal nostro Vescovo, la Celebrazione della Santa Messa di sempre, in un Oratorio esterno alla nostra parrocchia. La gioia nel riscoprire la Santa Messa, amata dai nostri genitori che credevamo eliminata per sempre, ha coperto la grande delusione nel costatare che questa Sacrosanta Liturgia non ha trovato alcun posto all’interno della nostra amatissima comunità parrocchiale. Nell’ Art. 5. § 1 del Suo Motu Proprio Summorum Pontificum, Lei Santità, ha fatto un grande dono a tutta la Chiesa, ribadendo l’importanza e la centralità della parrocchia, della comunità parrocchiale unita dalla e per mezzo della Liturgia: quello che la giustizia da anni esigeva che fosse chiarito. Ha detto con chiarezza che la Tradizione Liturgica di 20 secoli non è stata “scomunicata”, ma che è sempre stata, valida, lecita, legittima e santificante. Il Summorum Pontificum è stato davvero un grande atto di giustizia. La straordinaria grandezza di questo documento, crediamo, risieda nel fatto che finalmente la Messa di sempre è ritornata nella vita parrocchiale di tutti i giorni e non più relegata solo nelle “mani” di privati ed associazioni, a cui va certamente il plauso di aver conservato questo tesoro. La tradizione vera non è solo in parole e gesti codificati nell'antichità e tramandati nei secoli dalla Chiesa. La tradizione è anche il legame del proprio sangue con il proprio suolo. Le radici che affondano nella propria comunità, in cui si sperimenta davvero il senso mistico della tradizione: non una legge o un rito, ma una comunità di spiriti, uniti e vivi, che nemmeno la morte ha avuto il potere di separare. Nella parrocchia i nostri antenati, i nostri genitori e i nostri posteri, sono tutti uniti spiritualmente a noi, come un solo popolo vivo e radunato di fronte al Sacrificio di Cristo. Questo è il senso che noi facciamo nostro, di “chiesa locale”. Che tristezza constatare che ci è imposta una tragica scelta: scegliere se mantenere le nostre radici, ma umiliare la nostra sensibilità liturgica, oppure se alimentare questa sensibilità, sradicando il nostro legame con la parrocchia, e obbligandoci a diventare dei fuggiaschi, degli esiliati, relegati in cappelle, senza un parroco, senza una vera e propria cura d'anime. Spesso queste cappelle sono “centri di messa” che raccolgono persone da più parti, tutti in fuga dalle rispettive parrocchie, che però non hanno modo di santificarsi così, alla stessa maniera che attingendo alla fonte della tradizione nel luogo dove essa ha più senso a manifestarsi. Questo escludere dalla vita comunitaria e parrocchiale è una vera ghettizzazione, ed è la vera causa di questa divisione non voluta, ma subita! Quasi come se la tradizione fosse un morbo infettante, da tenere alla larga per evitare il contagio con qualche cattolico ancora indenne. Quanto vorremmo poter partecipare alla Santa Messa di sempre, detta dal nostro Parroco, nella nostra parrocchia, allo stesso modo in cui sentiamo la Santa Messa nella sua Sacrosanta Forma Ordinaria! Eppure è relegata lontano, quasi come se fosse un sottoprodotto della liturgia cattolica, di dignità inferiore, e degna di essere frequentata solo da cattolici di dignità inferiore! Senza parlare poi dei tanti problemi che sono iniziati per noi da quando abbiamo messo a disposizione dei sacerdoti di tutto il mondo il Messale Romano del Beato Papa Giovanni XXIII con tutte le spiegazioni e i commenti spirituali legati ad ogni gesto della Santa Messa. Abbiamo avuto molti problemi e sofferenze sia nella nostra comunità parrocchiale che nella Diocesi. Non si contano le calunnie che quotidianamente ci tocca subire, i dileggi che prima non conoscevamo le ostilità, talvolta reazioni addirittura scomposte e di vera e propria maleducazione da parte dei Sacerdoti o perché assolutamente non disposti a celebrare la Santa Messa, a dir di loro – in fregio a Vostra Santità – in un modo oramai desueto e superato, o perché in Diocesi nessuno è disposto assolutamente ad insegnare loro quest’ars celebrandi. Quasi come se il nostro amore per la Sacrosanta Liturgia di sempre, [che è stata sempre accostata in modo armonico e mai polemico con la Sacrosanta Liturgia Conciliare] e la nostra obbedienza alla sua legge che ci invita ad attingere ai tesori del culto tradizionali, invece che essere apprezzati dal clero, come manifestazione di spirito cristiano, rappresentassero qualcosa di ignobile, sporco, impuro. Ci sentiamo, per la nostra fedeltà a Lei e a Cristo, come degli appestati, tenuti a debita distanza e maltrattati! Ci sono momenti in cui i pastori ci fanno sentire al di fuori della comunità parrocchiale, e addirittura al di fuori della Chiesa, con le loro continue accuse, critiche, calunnie. Se non partecipassimo alla Messa di sempre, queste persone si guarderebbero bene dall'apostrofarci con tanta cattiveria. Il risultato è che ORA, grazie a queste continue e sottili persecuzioni, ci sentiamo, nostro malgrado, NOI lontani dalla Chiesa. Sentiamo con vivo dolore che la nostra Madre Chiesa, è come se ci avesse cacciato, voltato le spalle, umiliato. Il vuoto che proviamo è terribile! Ossia il dolore che proviamo nel constatare che molti Sacerdoti e molti Vescovi, interpretano la (nostra) Fede Cattolica, e la (nostra) Divina Liturgia, che di quella fede è espressione finale, non in “continuità” (così come Lei ha spiegato più di una volta con la sua bi-millenaria Tradizione), ma in aperta ed insanabile “rottura”, addirittura facendone di questo, un vessillo da mostrare spavaldamente al mondo. È Terribile sperimentare tangibilmente, ogni giorno che nella stessa Chiesa è impossibile avere la libertà di aderire pienamente a tutto quanto il Magistero, senza subire mottetti e pernacchie! Questo è semplicemente assurdo. Noi siamo semplicemente Cattolici, figli della Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana, ubbidienti al Vicario di Cristo e alle sue Leggi, fedeli al suo insegnamento e desiderosi di partecipare al medesimo Sacrificio di Cristo, che si realizza tanto nella Forma Ordinaria e moderna che Straordinaria e più antica dell'unica Messa Cattolica. Ci sentiamo lasciati soli, in balia di gente che ci odia, poiché da quando il Motu Proprio è stato promulgato, la sua attuazione è stata costantemente è dovunque ostacolata, in certi casi anche arbitrariamente impedita, con minacce, prepotenze, calunnie, ritorsioni sia verso di noi laici, sia soprattutto verso quei sacerdoti desiderosi di proporre questa Messa al popolo di Dio. Non è stato preso alcun provvedimento realmente efficace, affinché nella nostra Chiesa Cattolica sia permessa la pacifica convivenza delle due forme dello stesso Sacrificio, con reciproco arricchimento. Piuttosto che ricevere questa marea di insulti e di umiliazioni da parte di cristiani e addirittura da parte degli stessi pastori che dovrebbero primeggiare nell'obbedienza a Lei, preferiremmo quasi tornare nelle catacombe, dove però i cristiani erano davvero fratelli, e i nemici al contrario avevano tratti facilmente identificabili. Quella Chiesa umiliata e nascosta, appariva assai più unita e fedele di quella di oggi, dilaniata al suo interno da correnti, fazioni, interpreti religiosi e non, eretici, indipendenti e malevolmente fantasiosi. Dalle continue testimonianze che il sito registra da mesi, possiamo dire che siamo certi che quella che è la nostra esperienza vissuta, non è un caso isolato. Abbiamo scelto di rendere pubblica questa nostra accorata lettera, che umilmente abbiamo scelto di rivolgerLe, per radunarvi spiritualmente anche le invocazioni e le sofferenze di molti altri cattolici che si trovano nelle nostre medesime condizioni, ed hanno subito le stesse vessazioni ed umiliazioni. Desideriamo che Lei conosca la realtà. Allo stesso modo ci preme che anche i fedeli che non conoscono la Tradizione Liturgica della Chiesa, si rendano conto che allo stato attuale, esiste un problema di pacifica convivenza all'interno della cattolicità, e non certo per colpa di chi ama la Tradizione. Le chiediamo di tutto cuore Santità, di prendere gli opportuni provvedimenti che solo Lei è in grado di attuare, perchè il Motu Proprio Summorum Pontificum venga applicato in ogni parrocchia. Ci permetta Santità, e ci aiuti ad ottenere di potere attingere a questi frutti di santificazione nella nostra comunità parrocchiale, con naturalezza e semplicità, senza inutili discriminazioni. Permetta davvero ai fedeli di poter scegliere, senza andare incontro a ripercussioni, umiliazioni ed oneri anche gravosi. Siamo certi che a questa richiesta si uniscono anche i tanti fratelli che in Italia e nel Mondo sperimentano lo stesso dolore, ma che non hanno a volte la voce per poter esprimere il loro disagio. GlieLo chiediamo in nome della STORIA e anche a nome delle future generazioni e in nome della vera unità della Chiesa. LA SUPPLICHIAMO SANTO PADRE, NON CI LASCI SOLI! Noi pregheremo lo Spirito Santo con l'intercessione della Beata Vergine Maria Immacolata, perchè conservi sempre Vostra Santità nella salute e le dia forza e coraggio per guidare sempre in modo efficace la Chiesa, aiutandoci a celebrare la Liturgia Tradizionale nelle nostre Parrocchie. Con l'espressione della nostra alta stima e rispetto, rimaniamo di Sua Santità devotissimi in Cristo.
Fonte: Maranatha.it, 1° luglio 2009
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