BastaBugie n�866 del 27 marzo 2024

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1 SCUOLA CHIUSA PER RAMADAN, UN FAVORE NON RICHIESTO ALL'ISLAM
Il 40% degli studenti è musulmano così il preside di Pioltello sospende le lezioni e Delpini, vescovo di Milano, plaude alla decisione (e così si favorisce il radicamento istituzionale dell'islam)
Autore: Stefano Fontana - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
2 LA PAURA TI BLOCCA? SEI PUSILLANIME?
Il pusillanime crede troppo in sé stesso, e così rimane bloccato (la soluzione è ritornare a Dio)
Autore: Luisella Scrosati - Fonte: Il Timone
3 ALLA SCOPERTA DEL BUON LADRONE A CUI GESU' PROMETTE IL PARADISO SUBITO
San Disma era un capo brigante egiziano fratricida: sulla sua croce era scritto Hic est Dismas Latronum Dux (''ladroni'' indicava rapinatori, briganti e assassini)
Autore: Roberto De Mattei - Fonte: Radio Roma Libera
4 LA COMPUNZIONE, IL DOLORE CHE AVVICINA A DIO
C'è una cattiva tristezza (malinconia), piena d'amarezza e che conduce all'inferno, ma ce n'è una buona (compunzione) che non si rattrista per la perdita di cose temporali, ma della perdita di Dio e che ci apre le porte del cielo
Fonte: La Bussola Mensile
5 GLI ECOLOGISTI FANNO, DA SEMPRE, SOLO DANNI
Vi dimostro perché l'ambientalismo è più mortale di nazismo, comunismo e terrorismo messi insieme
Autore: Franco Battaglia - Fonte: Sito di Nicola Porro
6 PAPI E ANTIPAPI, SEDE VACANTE E PAPA LEGITTIMO (1° parte)
Dopo la cattività avignonese iniziò il Grande Scisma d'Occidente che coinvolse 4 papi e altrettanti antipapi
Autore: Luisella Scrosati - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
7 OMELIE PASQUA DI RISURREZIONE - ANNO B
Veglia Pasquale e Messa del giorno
Autore: Giacomo Biffi - Fonte: La rivincita del crocifisso

1 - SCUOLA CHIUSA PER RAMADAN, UN FAVORE NON RICHIESTO ALL'ISLAM
Il 40% degli studenti è musulmano così il preside di Pioltello sospende le lezioni e Delpini, vescovo di Milano, plaude alla decisione (e così si favorisce il radicamento istituzionale dell'islam)
Autore: Stefano Fontana - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 19 marzo 2024

Il Consiglio dell'Istituto comprensivo di Pioltello ha deciso di chiudere le scuole - due primarie ed una media inferiore - in occasione della festa islamica della conclusione del Ramadan. Il provvedimento non poteva non rimbalzare immediatamente sui media e così infatti è stato. Toccava infatti il punto delicato dei rapporti con l'islam.
La motivazione spiegata poi dal dirigente scolastico tendeva a ridimensionare la strana scelta: si sarebbe trattato solo di una disposizione per motivi pratici. Egli ha spiegato che nel suo Istituto comprensivo il 40 per cento degli alunni risulta di fede musulmana. Mancando in quel tal giorno una fetta così grande della popolazione scolastica, tanto valeva sospendere le lezioni per tutti. Forse il dirigente intendeva dire che in questo modo nessuno avrebbe perso nozioni importanti delle materie scolastiche e non ci sarebbe stata la fatica di registrare le numerose giustificazioni per le assenze. In fondo non si trattava che di un solo, misero, giorno di scuola. Nessun intento politico, nessuna forma di sottomissione all'islam, nessuna prova generale per analoghi eventi futuri.

DECISIONE MALDESTRA
La maldestra decisione ha però peccato almeno di superficialità. È infatti facile osservare che il motivo quantitativo non può essere sufficiente per spiegare simili decisioni. Anche i problemi pratici hanno risvolti non solo pratici. Poniamo che ad essere assenti in un dato giorno fossero il 40 per cento degli studenti italiani, o di quelli indiani di fede indù, o di quelli di altre religioni. Inoltre, perché, paradossalmente, non ipotizzare una assenza di massa per qualche evento pubblico particolare del 40 per cento degli studenti provenienti da famiglie atee? Non stiamo esagerando, stanti gli attuali trend, si può prevedere che in un prossimo futuro nelle scuole italiane ci saranno prevalentemente alunni islamici e atei. Non credo che il Consiglio di Istituto abbia voluto porre la norma pratica che quando si arriva ad una certa percentuale di assenti per motivi religiosi si può chiudere la scuola, però si è avventurato su un terreno minato, nel quale il concetto di discriminazione religiosa è in solerte agguato. La decisione del Consiglio può essere accusata di aver privilegiato una certa confessione religiosa oppure di aver voluto lanciare un segnale su come gestire la scuola interreligiosa del futuro.
Ogni religione ha le proprie feste religiose. Nella scuola multireligiosa come si potranno concedere assenze per motivi religiosi in queste giornate di festa senza discriminare le altre religioni? La chiusura delle scuole alla domenica che nasce dalla religione cristiana è discriminante per i musulmani e per i sihk? Abbiamo visto le tante esperienze di abolizione del presepio o del crocefisso, perché la cosa non potrebbe ripetersi anche per la chiusura domenicale? A Pioltello, forse senza esserne pienamene consapevoli, sono entrati in queste problematiche, sicché la loro decisione è stata comunque un primo passo nel riconoscimento della convenienza di sospendere le lezioni per una festa religiosa non cristiana ma islamica. La convenienza di oggi può però diventare diritto domani. Oggi i musulmani di Pioltello ricevono un favore forse non richiesto, il rispetto pubblico per un loro evento religioso da ossequiare con una astensione dal lavoro scolastico, e per il Ramadan del prossimo anno lo chiederanno apertamente, minacciando un sit-in davanti alle scuole se non sarà loro concesso e, ne siamo certi, senza promettere eventuali analoghi trattamenti da parte loro.

I PROBLEMI DELLA SOCIETÀ MULTIRELIGIOSA
In altri Paesi questi problemi sono scoppiati prima che da noi e di solito la soluzione adottata e suggerita da insigni intellettuali, come per esempio Charles Taylor, è quella di concedere a tutti l'assenza da scuola in occasione della propria festività religiosa. Non bisogna togliere qualcosa a qualcuno, ma darlo anche agli altri. Alla domenica i cristiani potranno non andare a scuola, al sabato potranno farlo gli ebrei e al venerdì i musulmani. Tutti per i loro motivi religiosi. Questa è la politica dei "bilanciamenti", delle "soluzioni di buon senso", degli "accomodamenti equi" con i quali ci si illude di risolvere i problemi della società multireligiosa. Politica che ha due grandi limiti: non riesce a distinguere né tra religioni e preferenze come stili di vita (perché i naturisti o i cultori dello yoga non dovrebbero avere la loro "domenica"?) né tra le religioni stesse, assegnando ad ognuna la stessa importanza.
Detto tra noi: probabilmente gli attori della ridicola e improvvisata commedia di Pioltello non sapevano di queste problematiche, né che la loro decisione - assunta solo per motivi pratici, non dimentichiamo - fosse un primo passo verso l'indifferentismo religioso proprio di ogni società multireligiosa. E non è detto nemmeno che i tromboni che si sono affrettati a richiamare in campo le solite argomentazioni roboanti sulle nostre origini cristiane e sulla nostra civiltà cristiana sappiano valutare la verità delle diverse religioni: non è sufficiente rivendicare i diritti del cristianesimo per motivi storici, ma bisogna farlo per la sua verità, unico argomento perché esso possa vantare un primato sulle altre religioni, per cui le scuole devono essere chiuse per motivi religiosi solo alla domenica, non al venerdì, non al sabato e nemmeno per la conclusione del Ramadan.

Nota di BastaBugie: Riccardo Cascioli nell'articolo seguente dal titolo "E anche Delpini si unisce alla festa islamica" spiega perché la posizione della Cei, Avvenire, e da ultimo l'arcivescovo di Milano fingono una posizione ecumenica, in realtà un po' vigliacca, perché si favorisce il radicamento istituzionale dell'islam.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 22 marzo 2024:

Mancava solo lui, l'arcivescovo Mario Delpini. Ed è puntualmente arrivato a completare il coro cattolico di approvazione per la decisione del preside della scuola di Pioltello che ha deciso di non far svolgere le lezioni il 10 aprile: il 40% degli studenti è islamico e quel giorno festeggia la fine del Ramadan. L'arcivescovo di Milano, dunque, non ha potuto esimersi dal plaudire l'iniziativa del preside di Pioltello, minimizzando il no dell'Ufficio scolastico regionale («avranno i loro motivi») e del ministro Valditara.
Rispondendo alle domande dei giornalisti ha rimandato alla presa di posizione del responsabile del Servizio per l'Ecumenismo e il Dialogo della diocesi, il diacono Roberto Pagani, che ha parlato di una «lettura della realtà più che adeguata», considerata la massiccia presenza di islamici nella scuola e nel comune di Pioltello. Anche il responsabile scuola della diocesi, don Fabio Landi, aveva fatto la sua parte: «Provvedimento non solo assolutamente normale, ma addirittura auspicabile». E ancora in una intervista al Giorno: «Rispettare la festa dei musulmani è un modo per capire l'altro»; «In fondo si interrompono le lezioni anche per carnevale...»; «le scuole tengono in considerazione le settimane bianche, figuriamoci un appuntamento come questo. È un ottimo esempio davanti a una realtà complessa, se usciamo dalla logica di conquista e ci mettiamo in quella dell'incontro»; «il dirigente ha fatto bene. I bambini sono curiosi, vogliono sapere perché l'altro festeggia e come, percepiscono la divisione molto meno degli adulti».
E c'è da dire che anche il segretario generale della CEI, monsignor Giuseppe Baturi, ha plaudito all'iniziativa: «La necessità del rispetto del fatto religioso e dell'identità delle comunità religiose, da parte dello Stato, - ha detto ai giornalisti - è un fatto positivo, appartiene alla laicità tipica dello Stato italiano». E ovviamente anche Avvenire era saltata subito sul carro dell'iniziativa.
C'è una buona dose di ignoranza, di incompetenza e di confusione in questo entusiasmo del clero per la festa del Ramadan. Basta confrontare le succitate informazioni con le questioni poste da Stefano Fontana nell'articolo che la Bussola ha già dedicato alla vicenda di Pioltello. Non staremo dunque a ripeterci su questo.
Qui invece ci preme sottolineare un aspetto che mette in evidenza la gravità delle affermazioni dei vari leader clericali. Essi infatti vanno ben oltre le intenzioni dichiarate (magari un po' furbescamente) dal preside di Pioltello che, peraltro, ha dalla sua parte tutto il Consiglio d'Istituto. Infatti, mentre il preside ha cercato di circoscrivere la portata della sua decisione a un fatto di semplice opportunità (il 40% degli studenti sarebbe comunque assente quel giorno), gli ecclesiastici intervenuti sono invece arrivati a proporre Pioltello come modello universale di dialogo e di convivenza tra diverse religioni.
Sicché dovremo aspettarci prossimamente che sia la Chiesa a spingere per riconoscere pubblicamente le festività islamiche, non solo a scuola. Diciamo "le" festività perché la fine del Ramadan non è certo l'unica e neanche la più importante. Ci sono una decina di feste importanti nell'islam, a cominciare dalla Festa del sacrificio, Id al-Adha, che quest'anno cade dal 16 al 20 giugno: cosa farà la diocesi di Milano, organizzerà lo sgozzamento dei capretti in oratorio, visto che cade proprio durante l'oratorio estivo?
E poi perché allora non fermare tutto per il capodanno cinese o, per stare in tema religioso, per la Pasqua ortodossa, visto che gli ortodossi in Italia sono quasi quanto gli islamici? E perché allora nulla da dire sul no alla protesta dei tifosi ebrei che non vorrebbero si giocasse il derby Milan-Inter il 22 aprile, perché è la loro Pasqua e così viene impedito loro di assistere a una partita importante?
Il punto è che questi ecclesiastici, oltre ad aver perso le ragioni della propria fede e quindi non più in grado di giustificare la prevalenza delle festività cattoliche sulle altre, hanno una spiccata tendenza alla vigliaccheria: si piegano ai musulmani perché li ritengono forti e pericolosi, e aprendo loro tutte le porte si illudono di guadagnarsi dei favori. E poi ammantano questa vigliaccheria di bei discorsi sul dialogo interreligioso.
Non si rendono conto, invece, che certe concessioni sono interpretate politicamente. Per gli islamisti è una prova, vedere fin dove ci si può spingere nella conquista dello spazio pubblico. Si pone un fatto, quindi si apre il dibattito e, come vediamo per Pioltello, si fa un altro passo nel processo di radicamento istituzionale dell'islam. Oggi si concede una festa in una scuola, domani sarà legittimo richiederlo per tutte le scuole, e non solo. Oggi vale per una festa, domani si chiederà per le altre.
È una prova, così come l'episodio avvenuto all'inizio di marzo in una scuola elementare di Pordenone, quando una bambina di 10 anni è stata mandata a scuola vestita col niqab, l'abito scuro che copre tutto il corpo e il viso, lasciando visibili solo gli occhi. La mediazione dell'insegnante ha fatto sì che dal giorno dopo la bambina si presentasse "solo" con l'hijab, il velo che copre i capelli, la stessa bambina che due giorni prima non aveva né l'uno né l'altro.
È così che pian piano l'islam occupa degli spazi e trasforma la società, mentre gli uomini di Chiesa si ritirano e invece di annunciare Cristo "opportune et importune", pensano a negoziare degli spazi in cui sopravvivere.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 19 marzo 2024

2 - LA PAURA TI BLOCCA? SEI PUSILLANIME?
Il pusillanime crede troppo in sé stesso, e così rimane bloccato (la soluzione è ritornare a Dio)
Autore: Luisella Scrosati - Fonte: Il Timone, febbraio 2024

"Frutto della vana gloria e figlia dell'incredulità" (La Scala, XX,1): è questo, secondo san Giovanni Climaco, l'albero genealogico della pusillanimità. Mai come il nostro tempo la paura è divenuta il pane quotidiano degli uomini, con noi cristiani purtroppo in cima alla lista. Note o ignote disgrazie, probabili o improbabili calamità all'orizzonte , presunte profezie o angoscianti vaticini di uomini che giocano a fare i semidei: tutto acquista peso nel cuore del pusillanime. Non è il semplice fatto di avvertire la paura a essere una patologia dell'anima, ma lasciare che la paura prenda piede, detti le nostre decisioni, penetri i nostri pensieri e i nostri atteggiamento. "L'anima superba è schiava della pusillanimità: confida in sé stessa e poi si spaventa davanti al minimo rumore e all'ombra delle creature!" (XX,3). Il superbo non confida che in sé stesso, nelle proprie forze e convinzioni; il suo coraggio poggia dunque su fondamenti corruttibili, precarie, limitate, e non appena un pericolo lo minaccia la sua fragile fortezza vacilla. E non vedendo che se stesso e le proprie soluzioni, egli vive in una concreta, e a volte teorica, incredulità. Se infatti la superbia e la vanagloria riguardano l'eziologia della pusillanimità, l'incredulità ha a che fare con la patogenesi: è infatti attraverso il processo "fisiologico" della mancanza di confidenza in Dio, causata dalla superbia, che si manifesta della pusillanimità. Secondo la scuola del monachesimo antico, la soluzione alla paura che affligge il pusillanime non risiede nelle rassicurazioni bonarie degli amici e ancor meno nel ricorso alle soluzioni umane della scienza, della politica, della tecnologia. Per non parlare dell'illusoria esortazione a "credere in se stessi", che è invece proprio la causa di questa malattia spirituale. Non c'è che una sola terapia bifronte per il pusillanime: l'umiltà e la confidenza in Dio. La vera umiltà confida audacemente in Dio, la vera confidenza teme il Signore; l'umiltà del pavido non è invece che una forma di larvata incredulità, e la confidenza del temerario un nuovo volto della superbia. Invece, "chi è diventato servo del Signore, teme il proprio padrone, e lui solo; ma chi ancora non lo teme, spesso si spaventa davanti alla sua stessa ombra" (XX,10).
La vittoria della pusillanimità non nasce se non da una continua confidenza nel Signore, tagliando corto su ogni pensiero che possa insinuare che il Signore non è in grado di prendersi cura di noi, o, peggio ancora, che non c'è alcun Dio che ci soccorra. Giovanni Climaco propone un esercizio concreto: "non esitare a recarti in piena notte nei luoghi in cui di solito hai paura, perché se ti lasci andare un po' a questa passione ridicola e infantile, essa finirà per rinvecchiare con te! Mentre ti stai recando là, armati della preghiera e, quando sei arrivato, stendi le braccia e flagella i tuoi nemici con il nome di Gesù: non esiste infatti arma più potente né in cielo né in terra!"(XX,6). A noi figli del secolo che ha fatto ironicamente della sicurezza il principio di ogni cosa, la semplice idea di seguire questo consiglio fa scatenare tuttala contraerea di obiezioni piene di "ragionevolezza": occorre essere prudenti, non bisogna tentare Dio, quei tempi non sono come i nostri, la preghiera sola non basta, in televisione hanno detto che sono aumentati i lupi e gli orsi. E così via, in un'infinita serie di litanie traboccanti della sapienza di questo mondo, che inibiscono la litania del ricorso a Dio.
Eppure, San Giovanni Climaco non ha dubbi sull'efficacia della terapia e nemmeno sul modo per non perdere più la sanità dell'anima: "una volta guarito da questa malattia, eleva un canto a colui che ti ha liberato, perché se gli dimostrerai gratitudine, egli ti proteggerà in eterno" (Ibi).

Fonte: Il Timone, febbraio 2024

3 - ALLA SCOPERTA DEL BUON LADRONE A CUI GESU' PROMETTE IL PARADISO SUBITO
San Disma era un capo brigante egiziano fratricida: sulla sua croce era scritto Hic est Dismas Latronum Dux (''ladroni'' indicava rapinatori, briganti e assassini)
Autore: Roberto De Mattei - Fonte: Radio Roma Libera, 24 marzo 2024

La liturgia latina della Chiesa ricorda il 25 marzo san Disma, il buon Ladrone, a cui Gesù disse sul Calvario: "Oggi sarai con me in Paradiso". La scelta del 25 marzo non è casuale. Questa data non è solo quella dell'Annunciazione e dell'Incarnazione del Verbo ma secondo un'antica tradizione è anche il giorno in cui il Salvatore dell'Umanità consumò il suo supremo sacrificio. Il Vangelo ci dice che sul Calvario crocifissero Gesù con due Ladroni, mettendone uno alla sua destra e uno alla sua sinistra (Lc, 23, 39-42). Ne conosciamo il nome dai Vangeli apocrifi: Disma il buon Ladrone e Gisma, o Gesta il cattivo Ladrone.
La parola Ladrone non deve trarre in inganno. Il termine Latrones indicava i briganti da strada, non solo ladri, ma assassini e rapinatori, puniti di morte presso tutti i popoli dell'antichità. Per umiliare Gesù furono scelti i più scellerati tra i tanti che riempivano le prigioni di Pilato. Disma era un capo brigante, probabilmente egiziano, vissuto e invecchiato tra i delitti più gravi, tra i quali quello di fratricidio. Sulla sua croce era scritto: Hic est Dismas latronum Dux
La morte in croce era tra le più dolorose e il condannato soffriva terribilmente, sospeso a quattro chiodi. I due malfattori imprecavano tra gli spasimi, mentre Gesù sopportava i tormenti con pazienza inalterabile. Le sue prime parole sulla Croce furono di misericordia per i suoi carnefici: "Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno" (Lc, 23, 24).
Entrambi i Ladroni ascoltarono queste parole, entrambi ricevettero la grazia sufficiente a riconoscere l'innocenza di Cristo, ma uno si convertì, l'altro continuò a bestemmiare. San Luca racconta che dei due ladri, appesi alla Croce accanto a Cristo, uno si beffava di lui dicendogli: "Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!". Ma l'altro lo rimproverava: "Neanche tu hai timore di Dio, benché condannato alla stessa pena? Noi giustamente siamo condannati alla Croce, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male". E aggiunse: "Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno". Gesù gli rispose: "In verità io ti dico che oggi sarai con me in Paradiso" (Lc, 39-43).
 Disma dunque insorge alle parole di oltraggio contro Gesù del suo compagno di rapine e lo corregge apertamente, in maniera severa, accusandolo di non capire che Gesù è innocente, mentre loro sono colpevoli e giustamente condannati. Il suo è un atto di pentimento, ma egli non si limita a riconoscere le proprie colpe, proclama l'innocenza di Cristo, dicendo: "Non ha fatto niente di male". Lo proclama, quando tutto il mondo condanna Gesù e gli Apostoli tacciono. Disma rompe il silenzio, afferma pubblicamente la verità.

LA GRAZIA DELLA FEDE
Per affermare l'innocenza di Gesù era sufficiente la luce della ragione, illuminata dalla grazia, per proclamarlo Dio era necessaria la grazia sfolgorante della fede. Dopo aver difeso Gesù contro il cattivo ladrone, Disma riceve la grazia della fede soprannaturale che esprime nelle parole: "Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno"(Lc, 23, 42). Non era tra coloro che avevano seguito Gesù nella sua predicazione, nessun angelo glielo aveva suggerito. Non vedeva la Divinità di Cristo, ma un'umanità sfigurata dalle sofferenze. Eppure, pur vedendolo crocifisso, non dubitò che fosse Dio. San Roberto Bellarmino dice, "Chiama Signore uno che guarda nudo, ferito, sofferente, deriso e schernito pubblicamente, appeso con lui e afferma che dopo la morte andrà nel suo regno. Da ciò si comprende che egli non sognava un regno temporale di Cristo sulla terra, come aspettavano i Giudei, ma un regno eterno dopo la morte nel Cielo. Chi gli aveva insegnato misteri così alti? Nessuno certamente, se non lo spirito di verità" (Le Sette parole di Cristo, in Scritti spirituali, Morcelliana, Brescia 1997, pp. 556-557).
Gesù aveva detto: "Chi mi confesserà davanti agli uomini io lo confesserò ed onorerò dinnanzi al Padre Mio e ai suoi Angeli" (Mt, 10, 32). E mantiene la promessa. Disma otterrà la più preziosa delle ricompense.
La parola di Disma "Domine, memento mei, cum veneris in Regnum tuum" è una preghiera che va ripetuta con cuore umile e fiducioso. A questa preghiera Gesù risponde: "Amen dico tibi: hodie mecum eris in Paradiso"; "In verità io ti dico che oggi sarai con me in Paradiso". E' la seconda parola di Gesù in Croce. La parola Amen è quasi il giuramento di Cristo, che non dice a Disma, sarai con me in Paradiso nel giorno del Giudizio, e neppure tra qualche anno, mese o giorno, ma promette che quel giorno stesso si sarebbero aperte per lui le porte del Cielo.
"Oggi sarai con me in Paradiso", sono le parole più angeliche e armoniose che possano risuonare ad un orecchio umano ed è per questo che tanti compositori, da Franz Joseph Haydn a Charles Gounod, a Théodor Dubois, le hanno messe in musica, con commoventi melodie che cantano la speranza della salvezza eterna.

LA RAGIONE DELLA CONVERSIONE
La ragione della conversione di Disma fu la grazia divina che ne inondò l'anima. I Padri attribuiscono la causa strumentale di questa conversione all'ombra che Cristo proiettava sul Ladrone, mentre pronunciava le sue prime parole in Croce. Il volto di Cristo, scrive mons. Jean-Joseph Gaume (1802-1879), era rivolto a Occidente, il sole era a mezzogiorno e l'ombra del Redentore si stese alla sua destra su Disma chiamando il buon Ladrone dal nulla del peccato alla vita della grazia (Storia del buon ladrone, Tip. Ranieri Guasti, Prato 1868, pp. 135-136). Ma se è vero che ogni grazia viene da Maria, come dubitare del ruolo primario della Madonna nella conversione di Disma? Ella si trovava in piedi, tra la Croce di Cristo e quella del buon Ladrone e pregò certamente per lui. Quando poi udì le parole di Disma ne ebbe un'immensa consolazione, perché queste parole proclamavano davanti al Cielo e alla terra le verità dell'innocenza del Figlio e della sua divinità. Nel Venerdì santo, nessuno, al di fuori di Disma, ebbe una fede simile a quella incrollabile di Maria.
Tre croci si innalzano sulla cima del Calvario. Alla destra l'umanità penitente che sta per salire in Cielo. Alla sinistra l'umanità impenitente che cade nell'inferno. Nel mezzo è l'Uomo-Dio Giudice supremo dei vivi e dei morti. Nel giorno del Giudizio, gli eletti saranno alla destra del divino giudice, ed alla sinistra i reprobi. Di due che staranno sul campo, dice il Vangelo, uno sarà preso e uno sarà lasciato (Lc, 17, 34). Il buon Ladrone è l'immagine degli eletti, il cattivo ladrone dei riprovati.
Tra gli straordinari miracoli che seguirono alla morte di Gesù ve ne fu uno impressionante, che san Matteo descrive con queste parole: "i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. E uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti" (Mt, 52-54). Profeti e Re di Israele furono tra coloro che apparvero per le vie di Gerusalemme convertendo alcuni, ma senza riuscire a scuotere l'incredulità dei molti. Quale stupore fu per gli abitanti della Città santa vedere tra questi risorti il vecchio brigante Disma proclamare la verità di Cristo, trasfigurato nell'anima e nel corpo. I risorti rimasero a Gerusalemme fino al momento dell'Ascensione quando Gesù li portò con sè in Cielo. La sentenza secondo cui i risorti del Calvario sono in Cielo anima e corpo è, secondo i teologi, la più sicura e tra questi risorti, bisogna annoverare san Disma, il buon Ladrone (Gaume, op. cit. pp. 278-288).
San Disma è il protettore dei peccatori che si trovano in punto di morte. Oggi il mondo oltraggia Cristo come il cattivo ladrone sul Calvario. Chiediamo al buon Ladrone di infondere il suo spirito penitente e fiducioso nell'Occidente che muore. La promessa di Fatima ha la stessa dolcezza delle seconde parole di Gesù in Croce. Il trionfo del Cuore Immacolato di Maria sarà il paradiso storico delle nazioni, cioè la restaurazione della civiltà cristiana che seguirà all'inferno storico del nostro tempo.

Fonte: Radio Roma Libera, 24 marzo 2024

4 - LA COMPUNZIONE, IL DOLORE CHE AVVICINA A DIO
C'è una cattiva tristezza (malinconia), piena d'amarezza e che conduce all'inferno, ma ce n'è una buona (compunzione) che non si rattrista per la perdita di cose temporali, ma della perdita di Dio e che ci apre le porte del cielo
Fonte La Bussola Mensile, febbraio 2024

«Come c'è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e porta all'inferno, così ce n'è uno buono, che allontana dal peccato e conduce a Dio e alla vita eterna» (Regola di San Benedetto, 72). Con queste parole San Benedetto introduce il penultimo capitolo della Regola (RB). Nel nostro sforzo di comprendere cosa sia la compunzione, potremmo semplicemente sostituire la parola "zelo" con "tristezza": proprio come c'è una cattiva tristezza, piena d'amarezza, che separa da Dio e conduce all'inferno - e la chiamiamo malinconia -, così c'è una buona tristezza che separa dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna: la compunzione. Parlando di questi due tipi di tristezza, San Paolo dice che «la tristezza secondo Dio produce un ravvedimento che porta alla salvezza, del quale non c'è mai da pentirsi; ma la tristezza del mondo produce la morte» (2 Cor 7,10).
Come si fa a capire la differenza tra le due? Per cominciare, dovremmo riconoscere che tutta la tristezza deriva da una perdita, reale o percepita: di qualche oggetto importante, di un lavoro, di una casa o di un'auto, di un animale domestico, dell'affetto e del rispetto degli altri, di una relazione importante, dell'amore, di una persona cara. Nelle sue fasi iniziali, tutta la tristezza è moralmente neutra, ma siamo noi a guidarla verso la compunzione o la malinconia.
Ora, se la nostra disposizione fondamentale è quella della fede in Gesù Cristo, allora saremo in grado di considerare ragionevolmente se possiamo fare qualcosa per riguadagnare ciò che abbiamo perso e, in tal caso, pregheremo per avere la saggezza e la fortezza per farlo. Se, tuttavia, l'oggetto perduto non è recuperabile, vedremo che ciò che è stato perso non era così importante, come inizialmente pensavamo; oppure saremo in grado di accettare la nuova realtà con fede nell'amore provvidenziale di Dio e nella sottomissione alla sua santa volontà. Inoltre, lasceremo che Dio stesso si sostituisca a ciò che era perduto, così che si realizzino in noi le parole della Madonna: «ha ricolmato di beni gli affamati» (Lc 1,53).

LE LACRIME BUONE E QUELLE CATTIVE
«Vanno bene le lacrime, dice Sant'Ambrogio, se tu riconosci Cristo» (Esposizione del Vangelo secondo Luca, X, 161), cioè se ti addolori nella verità e nell'amore di Dio. Tale dolore si trasforma felicemente in una santa compunzione. Se, invece, non si piange nella fede, ma si cerca di fare da soli, senza Dio, ne deriva la confusione mentale e si è incapaci di trovare il sentiero che conduce fuori dalla selva oscura. Al posto della rassegnazione alla volontà di Dio che dona pace, c'è una rabbia costante che rifiuta di accettare qualsiasi perdita, un'amarezza che tratta tutti come fossero una qualche sorta di nemico. Tale dolore è purtroppo diventato malinconia. La malinconia di questo tipo rifiuta di accettare la realtà e quindi non ha fine; nasce dall'orgoglio e spesso porta a un'autocommiserazione paralizzante che incolpa gli altri per le perdite subite.
La malinconia può derivare dall'orgoglio anche sotto forma di odio verso se stessi. In questo stato vediamo noi stessi come un fallimento secondo gli standard del mondo (non di Dio) e di conseguenza ci disprezziamo. Questa malinconia frutto dell'odio di sé può apparire una forma di umiltà, un santo disprezzo di sé; ma quanto sia lontano dall'umiltà è dimostrato dalla freddezza, anzi, dal disprezzo, che questa persona prova per Dio. La genuina umiltà, al contrario, è sempre legata a un profondo amore per Dio e alla sottomissione alla sua volontà: «Ci sono alcuni che piangono, ma non sono umili; piangono perché sono afflitti, tuttavia pur fra le lacrime si levano contro il prossimo e contestano le disposizioni del Creatore» (Gregorio Magno, Moralia, IX, 56).
C'è un altro tipo di malinconia, quella che desidera i beni terreni, ed è rattristata dalla loro assenza o perdita. Le persone afflitte da questa malinconia si sottomettono devotamente ai gioghi più duri della schiavitù per ottenere queste cose e, quando riescono nel loro scopo, sono ancora più infelici, poiché ogni bene mondano deve essere affannosamente protetto dalla perdita e vi si deve infine comunque rinunciare quando si muore.

COMPUNZIONE VS MALINCONIA
Il dolore della compunzione, tuttavia, è lontano dalla malinconia come l'Oriente lo è dall'Occidente. Chi è pervaso da compunzione non è rattristato dalla perdita delle cose temporali, ma dalla perdita di Dio. Come il Salmista, questa persona trova consolazione in Dio solo e merita la beatitudine da Lui pronunciata: «Beati coloro che piangono, perché saranno consolati» (Mt 5,5). Tali anime si considerano semplici viandanti e vedono questa vita per quello che è: un luogo di pellegrinaggio e una valle di lacrime, e sono quindi piene di quel dolore che, secondo San Gregorio Magno, è l'amarezza dei saggi (amaritudo sapientium) e il dolore del cuore degli eletti (luctus cordis electorum) (cfr. Moralia, XVIII, 66; XV, 68).
San Gregorio distingue due tipi fondamentali di compunzione: una di paura e una di amore. La prima è una purificazione dal peccato e una protezione contro di esso; l'altra è una forza del desiderio spirituale che ci trascina verso il Cielo. Due tipi e quattro motivi: «Quando ricorda le proprie colpe, considerando dov'era (ubi fuit); quando teme la sentenza del giudizio di Dio e interrogandosi pensa dove sarà (ubi erit); quando esamina seriamente i mali della vita presente, con tristezza considera dov'è (ubi est); quando contempla i beni della patria eterna che ancora non ha raggiunto, piangendo si rende conto dove non è (ubi non est)» (Moralia, XXIII, 41).
I primi due nascono dal timore di Dio, che è il primo e fondamentale dono dello Spirito Santo. Ma è soprattutto attraverso il dono della scienza che la compunzione della paura matura e cresce in noi, perché ci permette di vedere noi stessi come siamo, con i peccati che ci allontanano da Dio, ma anche creati a sua immagine e somiglianza, redenti dal sangue di suo Figlio e chiamati nell'amore ad essere santi come Lui. Vedendo la nostra peccaminosità e ingratitudine verso Dio, siamo pieni di disgusto verso noi stessi e arriviamo a odiare i nostri peccati; ma vedendo il prezzo che il Figlio di Dio ha pagato per la nostra salvezza, ci viene data la speranza di cambiare le nostre vite e diventare santi come Lui è santo.

IL TIMORE DEL SIGNORE
Così il dono del timore del Signore ci ispira a «essere sempre consapevoli di tutto ciò che Dio ha comandato» e porta i nostri pensieri a «meditare costantemente sul fuoco dell'Inferno che brucerà per i loro peccati coloro che disprezzano Dio»; e così ci protegge ogni momento «dai peccati e dai vizi». Questa santa paura ci dà la certezza che «Dio ci guarda sempre dal cielo e che le nostre azioni sono ovunque visibili agli occhi divini e vengono costantemente segnalate a Dio dagli Angeli» ; ci fa sentire «in ogni momento la colpa dei nostri peccati in modo tale che ci consideriamo già difronte al tremendo Giudizio e diciamo costantemente nel nostro cuore ciò che il pubblicano del Vangelo ha detto con gli occhi fissi sulla terra: Signore, sono un peccatore e non sono degno di alzare gli occhi al cielo» (Regola di San Benedetto, 7)
Le anime pervase da questa duplice compunzione di paura provano una profonda contrizione per i loro peccati e temono di finire con i dannati alla sinistra di Cristo. Fanno proprie le richieste del Miserere, insuperabile preghiera di pentimento e contrizione; e chiedono misericordia come se fossero già di fronte al Giudizio Universale, in sentimenti che sono perfettamente espressi nel Dies Irae, quel capolavoro poetico della Messa da Requiem. In queste preghiere, vediamo da un lato un timore servile che ha paura della punizione, dall'altro un timore filiale che rabbrividisce al pensiero di offendere Dio. Il primo diminuisce man mano che il secondo aumenta, poiché il timore filiale è espressione della carità, di «quell'amore perfetto di Dio che scaccia il timore servile» (RB 7; 1 Gv 4,18).
Con la crescita del timore filiale, entriamo nella terza compunzione: il nostro amore per Dio e il nostro desiderio di essere con Lui danno origine a una disponibilità a soffrire in questa vita per meritare la beatitudine eterna nella prossima. Una grande fonte di consolazione per chi si trova in questo stato è la bella preghiera della Salve Regina, nella quale ci rivolgiamo alla Madonna perché ci consoli tra le inevitabili afflizioni di questa vita. I nostri occhi, dal suo volto materno, ritornano di nuovo su questo mondo. E lo vedono per quello che è: un luogo di esilio e tentazione, di fatica e sofferenza, giusta penitenza per il peccato originale e per i nostri molti peccati personali. Ma Dio nella sua misericordia ci permette di considerare queste sofferenze come benedette, perché con esse «condividiamo le sofferenze di Cristo e meritiamo di avere una parte anche nel suo regno» (RB, Prologo). E così si comprende la "legge" dei santi: «quanto più in questo mondo l'anima del giusto è afflitta dalle avversità, tanto più acuta diventa la sua sete di contemplare il volto del proprio Creatore» (Moralia, XVI, 32).
Divenuti così cari a Dio per le fatiche, possiamo stabilirci nella quarta compunzione, in cui non c'è più dolore, ma solo gioia penetrante, perché sente Dio vicino e disponibile ogni volta che si prega. San Benedetto ci dice che questo può accadere anche a noi, perché «quando avrai fatto queste cose, gli occhi del nostro Padre celeste saranno su di te e le Sue orecchie saranno aperte alle tue preghiere; e prima che tu Lo invochi, ti dirà: eccomi» (RB, Prologo).

Fonte: La Bussola Mensile, febbraio 2024

5 - GLI ECOLOGISTI FANNO, DA SEMPRE, SOLO DANNI
Vi dimostro perché l'ambientalismo è più mortale di nazismo, comunismo e terrorismo messi insieme
Autore: Franco Battaglia - Fonte: Sito di Nicola Porro, 23 marzo 2023

Siamo in primavera, e quest'anno ricorre il 60mo anniversario della prima edizione italiana (Feltrinelli, 1963) della Primavera Silenziosa, la Bibbia degli ambientalisti. Personalmente ritengo l'ambientalismo - assieme alla schiavitù, al nazismo, al comunismo, al terrorismo - uno dei grandi mali che hanno afflitto questa nostra umanità. Qualcuno dirà che sono severo, qualcun altro taglia corto e dice che sono provocatore e bugiardo. Facciamo così: giudicate voi.

L'UTOPIA AMBIENTALISTA
È indubbio che l'ambientalismo è animato da, apparentemente e a parole, ottime intenzioni, e dove portano le strade così lastricate lo sapete già. E ottime furono, almeno a parole, le intenzioni del nazismo e del comunismo e, se chiedete ai terroristi, anche del terrorismo. L'ottima intenzione dell'ambientalismo - di cui, peraltro, proprio i gerarchi nazisti furono ardenti seguaci - è salvare il pianeta. Da chi e/o da cosa? Da chi, dall'uomo stesso: siamo noi il cancro del pianeta e come ogni cancro va estirpato con la forza. Da cosa, da una pletora di pericoli che, però, sono per lo più inventati. Porre in essere azioni per minimizzare rischi inesistenti o, peggio, per ignorare (o, sempre peggio, aggravare) rischi reali, può avere conseguenze fatali e pandemiche.
Rachel Carson aveva iniziato gli studi universitari di biologia e, coerente con una pratica che sarebbe diventata ricorrente tra gli ambientalisti, non riuscì a completarli: si fermò al bachelor (l'equivalente della nostra odierna laurea triennale) e con diversi anni di ritardo rispetto ai coetanei. Fallita come scienziata, si dette alla divulgazione contro la scienza. Anche questo è tipico. Nel 1948 Paul Muller era stato premiato col Nobel per aver inventato la molecola del Ddt, cruciale per la lotta contro il tifo e la malaria. Nel 1948, nella sola isola di Ceylon (odierno Sri Lanka), si contarono 2 milioni di casi di malaria che, grazie al Ddt - poi benedetto da Winston Churchill come "polvere miracolosa" - si ridussero a 31 casi nel 1962.

LA MISTIFICAZIONE VERDE SUL DDT
E nel 1962 uscì Silent Spring. Nel cui primo capitolo la Carson si inventò di sana pianta una città ove, così avvelenata dal Ddt, le primavere sarebbero, appunto silenziose, a causa della morte di tutte le specie di insetti e uccelli che altrimenti allietano le orecchie di chi va per prati. La città naturalmente non esiste ma, lo stesso, il Ddt fu bollato nel libro come «l'elisir della morte», mentre invece stava salvando milioni di vite umane. Cosa che continuò a fare fino a quando la campagna lanciata dalla Carson e urlata dai movimenti ambientalisti (che stavano al tempo nascendo) lo mise al bando, proibendone l'uso in tutto il mondo. La conseguenza fu (è) che milioni di persone hanno ripreso (stanno continuando) a morire per la malaria: nel mondo, 200 milioni di casi e 400mila decessi solo nel 2019. Nel caso foste ancora convinti che quella mia all'inizio era provocazione, continuate a leggere.

GUERRA AGLI OGM
Non contenti della strage della malaria, gli ambientalisti del mondo sono impegnati in altre non meno imponenti stragi. La lotta all'agricoltura con organismi geneticamente migliorati (Ogm) è una di queste. Vi sono nel mondo oltre un miliardo di persone che, essendo la loro unica fonte di nutrizione il riso (vegetale di propria natura privo di vitamina A), soffrono di un grave deficit alimentare, che nei casi più severi provoca cecità o anche morte prematura. Se solo quelle persone potessero coltivare golden rice che, geneticamente migliorato, è ricco di beta-carotene (un precursore della vitamina A), il loro destino sarebbe meno miserabile. Ma non possono, perché gli ambientalisti del mondo hanno dichiarato la guerra agli Ogm.

LE FAKE NEWS SULLA CO2
Un'altra tragica lotta intrapresa dai nostri eroi è quella per la riduzione delle emissioni di CO2. Dovete sapere che l'85% delle azioni che noi facciamo sfruttano energia prodotta con emissioni di CO2 (il restante 15% no, grazie alle tecnologie nucleare e idroelettrica) e che l'80% dei costi del cibo nel nostro piatto sono costi energetici: in pratica, la moderna agricoltura altro non è che la trasformazione di petrolio in cibo. Orbene, ridurre le emissioni di CO2 del 50% come i Verdi vorrebbero imporre all'universo mondo, a noi farebbe saltare la cena, ma porterebbe centinaia di milioni di persone nel mondo dalla condizione di morti-di-fame a quella di morti per fame.
E ora il vostro severo verdetto: ditemi se è vero o no che l'ambientalismo è già stato più mortale di schiavitù, nazismo, comunismo e terrorismo messi insieme, e ancora più danni potrebbe fare se i suoi insani propositi non sono fermati.

L'ECOCIDIO DIVENTA REATO: LA NUOVA FOLLIA VERDE PRENDE FORMA NELL'UE
Da 5 a 10 anni di carcere per commercio illegale di legname, estrazione dell'acqua da una fonte, diffusione di specie invasive, distruzione dell'ozono (questi ed altri saranno reati paragonabili ai crimini di guerra)
di Luca Volontè
https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7717

Fonte: Sito di Nicola Porro, 23 marzo 2023

6 - PAPI E ANTIPAPI, SEDE VACANTE E PAPA LEGITTIMO (1° parte)
Dopo la cattività avignonese iniziò il Grande Scisma d'Occidente che coinvolse 4 papi e altrettanti antipapi
Autore: Luisella Scrosati - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 11 febbraio 2024

Dopo il lungo periodo della "cattività avignonese" (1316-1377), durante il quale la Sede apostolica era stata trasferita nella città di Avignone da parte di Giovanni XXII (1244 ca - 1334), la città di Roma era rimasta senza pastore. I papi avignonesi, preceduti da Clemente V (1264-1314) che aveva trasferito la sede prima a Poitiers e poi a Carpentras, non risultarono così succubi delle politiche dei monarchi francesi; e tuttavia era chiaro che l'influenza francese esisteva. Il papato non riusciva a stare a Roma, lacerata dalle contese tra la famiglia Orsini e la famiglia Colonna; in Francia godeva sì di una libertà, ma pur sempre una "libertà vigilata": il peso dell'autorità ne risultava particolarmente indebolito. Iniziarono a comparire anche alcune correnti teoriche relativizzanti l'autorità pontificia, correnti che si facevano strada in ambito universitario sulle spalle di due grandi figure intellettuali del XIV secolo: il francescano Guglielmo di Ockham (1288-1347) e Marsilio da Padova (1275-1342).
A dare il colpo di grazia, in quella fase, alla credibilità del papato fu però la tragica scissione, che prese il nome di Grande Scisma d'Occidente, e che durò quarant'anni, coinvolgendo quattro papi e altrettanti antipapi.
Il ritorno del papa, da Avignone a Roma, realizzato da Gregorio XI (1330-1378), rappresentava agli occhi dello stesso pontefice la possibilità di una crisi peggiore, che avrebbe sommato il potenziale pericolo delle contese delle famiglie romane con quello dei maneggi avignonesi, rischiando di mettere il papato dentro ad un ginepraio inestricabile. Nel tentativo di evitare questo scenario, Gregorio dispose che il conclave futuro avesse inizio subito dopo il suo decesso, senza attendere l'arrivo dei cardinali che risiedevano fuori dall'Urbe, e che il nuovo pontefice sarebbe stato eletto con una maggioranza semplice, per evitare il dilungarsi del conclave.

URBANO VI (1318-1389)
Morto dunque Gregorio il 27 marzo 1378, l'8 aprile i 16 cardinali presenti a Roma elessero l'arcivescovo di Bari, Bartolomeo Prignano, che prese il nome di Urbano VI (1318-1389). Il quale si mostrò sì determinato nel voler intraprendere la riforma della Chiesa, ma si mise contro quasi tutti per il suo carattere scontroso e irascibile e i suoi modi del tutto inconcilianti. Pare che, tra l'altro, avesse dato dell'imbecille al cardinale Giacomo Orsini e della canaglia al cardinale arcivescovo di Amiens. Alcuni cardinali francesi, dapprima ad Anagni e poi a Fondi, dichiararono invalida l'elezione di Urbano VI a causa di pressioni esterne sul conclave, e il 20 settembre elessero il cardinale di Ginevra, che prese il nome di Clemente VII (1342-1394) e pose la sua sede ad Avignone.
La cristianità d'Occidente si spaccò così in due: al papa romano prestarono fedeltà gli Stati nel centro-nord dell'Italia, i Regni d'Inghilterra, Ungheria, Polonia, Portogallo, Svezia, Norvegia e Danimarca, mentre al papa avignonese si strinsero i Regni di Francia, Aragona, Castiglia, Napoli, Sicilia e Scozia. Si videro cardinali contrapporsi ad altri cardinali, vescovi a vescovi, abbazie ad abbazie, e persino nelle stesse diocesi e nei monasteri sorsero divisioni. Anche i santi erano divisi e contrapposti: a sostegno del papa di Roma si schierarono Caterina da Siena, Caterina di Svezia, il grande predicatore olandese Geert Groote; la riformatrice delle Clarisse, santa Coletta, il grande predicatore domenicano Vincenzo Ferreri e il giovane beato Pietro di Lussemburgo sostennero invece per un certo tempo la legittimità dei papi avignonesi, pur adoperandosi per tentare di ricomporre lo scisma.
La situazione era in stallo, perché da entrambe le parti si portavano ragioni convincenti per sostenere la legittimità dell'uno e l'illegittimità dell'altro pontefice. I quali si scomunicarono a vicenda. Vennero persino contrapposte lacrime a lacrime. Due grandi giuristi si affrontarono sulla questione: da una parte il laico Giovanni da Legnano, insegnante di diritto canonico e civile, che difese la legittimità dell'elezione di Urbano VI nel De fletu Ecclesiæ, scritto proprio nell'anno dell'elezione del pontefice (1378); dall'altra l'abate Jean Le Fèvre (1320-1390), poi vescovo di Chartres, statista e cancelliere di Luigi I e Luigi II d'Angiò, che rispose con il De planctu bonorum (1379), difendendo l'elezione di Clemente VII.

ROMANO LO VOLEMO, O ALMANCO ITALIANO!
A ben vedere, il conclave che aveva portato all'elezione di papa Urbano era stato piuttosto movimentato. I romani, sapendo che al conclave la maggioranza dei cardinali era composta da francesi, fecero sentire le loro minacce, con il famoso grido: «Romano lo volemo, o almanco italiano!». Grida che si materializzarono nell'invasione nella stanza del Conclave... Dunque, le pressioni ci furono, ma sarebbe stato doveroso verificare se fossero state tali da viziare formalmente il conclave. Ma non fu per questa strada che si volle risolvere la situazione: l'obiettivo era mettere fuori gioco Urbano VI, il cui comportamento era sempre più ingestibile. E così ne nacque uno scisma lacerante.
La situazione però andò persino peggiorando. Nella linea dei papi di Roma, a Urbano VI successero Bonifacio IX (1350 ca - 1404), Innocenzo II (1336 ca - 1406), che regnò per soli due anni, e Gregorio XII (1335 ca - 1417); all'antipapa Clemente VI, successe, nel 1394, il cardinale spagnolo Pedro Martínez de Luna, che prese il nome di Benedetto XIII (1328-1423). I tentativi tra le due parti di risolvere lo scisma non andarono a buon fine; anche quello più recente, tra Gregorio XII e Benedetto XIII, finì in nulla. Questa situazione prolungata, dopo trent'anni di divisione, portò all'esasperazione tra i cardinali di entrambe le parti, i quali decisero di trovare essi stessi una soluzione per porre fine allo scisma... e ne crearono un altro.
Riuniti in concilio a Pisa, il 25 marzo 1409, dichiararono scismatici ed eretici i "due papi", i quali, sulla base del principio che il papa eretico non è più papa, dovevano perciò essere sostituiti. Venne così eletto un "terzo papa" (secondo antipapa), nella persona dell'arcivescovo di Milano, Pietro Filargo, che prese il nome di Alessandro V (1339-1410); il quale però morì l'anno dopo la sua elezione e venne sostituito dal promotore del concilio pisano, il cardinale napoletano Baldassarre Cossa, che prese il nome di Giovanni XXIII (1370ca-1419). Cossa era stato tra i più attivi per ricomporre la frattura tra Gregorio XII e Benedetto XIII, ma senza riuscirvi. Per questo tentò la strada di un concilio - che sarà poi quello di Pisa - e accettò di tirarsi da parte durante il concilio di Costanza (1414), per cercare di ricomporre la crisi. Ma questo, lo vedremo la prossima volta.

Nota di BastaBugie: l'autrice del precedente articolo, Luisella Scrosati, nell'articolo seguente dal titolo "La Sede vacante e il caso san Vincenzo Ferreri" spiega perché nemmeno in una situazione ingarbugliatissima, nata dall'incertezza sull'elezione di Urbano VI, si può dichiarare la Sede vacante.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 18 febbraio 2024:

Nel 1409, dopo trent'anni di "convivenza" tra due papi (di cui solo uno, ovviamente, legittimo), il tentativo di risolvere la dolorosa e disorientante situazione era sfociata in uno strappo ulteriore: l'elezione di un "terzo papa", come si è visto, nella persona di Pietro Filagro (Alessandro V), durante il concilio di Pisa (1409). Ma torniamo indietro agli anni in cui vi erano "solo" due papi: quello di Roma e quello di Avignone. A sostenere la legittimità di Benedetto XIII, antipapa avignonese dal 1394 al 1423, vi era un grande santo: il dotto frate domenicano Vincenzo Ferreri (in valenciano, Vicent Ferrer; 1350-1419).
Nato a Valencia ed entrato nell'Ordine dei Frati predicatori in giovanissima età, insegnò teologia nella città natale e venne notato per la sua preparazione dal cardinale aragonese Pedro de Luna, il futuro Benedetto XIII. Il cardinale aveva dapprima cercato di sostenere la legittimità di Urbano VI, per poi sostenere l'invalidità del conclave che lo elesse e divenendo così sostenitore dell'antipapa Clemente VII. Eletto "pontefice", scelse proprio Vincenzo Ferreri come suo confessore. San Vincenzo sosteneva la legittimità di Benedetto, ma non era indifferente alla grande lacerazione della cristianità, divisa tra due e poi tre obbedienze, che minacciavano di instaurarsi in modo perpetuo, portando avanti tre linee di successione di prelati che rivendicavano di essere il papa legittimo.
Nel 1413, l'imperatore Sigismondo (1368-1437) convocò un concilio a Costanza, che si sarebbe svolto nel novembre dell'anno seguente, con il preciso scopo di risolvere lo scisma. Dei tre "papi", solo Giovanni XXIII, che quel concilio aveva appoggiato proprio con l'intento di uscire dalla crisi, accettò di presentarsi; ma proprio a lui venne riservato il trattamento più rude e scorretto: fu accusato ingiustamente di ogni nefandezza e deposto. La "leggenda nera" sul cardinale Baldassarre Cossa fu portata avanti per secoli, e solo di recente una preziosa monografia ne ha riscattato la memoria (M. Prignano, Giovanni XXIII. L'antipapa che salvò la Chiesa, Brescia, 2019, con prefazione del card. Walter Brandmüller): antipapa sì, ma non delinquente.
Gregorio XII, papa legittimo, che era esule in Romagna, accettò di abdicare. L'unico che restò inamovibile fu Benedetto XIII. Il re di Aragona, Ferdinando (1380-1416), chiese a Vincenzo Ferreri, la cui fama di santità era molto diffusa, di convincere Pedro de Luna a presentare la propria rinuncia, per permettere poi una pacifica elezione di un nuovo pontefice. Il frate domenicano, nell'agosto del 1415, si recò dall'antipapa, a Perpignan, ma non riuscì a piegarne l'ostinazione. Il mese successivo, persino l'imperatore Sigismondo, con una rappresentanza del concilio di Costanza e alcuni rappresentanti dei vari regni cristiani, raggiunsero Perpignan, ma anche loro non ebbero la meglio sull'ostinazione di Benedetto, che nel frattempo si era ritirato nella fortezza di Peniscola. Un'ostinazione che scandalizzò e addolorò anche i suoi sostenitori, i quali chiesero a san Vincenzo Ferreri di offrire la propria autorità per pronunciare l'ultima parola sulla questione: il santo, il 6 gennaio 1416, lesse solennemente nel castello di Maiorca, davanti a diecimila fedeli, l'editto dei re di Aragona, Castiglia e Navarra, concordato con i padri del concilio di Costanza, il quale stabiliva che, a fronte dell'indurimento del "papa", era ormai divenuto lecito ai suoi sudditi di ritirargli la propria obbedienza. Benedetto XIII era ormai di fatto un (anti)papa senza gregge.
La posizione di san Vincenzo Ferreri è stata a torto considerata da alcuni come un esplicito sostegno della tesi sedevacantista, per cui sarebbe legittimo a chiunque - sebbene non per qualsiasi ragione - dichiarare la Sede apostolica vacante, ritenendo che anche il santo avrebbe fatto questa dichiarazione in virtù del proprio giudizio privato autorevole e "illuminato". Ma il breve riassunto che abbiamo fatto sul Grande Scisma è sufficiente per comprendere che vi sono almeno due elementi fondamentali che non collimano con le posizioni sedevacantiste. Anzitutto, in quella circostanza, si era nella situazione di papi la cui elezione era considerata dubbia, ossia pontefici, o presunti tali, che non erano stati accettati dalla Chiesa universale. La validità dell'elezione di Urbano VI era stata infatti considerata incerta fin dall'inizio, a motivo delle constatabili minacce del popolo romano, che arrivò addirittura a invadere l'aula in cui erano riuniti i cardinali elettori. La divisione fu netta, a partire dalla componente gerarchica della Chiesa, e l'incertezza dell'elezione appariva insolvibile, persistendo anche dopo l'attenta analisi di giuristi ed ecclesiastici competenti.
I professori Erwin Iserloh e Karl August Fink spiegano che, in effetti, ci furono molti interrogatori per comprendere che cosa fosse accaduto durante il conclave che portò all'elezione di Urbano VI (1378): 23 testimoni interrogati a Roma nel 1379 fecero propendere per la legittimità di Urbano, mentre le cento deposizioni dell'anno successivo, raccolte sia ad Avignone che nell'Urbe, erano discordi tra loro. Altre 40 deposizioni, raccolte dal re d'Aragona, propendevano per Clemente VII. Risultato? Si ritenne che l'elezione «non fu libera, ma si svolse sotto la impressio e il metus qui cadit in constantem virum [espressione giuridica per indicare una coazione violenta e non solo modica, n.d.a.]; perciò non è assolutamente valida né assolutamente invalida, ma in tutti i casi contestabile» (Storia della Chiesa V/2, a cura di H. Jedin, 1977, p. 139).
Un nodo gordiano insolvibile. Si trattò dunque di un'elezione veramente dubbia, e di fatto non accettata dalla Chiesa universale (che non corrisponde evidentemente al 100% dei fedeli, ma alla sua parte più rappresentativa, normalmente identificata nei cardinali), per cui, secondo il noto principio papa dubius, papa nullus, nessuno poteva esse vincolato ad un'obbedienza piuttosto che ad un'altra.
Ad ogni modo, quello che san Vincenzo Ferreri fece, non fu dichiarare la Sede vacante, né deliberare che Benedetto XIII non fosse papa (sebbene, effettivamente, non lo fosse), e nemmeno che avesse perso l'ufficio ipso facto per eresia o scisma, sulla base di un giudizio privato. Più semplicemente, nella situazione appena descritta, egli si limitò a leggere un editto sottoscritto da tre re e da tutti i vescovi riuniti a Costanza, che sollevava i sudditi dei tre regni dall'obbedienza dovuta a Benedetto XIII: praticamente più nessuno sosteneva l'antipapa. Non fu dunque senza un "giudizio" della Chiesa che san Vincenzo Ferreri prese una posizione; posizione che non dichiarava la Sede vacante, ma più semplicemente annunciava che, dal momento che Benedetto XIII non accettava di dimettersi per favorire la riunificazione all'interno della Chiesa, era lecito non prestargli più obbedienza.

DOSSIER "PAPI E ANTIPAPI"
Sede vacante e Papa legittimo

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Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 11 febbraio 2024

7 - OMELIE PASQUA DI RISURREZIONE - ANNO B
Veglia Pasquale e Messa del giorno
Autore: Giacomo Biffi - Fonte: La rivincita del crocifisso

1) VEGLIA PASQUALE
Il trionfo di Cristo sulla malvagità umana


Questa è la notte dell'evento più determinante dell'intera storia umana.
È la notte del "passaggio" del nostro Capo - il Figlio di Dio fatto uomo - dalla morte alla vita, dall'umiliazione alla vittoria, dalla tomba al Regno. È la notte del rinnovamento dell'universo - decaduto e contaminato fin dall'origine - che si riconcilia con il suo Creatore e riceve le premesse della gloria futura.
Ed è altresì la notte della nostra personale rinascita dall'acqua e dallo Spirito Santo: noi tutti riviviamo questa nostra fortuna con animo grato, attraverso le letture e le preghiere di questa veglia, e più ancora attraverso la commossa attenzione che presteremo all'esperienza battesimale di alcuni nostri fratelli.

UN ALTO GRIDO
Gesù sulla croce davanti a tutti si era congedato dalla vita terrena con un "alto grido" (cf Mt 27,50); voce di tutta l'angoscia umana ed espressione del veemente appello dei figli di Adamo a Dio Padre che sembra averli abbandonati.
Risorge invece nell'oscurità e nel silenzio: non ci sono testimoni dell'ora in cui egli "mise il potente anèlito della seconda vita".
Ma la sorprendente notizia che il profeta di Nazaret si è ridestato, trapela, si diffonde e a poco a poco si impone.
Dapprima c'è lo sconcerto e l'ansia strana davanti al sepolcro vuoto, coi lini funebri ripiegati con ordine. Poi l'inquietudine diventa bisbiglio di donne che, "piene di timore e di spavento" (cf Mc 16,8) raccontano di aver ricevuto il giubilante messaggio di un angelo. Infine è Gesù stesso vivo e splendente - con la verità e l'integrità del suo essere, autenticato dalle cicatrici delle sue piaghe - a mostrarsi e a parlare a Maria di Magdala, a Pietro, a Giacomo, ai due viandanti di Emmaus, agli apostoli e a più di cinquecento discepoli.
"Il Signore è risorto"; l'annuncio di quei giorni non si è più spento: si è diffuso di cuore in cuore, di generazione in generazione, ha attraversato i secoli, ha varcato gli oceani. E noi questa notte l'abbiamo ancora una volta proclamato con la gioiosa consapevolezza che questa risurrezione è anche principio della nostra, che il trionfo di Cristo sulla morte è primizia e causa del nostro trionfo, che il suo risveglio a un'esistenza trasfigurata e imperitura è premessa della nostra interiore giustificazione e del nostro possesso dell'eredità di Dio.

LA VERA LIBERTA'
Un giorno Gesù aveva chiesto agli incauti figli di Zebedeo, che speravano di fare con lui una bella carriera nel mondo: "Potete bere il calice che io bevo e ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?" (Mc 10,38), rivelando così che il suo più vero battesimo sarebbe stato proprio la sua vicenda pasquale di passione, di morte e di risurrezione.
La vita cristiana, che comincia dal lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo (cf Tt 3,5), è dunque sostanzialmente un inserimento nel "battesimo" di Cristo, cioè nella sua Pasqua.
Il "Primogenito dei risorti" ha voluto che fossimo tutti coinvolti in quel suo felice "passaggio". Egli, ormai libero da ogni miseria e da ogni condizionamento terrestre, ha disposto che per mezzo del battesimo noi potessimo camminare nel mondo godendo di una libertà che è riverbero della sua:
a) libertà dal buio dell'errore e dalle nebbie del dubbio,
b) libertà dalla paura di una fine annientatrice,
c) libertà dalle colpe commesse,
d) libertà dalla nostra debolezza congenita di fronte alle forze del male.
San Paolo ce lo ha insegnato poco fa con molta chiarezza: "Per mezzo del battesimo siamo sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova" (Rm 6,4). Dunque "anche noi condiseriamoci morti al peccato, ma viventi per Dio in Cristo Gesù" (Rm 6,12).
In questa lunga veglia - scandita dal succedersi di molte significative pagine del Libro di Dio, dai nostri salmi responsoriali, dalle orazioni del vescovo - noi abbiamo celebrato appunto la nostra libertà: nessun uomo è più libero di chi è stato riscattato dal sacrificio di Cristo, di chi è stato integralmente riplasmato dalla sua risurrezione, di chi si lascia ogni giorno guidare dalla luce e dall'energia dello Spirito inviatoci dal Signore che siede alla destra del padre.
Le più vere oppressioni non stanno fuori di noi. Le radici di ogni alienazione sono nel nostro mondo interiore. Su quelle radici lo Spirito, che ci è elargito nel battesimo, fa scendere la sua affilatissima scure per abbattere tutte le possibili tirannìe che ne possono derivare: quella dei sensi, che incatena al piacere sregolato e senza finalità; quella dell'avidità per i beni economici, che induce troppe volte all'imbroglio, al sopruso, alla durezza di cuore; quella dell'aspirazione al potere e dell'orgoglio, che spinge a sostituirsi a Dio e a spadroneggiare sugli altri.
Questa della Pasqua è la sola festa incontestabile e universale della liberazione dell'uomo.
Il Signore ci aiuti a non perdere mai questa certezza: una liberazione che non nasca dalla purificazione della coscienza - compiuta nel fuoco dello Spirito (cf Mt 3,11) - non approda mai a una piena e non illusoria libertà.
Solo chi è purificato e liberato nell'intimo, in virtù della rinascita battesimale e della vita di grazia che dal battesimo si sviluppa, porta in sé un vigore che da nessuna coazione esterna può venire mai soffocata; un vigore che consente all'uomo di spendersi coraggiosamente per ogni giusta causa a favore della verità, della giustizia, dell'autentico bene dell'uomo.

2) MESSA DEL GIORNO DI PASQUA
Come Cristo, anche la Chiesa non può restare sepolta


"Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci e in esso esultiamo".
Chi ha la fortuna di celebrare la Pasqua, e di celebrarla non come un appuntamento immancabile del calendario di cui non si coglie più il senso e l'origine; chi ha la fortuna di celebrare la pasqua nella sua verità sostanziale, come la vittoria del Figlio di Dio, morto in croce per noi, che risorge; chi ha la fortuna di celebrare la Pasqua come il riconoscimento che c'è ed è vivo un Signore dell'universo e dei cuori, riscopre che nel mondo - oltre la dura scorza delle nostre paure e delle nostre tristezze - c'è una sorgente inesauribile di speranza e di gioia.
Pasqua è l'inizio del Regno di vita e di libertà, instaurato con il sacrificio e la gloria di Cristo. Al tempo stesso è la festa del nostro ingresso in questo Regno, mediante la rinascita battesimale che ci ha fatti "uomini nuovi". Perché il destino del Signore è anche il nostro.
Anche la comunità ecclesiale come tale è chiamata costantemente a risorgere e a vincere le potenze mondane, le quali a ogni epoca cercano, con vario metodo e vario successo, di racchiuderla nello spazio irrespirabile di una tomba.

IL DEFUNTO DEVE RESTARE DEFUNTO
Vedete con quanta cura le autorità di Gerusalemme si preoccupano di estromettere definitivamente Gesù dalla loro esistenza.
Non contenti di averlo condotto a una morte atroce, "andarono - dice il vangelo di Matteo - e assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi le guardie (Mt 27,66).
Per una sepoltura dignitosa non hanno lesinato i permessi: hanno consentito che fosse un sepolcro nuovo, di lusso, circondato da un giardino (Gv 19,41). Tutti gli onori funebri dunque sono concessi; purché quel defunto resti defunto e non torni a inquietare con la sua parola di fuoco: "assicurarono il sepolcro", con una sollecitudine che tocca la comicità.
Ma, a ben guardare, così avviene anche alla Chiesa, che è il "Cristo totale" che cammina nella storia.
Molti ossequi, purché non disturbi e non interferisca con la sua pretesa di dire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; molta attenzione e molta stima, se si limita a custodire il patrimonio artistico dei suoi templi e si accontenta di organizzare dei bei concerti di musica sacra. Tutto a condizione che il suo insegnamento non susciti contrasti e la sua azione non incida più.
Ci sono epoche e luoghi in cui alla Chiesa è fatto persino divieto di esistere; o, tollerandone l'esistenza, la si opprime con persecuzioni aperte che arrivano anche a imprigionare e a uccidere.
Il nostro secolo ha conosciuto - forse con un'abbondanza senza precedenti - queste situazioni di ostilità violenta nei confronti delle comunità cristiane, nei paesi dell'Est - noi lo sappiamo, anche se pare che ci siamo affrettati tutti a dimenticarlo - questa stagione dei martiri è finita da poco.
E ci sono epoche e luoghi dove, senza leggi esplicitamente vessatorie, si arriva "culturalmente" a soffocare il "Christus hodie" (il "Cristo totale", che è la Chiesa) con la riduzione progressiva della sua voce nella società e nei mezzi di comunicazione (quasi interamente appaltati agli imbonitori di frivolezze e ai maestri del niente), con l'alterazione della verità storica e la tendenziosità dell'informazione, con le complicazioni burocratiche e i capestri finanziari che non consentono più di vivere alle istituzioni cattoliche. Eccetera.
Il sinedrio e gli scribi di turno sono sempre irritati verso il Signore Gesù che non si rassegna a restare quieto e inerte nel suo bel sepolcro. Ma questo Crocifisso, che nessuna tomba riesce più a rinserrare, non è fatto per lasciare tranquilli coloro che pensano di aver risolto col suo seppellimento i problemi della loro licenza di sragionare.

L'UNICO SALVATORE DEL MONDO
In ogni epoca e in ogni luogo Gesù prosegue, nonostante tutto, la sua missione di unico e necessario Salvatore degli uomini.
La grazia specifica da chiedere nella giornata di oggi è quella di capire, con persuasione più limpida e cuore ringiovanito, che la fede è la scoperta e la lieta sorpresa che Gesù Cristo è vivo: la scoperta e la lieta sorpresa del mattino di Pasqua, che si rinnova ogni giorno sino alla fine del mondo.
Ancora oggi, dopo quasi duemila anni, ci deve prendere lo stesso entusiasmo degli apostoli quando si sono resi conto che il loro Maestro amato era risorto: "Gioirono i discepoli al vedere il Signore" (Gv 20,20).
Per la sua nuova condizione di gloria, che gli consente di eccedere i limiti dello spazio e del tempo, Gesù adesso è sempre con noi. E noi ne sentiamo la benedetta presenza, quando ci apriamo con animo semplice all'autenticità e alla integralità della vita ecclesiale.
La percepiamo, questa presenza, nel Vangelo - messaggio di luce e viatico di coraggio - che continua a guidarci e a consolarci, mentre siamo frammisti a un'umanità troppo spesso intristita e persa.
La percepiamo nel dono stupendo dell'Eucaristia, che ci coinvolge nell'offerta del sacrificio del Calvario, principio di ogni salvezza, e che colma e anima le nostre chiese con la realtà della divina presenza di colui che è il nostro redentore e il nostro non deludente amico.
La percepiamo nei santi, in cui egli rivive e agisce efficacemente in mezzo a noi. Palesi o nascosti, i santi non mancano mai tra i credenti: ci sono sempre, a ogni svolta del cammino del popolo di Dio. Con la loro testimonianza essi ci richiamano fortemente al Signore Gesù: sono il profumo e la trasparenza della sua obbedienza al Padre e della sua dedizione ai fratelli.
Cristo risuscitato dai morti non muore più: la morte non ha più potere su di lui" (Rm 6,9). Questo è il fondamento di ogni nostra fiducia, questa è la vera ragione dell'esultanza di questo giorno.

Fonte: La rivincita del crocifisso

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