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MARTA SORDI, ADDIO ALLA GRANDE STORICA
Prestigiosa firma del Timone, celebre per gli studi su impero romano e cristianesimo
Autore: Alfredo Valvo - Fonte: 7 aprile 2009
Marta Sordi lascia un vuoto incolmabile nel campo degli studi di storia antica, che ha dominato per decenni, e fra gli amici – allievi e colleghi – che l'hanno conosciuta e stimata. Nata a Livorno nel 1925 e laureatasi in Lettere all'Università degli studi di Milano con Alfredo Passerini, Marta Sordi intraprese subito dopo la laurea la sua attività di ricerca. Presso l'Istituto italiano per la Storia antica, a Roma, per un quinquennio fu allieva di Silvio Accame, maestro e amico. Dal 1962 all'Università di Messina Marta Sordi formò una prima Scuola, attiva ancor oggi. Alcuni anni più tardi, nel 1967, passò a Bologna, dove ha lasciato una traccia incancellabile, e infine approdò due anni dopo all'Università Cattolica di Milano, dove insegnò Storia greca e Storia romana fino alla fine della sua lunga carriera accademica, nel 2001. Il numero delle sue pubblicazioni è difficilmente calcolabile. Non vi è problema aperto nel campo degli studi di storia antica nel quale Marta Sordi non sia autorevolmente intervenuta lasciando comunque, sempre, un'impronta di originalità e fornendo risposte almeno degne di considerazione, il più delle volte risolutive. Dominava senza difficoltà tutta la storia antica – il mondo etrusco, greco e romano, il cristianesimo dei primi secoli – sostenuta da una intelligenza vivacissima, una memoria prodigiosa e una capacità di cogliere sempre il nocciolo delle questioni. Tra le sue opere si ricordano La Lega tessala fino ad Alessandro Magno (1958), I rapporti romano-ceriti e l'origine della civitas sine suffragio (1960), Il cristianesimo e Roma (1965), Roma e i Sanniti nel IV secolo a.C. (1969), Il mito troiano e l'eredità etrusca di Roma (1989), ; La 'dynasteia' in Occidente: studi su Dionigi I (1992), Prospettive di storia etrusca (1995), I cristiani e l'Impero romano (2004). Nel 2002 sono usciti due volumi che raccolgono i suoi scritti minori: Scritti di Storia greca e Scritti di Storia romana, ai quali sono da aggiungere Impero romano e cristianesimo. Scritti scelti (2006), e Sant'Ambrogio e la tradizione di Roma (Roma 2008). Ma molti altri sono i contributi pubblicati successivamente. Resta indicativa della sua originalità e della sua personalità una delle sue principali caratteristiche nell'affronto di ogni problema storico, che è stata anche una lezione per le generazioni di studenti che l'hanno avuta per maestra: l'interpretazione delle fonti, siano esse letterarie epigrafiche o di qualsiasi altra natura, non può essere condizionata da pregiudizi, di qualsiasi genere. La conoscenza vastissima, per non dire totale, dei documenti utili per la ricostruzione storica e una capacità di sintesi talvolta prossima alla divinazione, oltre naturalmente all'intelligenza storica, consentivano alla Sordi di dominare il campo del dibattito con assoluta libertà, cioè in piena indipendenza dalle tante opinioni, apparentemente consolidate, che costituiscono la communis opinio. (...) Curò e diresse la collana dei «Contributi dell'Istituto di storia antica», uscita con cadenza annuale dal 1972 in poi presso Vita e pensiero; negli ultimi dieci anni aveva coordinato con energia e rigore i convegni annuali della fondazione Canussio di Cividale del Friuli, della quale ha presieduto il comitato scientifico. Marta Sordi ricevette prestigiosi riconoscimenti della sua attività, tra i quali la Medaille de la Ville de Paris, nel 1997, la Medaglia d'oro per i Benemeriti della cultura, nel 1999, e la Rosa Camuna per la Regione Lombardia, nel 2002. L'entità e l'importanza dell'opera scientifica di Marta Sordi si commentano da sole. Chi ne ha condiviso un lungo tratto della vita ha ricevuto da lei una lezione di fermezza e di coraggio, di ideali e principi affermati e vissuti, dello studio e della ricerca intesi come servizio alla verità, di fedeltà e obbedienza alla Chiesa. Una conclusione è sempre troppo limitativa di una personalità grande. Tuttavia, nel presentare più di due anni or sono, all'Università Cattolica, Impero romano e cristianesimo. Scritti scelti, mi vennero in mente parole ricorrenti nel pensiero e negli scritti di Benedetto XVI che Marta Sordi gradì molto, anche se ne rimase stupita, e che qui ripeto come estremo omaggio, carico di affetto e di rimpianto: «La fede è chiamata a spingere la ragione ad avere il coraggio della verità». Credo che questa esortazione Marta Sordi l'abbia messa in pratica lungo tutta la sua vita di studiosa.
Fonte: 7 aprile 2009
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FACEBOOK
Una lettura alla luce del magistero della Chiesa
Autore: Massimo Introvigne - Fonte: 3 aprile 2009
"Facebook: domani smetto" di Alessandro Q. Ferrari (Castelvecchi, Roma 2009) è un romanzo intelligente e che fa riflettere. Ferrari, del resto, è uno degli autori dei fumetti che di recente hanno rilanciato la Walt Disney Italia con un successo anche internazionale ritornando alla "linea chiara" e alle storie semplici e comprensibili, e dimenticando le tentazioni d'imitare i giapponesi. Il romanzo non si consiglia ai bambini per il riferimento insistito e che sembra ormai obbligatorio in ogni opera di narrativa che si voglia vendere a un certo libertinismo sessuale: ma anche questo del resto fa parte di Facebook. In breve, l'opera – che ha una tecnica che si potrebbe definire cinematografica – mette in scena una serie di persone che si avvicinano più o meno casualmente a Facebook e – dopo qualche esperienza che in alcuni casi non è negativa – ne finiscono completamente risucchiate, dedicando al "social network" un numero spropositato di ore e finendo per perdere gli amici, le fidanzate e anche il lavoro. Il paragone con la droga è proposto in modo esplicito e insistito. Tramite gli "amici di amici" su Facebook alla fine molti dei protagonisti s'incontrano. Non per tutti la storia è a lieto fine, anzi lo è solo per coloro che riescono a smettere e ad abbandonare Facebook (alcuni abbandonano Internet in generale, e una delle protagoniste se ne va senza computer in Thailandia). Una prima osservazione è che il libro descrive due problemi reali, il primo è stato studiato da psicologi e psichiatri già da molti anni: il rischio di una dipendenza da Internet che ricorda la dipendenza dalla droga e che isola chi ne è vittima dal mondo reale. Gli studi risalgono in gran parte a un'epoca in cui Facebook non c'era, e certo Facebook rischia oggi di aggravare il problema. Il secondo problema è al centro dello studio sociologico di Internet avviato, con altri, da Tim Jordan: si tratta del cosiddetto "information overload" (sovraccarico d'informazioni). Grazie a, o per colpa di, Internet riceviamo più informazioni di quante siamo capaci di assorbire, vagliare e organizzare e alla fine entriamo in crisi. Anche qui, Facebook può aggravare il problema. Se dunque questi problemi sono reali, vi è un aspetto su cui il libro appare parziale e datato. Nel febbraio 2009 Facebook ha annunciato che gli utenti che sono su Facebook (che oggi sono più di duecento milioni, non più i centocinquanta milioni citati dal romanzo) principalmente per business o cause non profit sono diventati la maggioranza. Per la verità per il business a fini di lucro altri strumenti continuano a essere più importanti di Facebook, mentre quest'ultimo è forse lo strumento più rilevante al mondo per cause politiche (Obama insegna), religiose, culturali e sociali. Di questo in "Facebook: domani smetto" non c'è traccia. I protagonisti del romanzo sono su Facebook principalmente per quello che in gergo giovanile si chiama genericamente "cazzeggio" o per cercare avventure amorose. Personaggi simili, naturalmente, su Facebook ci sono e anzi pullulano: ma forse non sono (più) la maggioranza. Il romanzo di Ferrari m'interroga e stimola una riflessione non solo come sociologo ma anche come cattolico. Facebook e altri strumenti simili sono "buoni" o "cattivi" per il cristiano? Il problema è stato affrontato anche dal Magistero, in particolare attraverso due documenti cruciali: il Messaggio di Giovanni Paolo II per la XXXVI Giornata mondiale delle comunicazioni sociali "Internet, un nuovo Forum per proclamare il Vangelo", del 24 gennaio 2002, e il Messaggio di Benedetto XVI per la XLIII Giornata mondiale delle comunicazioni sociali "Nuove tecnologie, nuove relazioni", del 24 gennaio 2009. Le date sono significative: Facebook è nato nel 2004 nelle università e si è esteso fuori dell'ambiente universitario nel 2006, così che il documento di Giovanni Paolo II si situa prima dell'esplosione di questo strumento. Al riguardo, è anzitutto necessario evitare quello che i sociologi di Internet chiamano (ma l'espressione è più antica di Internet) «determinismo tecnologico», la convinzione cioè che novità tecnologiche determinino automaticamente conseguenze sociali, e che queste conseguenze siano permanenti. Quanto al primo punto, le conseguenze non sono mai automatiche ma dipendono da un numero molto alto di variabili. Quanto al secondo, la velocità con cui la tecnologia muta rende molto incauto chi pensa a conseguenze permanenti o punta tutte le sue fiche su strumenti che diventano rapidamente obsoleti. Per rimanere all'Italia, chi non ricorda i proclami di Beppe Grillo secondo cui i blog avrebbero dominato la politica, pronunciati proprio mentre negli Stati Uniti (come poi sarebbe successo anche in Italia) Facebook stava rendendo ampiamente obsoleti i blog? O gl'investimenti di Antonio Di Pietro per costruirsi una presenza su Second Life, uno strumento che si è rivelato del tutto effimero? Anche Facebook, che oggi è sulla cresta dell'onda, con ogni probabilità sarà superato tra qualche anno da qualche cos'altro. La storia della tecnologia è sottoposta a continue accelerazioni. Insegna dunque Giovanni Paolo II che la Chiesa proclama sempre la stessa dottrina, ma le transizioni tecnologiche esigono che questa proclamazione avvenga tramite «nuove forme di evangelizzazione», le quali richiedono che la Chiesa «impari a parlare le diverse lingue» che di volta in volta emergono. Oggi si tratta di «Internet [che] può offrire magnifiche opportunità di evangelizzazione se utilizzato con competenza e con una chiara consapevolezza della sua forza e delle sue debolezze». Internet spesso «rende possibile un primo incontro con il messaggio cristiano, in particolare ai giovani, che sempre più ricorrono al ciberspazio quale finestra sul mondo». Naturalmente, non tutto va per il meglio: «Internet ridefinisce in modo radicale il rapporto psicologico di una persona con lo spazio e con il tempo. Attrae l'attenzione ciò che è tangibile, utile, subito disponibile. Può venire a mancare lo stimolo a un pensiero e a una riflessione più profondi, mentre gli esseri umani hanno bisogno vitale di tempo e di tranquillità interiore per ponderare ed esaminare la vita e i suoi misteri e per acquisire gradualmente un maturo dominio di sé e del mondo che li circonda. La comprensione e la saggezza sono il frutto di uno sguardo contemplativo sul mondo e non derivano dalla mera acquisizione di fatti, seppur interessanti. Sono il risultato di un'intuizione che penetra il significato più profondo delle cose in relazione fra loro e con tutta la realtà. Inoltre, quale "forum" in cui praticamente tutto è accettabile e quasi nulla è duraturo, Internet favorisce un modo di pensare relativistico e a volte alimenta la fuga dalla responsabilità e dall'impegno personali». Come ovviare a questi problemi? È necessario, risponde Giovanni Paolo II, che «la comunità cristiana escogiti modi molto pratici per aiutare coloro che entrano in contatto per la prima volta attraverso Internet, a passare dal mondo virtuale del ciberspazio al mondo reale della comunità cristiana». «Il fatto che mediante Internet le persone moltiplichino i loro contatti in modi finora impensabili offre meravigliose possibilità alla diffusione del Vangelo. Ma è anche vero che rapporti mediati elettronicamente non potranno mai prendere il posto del contatto umano diretto, richiesto da un'evangelizzazione autentica. Infatti l'evangelizzazione dipende sempre dalla testimonianza personale di colui che è stato mandato a evangelizzare (cfr Rm 10, 14-15)». Queste ultime parole di Giovanni Paolo II sembrano davvero profetiche se riferite ai social network come Facebook, che allora non esistevano. Forniscono già la chiave di quello che Papa Wojtyla metteva a tema: il corretto «utilizzo di Internet per la causa dell'evangelizzazione». Facebook, infatti, in modo molto più immediato e interattivo di un sito Internet o di un blog moltiplica la visibilità delle bandiere (Facebook come si è accennato ha ora superato i duecento milioni di utenti: le dimensioni di «un continente» per usare l'espressione di Benedetto XVI), e fa nascere rapporti virtuali che il gergo dei creatori dello strumento chiama precisamente «amicizie». Che cosa pensare di queste amicizie? Risponde, nel secondo dei documenti citati, lo stesso Benedetto XVI. Anzitutto, il desiderio di stringere nuove amicizie, sia pure virtuali, non è di per sé negativo: «Questo desiderio di comunicazione e amicizia è radicato nella nostra stessa natura di esseri umani e non può essere adeguatamente compreso solo come risposta alle innovazioni tecnologiche. Alla luce del messaggio biblico, esso va letto piuttosto come riflesso della nostra partecipazione al comunicativo ed unificante amore di Dio, che vuol fare dell'intera umanità un'unica famiglia. Quando sentiamo il bisogno di avvicinarci ad altre persone, quando vogliamo conoscerle meglio e farci conoscere, stiamo rispondendo alla chiamata di Dio – una chiamata che è impressa nella nostra natura di esseri creati a immagine e somiglianza di Dio, il Dio della comunicazione e della comunione». Ma anche qui c'è un rovescio di medaglia: «occorre essere attenti a non banalizzare il concetto e l'esperienza dell'amicizia. Sarebbe triste se il nostro desiderio di sostenere e sviluppare on-line le amicizie si realizzasse a spese della disponibilità per la famiglia, per i vicini e per coloro che si incontrano nella realtà di ogni giorno, sul posto di lavoro, a scuola, nel tempo libero. Quando, infatti, il desiderio di connessione virtuale diventa ossessivo, la conseguenza è che la persona si isola, interrompendo la reale interazione sociale. Ciò finisce per disturbare anche i modelli di riposo, di silenzio e di riflessione necessari per un sano sviluppo umano». Chiunque abbia letto il romanzo di Ferrari, ma anche chiunque non si comporti come i protagonisti di quel libro e tuttavia sappia quanto tempo porta via Facebook se lo si vuole utilizzare in modo sistematico e coerente al servizio di una causa, e quanto possa sottrarre al sonno o ad altre attività, non potrà non sentire come rivolto a sé il monito del Papa. Se dunque la prima indicazione – che vale per ogni tecnologia – è quella di considerare anche Facebook (e ogni altro strumento Internet di ieri, di oggi e di domani) come un mezzo, non come un fine, di dominare la tecnologia e di non lasciarsene dominare, la seconda è quella – già sottolineata con grande vigore da Giovanni Paolo II nel 2002 – di non banalizzare l'amicizia rinchiudendola nel cerchio virtuale, e di passare sistematicamente e dove si può dall'amicizia virtuale all'amicizia nel mondo reale. Dal magistero pontificio ricaviamo dunque le seguenti indicazioni:
a. I nuovi strumenti, come ogni strumento, presentano insieme occasioni e rischi (tra cui quello di esserne assorbiti, introducendo nella propria vita rapporti distorti e malsani con il tempo), ma non devono essere considerati di per sé negativi, anzi offrono «meravigliose possibilità alla diffusione del Vangelo».
b. Chi si trova nelle possibilità di farlo deve trarre profitto da queste possibilità: «Carissimi, sentitevi impegnati ad introdurre nella cultura di questo nuovo ambiente comunicativo e informativo i valori su cui poggia la vostra vita!» (Benedetto XVI).
c. L'apostolato via Internet e via Facebook non può né deve essere affrontato in modo casuale e dilettantesco: «Nei primi tempi della Chiesa, gli Apostoli e i loro discepoli hanno portato la Buona Novella di Gesù nel mondo greco-romano: come allora l'evangelizzazione, per essere fruttuosa, richiese l'attenta comprensione della cultura e dei costumi di quei popoli pagani nell'intento di toccarne le menti e i cuori, così ora l'annuncio di Cristo nel mondo delle nuove tecnologie suppone una loro approfondita conoscenza per un conseguente adeguato utilizzo» (ibid.). d. L'apostolato funziona quando passa da online a offline cioè quando finalmente si conosce di persona chi per qualche tempo abbiamo conosciuto solo su Facebook.
Concludo ringraziando Ferrari per lo stimolo offerto dal romanzo e citando Giovanni Paolo II: «Internet permette a miliardi di immagini di apparire su milioni di schermi in tutto il mondo. Da questa galassia di immagini e suoni, emergerà il volto di Cristo? Si udirà la sua voce? Perché solo quando si vedrà il Suo Volto e si udirà la Sua voce, il mondo conoscerà la "buona notizia" della nostra redenzione. Questo è il fine dell'evangelizzazione e questo farà di Internet uno spazio umano autentico, perché se non c'è spazio per Cristo, non c'è spazio per l'uomo».
Fonte: 3 aprile 2009
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COSA SAREBBE STATO IL SUD SENZA IL RISORGIMENTO
(Risorgimento da cosa, poi...?)
Autore: Antonio Socci - Fonte: 4 aprile 2009
Sono siciliano e del libro di Veneziani, ovviamente, sono andato a cercarmi in primis il capitolo che mi riguarda. L'occhio mi si è fermato su questo brano: «…il cosiddetto "familismo amorale", tara del Sud, è anche un grande ammortizzatore sociale e civile, della disoccupazione all'abitazione, dall'assistenza ai bambini, ai malati e ai vecchi al sostentamento di nipoti…». Sarebbe facile, qui, prodursi in paragoni con il cosiddetto Settentrione, dove le dinastie le trovi anche nella carta stampata. Ma no, l'aveva già detto De Crescenzo che il Sud è cosa davvero diversa e forse sarà il caso di lasciarlo com'è, perché non esiste vizio che non possa essere trasformato in virtù. Veneziani l'ha capito: «Di quel torbido vincolo c'è da salvare il legame comunitario, per svegliare un modello di sviluppo compatibile con la storia e la tradizione del Sud. Quel legame è fondato su basi non disdicevoli: la cultura del dono che prevale su quella utilitaristica, anche se degenera nella cultura del favore e del privilegio; la convivialità e l'ospitalità come base del legame sociale, l'attaccamento al luogo natio, (…) la capacità di addomesticare il dolore, la morte e la solitudine con un sofisticato sistema di riti». Non era Cesare Musatti, il decano della psichiatria, a dire che la sua materia era stata inventata da ebrei per convincere gli anglosassoni a vivere da italiani? Scorrendo le statistiche, si potrebbe dire lo stesso ai settentrionali nostrani. Ginevra e Zurigo sono il top dell'efficienza e del civismo. Napoli e Palermo stanno in fondo. Ma Ginevra e Zurigo hanno anche il top dei suicidi e del consumo di psicofarmaci, laddove Napoli e Palermo stanno in fondo anche riguardo ad aborti, divorzi e a ogni altro tipo di malessere. Eh, non si vive di sola efficienza. Veneziani: «Più la globalizzazione coincide con la settentrionalizzazione del mondo, più il Sud diventa il luogo della vita autentica». Ma, aggiungerei, solo chi ha respirato a lungo, pirandellianamente, «l'aria del continente», può dire, come Veneziani (e me), ai meridionali: ma perché vi lamentate sempre? Da due secoli vi ripetono che il Nord è meglio del Sud e avete finito col crederci. Questa storia l'hanno inventata i Padri della Patria, i quali, stravedendo per l'ottocentesco Impero Britannico, crearono l'Italietta, ridicolo tentativo (ahimè riuscito) di applicare alla penisola la Rivoluzione Francese facendola fare ai Piemontesi. I quali cenavano alle sette, figurarsi quando arrivarono al Sud, dove ancora si cena alle undici, se va bene. La città italiana più irradiata (dal sole) è Siracusa. Quella di meno, Torino. E il sole, oggi lo si sa per certo, stimola le endorfine, molecole della joie de vivre. I plumbei piemontesi estesero al Sud il loro sistema, il quale era modellato sul giacobinismo francese. Non poteva non uscirne un papocchio. Il Sud emigrò in America, lasciando alla Patria Unita i «paglietti» e i parassiti della pubblica amministrazione. Poi l'America ci restituì la mafia con gli interessi. Cose risapute. Oggi c'è quasi da ridere: i poveri leghisti non fecero in tempo a lamentarsi dei terroni che subito vennero subissati da ben altro Sud, quello africano, musulmano, albanese, romeno, cinese. Ha ragione Veneziani: «Per il bene d'ambedue, allontanate la Sicilia dal continente, piuttosto che tentare unioni artificiose». Ma vale per tutto il Meridione. Ma sì, facciamolo a Eboli, il Muro, altro che a Gaza. Il Sud italico, lasciato a sé stesso (una buona volta) sarebbe costretto a guardarsi allo specchio e a domandarsi come mai i «sudici», a suo tempo emigrati, nei Paesi che li hanno accolti si sono dimostrati lavoratori durissimi e spesso geniali. Perché il Sud fuori dal Sud primeggia, come primeggiavano i suoi avi prima che si stendesse il tetro sudario piemontese? Il Regno delle Due Sicilie poteva vantare uno strabiliante elenco di primati mondiali in tutti i campi, dall'economico allo scientifico, senza contare arte & cultura (si legga utilmente il lavoro di Simonelli citato da Cervi). Poi, dall'oggi al domani, crollò come un castello di carte, giacché la sua classe dirigente era ammaliata dall'ideologia, allora «moderna», del nazionalismo centralistico. Risultato: cinque milioni di emigrati e il Sud diventato la «questione meridionale», una palla al piede per il Nord e un eterno complesso di inferiorità per i suoi abitanti. Ma finché l'Unità d'Italia sarà «il Risorgimento», cioè un mito, nulla cambierà, inutile farsi illusioni.
Fonte: 4 aprile 2009
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CROCE AL CENTRO E COMUNIONE IN GINOCCHIO
Ecco perche' si puo' seguire il Papa
articolo non firmato
Tra i cambiamenti introdotti di recente nelle funzioni papali su iniziativa di Benedetto XVI, due sono quelli che hanno suscitato maggior interesse: la collocazione della croce al centro dell'altare e la distribuzione della Comunione ai fedeli inginocchiati. È innegabile che queste scelte, pur riallacciandosi all'antica tradizione liturgica della Chiesa latina, costituiscono una novità, non solo rispetto allo stile celebrativo dei precedenti Pontefici, ma anche rispetto alla prassi comune di quasi tutte le Chiese di rito romano. Il dibattito che ne è seguito basterebbe da solo a testimoniare l'importanza della questione. In effetti, la posizione della croce e il modo di amministrare la Santa Comunione riguardano direttamente, benché in modo diverso, la duplice dimensione, sacrificale e sacramentale, dell'Eucaristia. La croce con l'immagine del Crocifisso, infatti, è l'elemento che rappresenta visivamente tanto il Sacrificio di cui la Messa è rinnovazione incruenta, quando lo stretto legame che unisce Cristo, offerente e vittima, al sacerdote che agisce in sua persona. La Comunione, poi, è il momento culminante dell'azione liturgica per quei fedeli che, accostandosi alla sacra mensa, ricevono non solo la grazia sacramentale, ma anche la fonte e l'autore della grazia, Gesù Cristo, realmente presente in Corpo, Sangue, Anima e Divinità sotto le specie del pane e del vino. Poiché questi due misteri – la morte redentrice del Cristo e la sua riattualizzazione sacramentale – costituiscono il centro della religione cristiana, la loro traduzione sul piano rituale non può essere in alcun modo lasciata al caso o trattata con approssimazione. La necessità dei riti liturgici, come mezzo sensibile per elevare la mente dei fedeli alla contemplazione delle realtà spirituali da essi significate, è stata messa bene in luce dai Padri tridentini. Si tratta di una verità che la Chiesa ha sempre creduto e messo in pratica. Chi la ridimensiona o ne sminuisce la portata dimostra di misconoscere la natura umana, la quale, essendo al tempo stesso sensibile e razionale, «non può elevarsi facilmente senza sussidi esteriori alla meditazione delle cose divine». E, del resto, l'esperienza insegna che, laddove il culto è oggetto di scarse attenzioni, anche la dottrina non gode sorte migliore. Ho ritenuto necessario mettere in chiaro questi presupposti perché appaia con tutta evidenza che la discussione sull'opportunità di certe scelte liturgiche non è affatto oziosa, vana o inutile. Dall'efficacia del simbolo dipende la possibilità di elevarsi alla verità che esso rappresenta. Perfettamente consapevole di questo principio, sintetizzato dagli antichi nel celebre adagio «lex orandi, lex credendi», la Chiesa ha sempre prestato la massima attenzione, non solo alla dimensione soprannaturale, ma anche all'aspetto esteriore e sensibile del culto. E l'attuale Pontefice, nei suoi scritti e nella pratica, ha più volte ribadito tale concetto.
LA PRASSI ATTUALE Tornando ai due elementi rituali che sono oggetto del nostro scritto, è possibile osservare che la prassi oggi prevalente nelle chiese di rito romano prevede che la croce sia collocata a fianco dell'altare o dietro di esso, e che i fedeli ricevano la Comunione stando in piedi. Si tratta, com'è noto, di due significativi cambiamenti rispetto alla normativa vigente nel diritto liturgico antico, che voleva la croce al centro dell'altare e la Comunione distribuita ai fedeli inginocchiati. Introdotte contestualmente alla promulgazione del Messale riformato (con qualche ritardo o anticipazione a seconda dei luoghi), le due modifiche in questione furono motivate in vario modo. La croce, in seguito alla nuova dislocazione degli altari prevista (anche se non imposta) dalla riforma liturgica, veniva evidentemente considerata un ostacolo che impediva al celebrante e al popolo di guardarsi. Quanto alla Comunione, la possibilità di riceverla in piedi fu giustificata col ripristino di un uso arcaico, ancora osservato in molti riti orientali, che avrebbe avuto, secondo i riformatori, il vantaggio di incentivare la partecipazione attiva e cosciente dei fedeli al sacro rito. Una diffusa tendenza a considerare vincolanti certe indicazioni puramente facoltative ha fatto sì che tali riforme entrassero nella pratica generale. È noto che da qualche tempo il maestro delle cerimonie pontificie ha ripristinato, per questi due elementi, l'uso antico. Tale decisione ha suscitato reazioni di segno opposto. Alcuni l'hanno giudicata positivamente e hanno auspicato una sua più larga diffusione nelle chiese locali. Per altri, invece, si tratta di una «moda» passeggera, frutto di idee personali del Papa e destinata a non durare a lungo. Nonostante la divergenza di opinioni, sembra che tanto i primi quanto i secondi si accordino su un punto: la mancanza di idee chiare circa la compatibilità dell'uso antico con le norme liturgiche universali attualmente in vigore. La domanda che molti si pongono può essere così sintetizzata: la prassi introdotta di recente nella cappella papale va considerata una deroga alle leggi generali – consentita al Papa in quanto supremo legislatore, ma non agli altri – oppure una legittima possibilità contemplata dai libri liturgici? Stante questa situazione di incertezza, ci proponiamo, col presente articolo, di dare uno sguardo al diritto liturgico in vigore per quanto riguarda la posizione della croce e il modo di amministrare la Comunione, di spiegare le ragioni in favore dell'uso antico e, infine, di fornire alcune indicazioni pratiche. Inutile dire che la nostra trattazione si riferisce soltanto alla forma ordinaria del rito romano: nella forma straordinaria la croce dev'essere sempre situata al centro dell'altare e la Comunione ricevuta in ginocchio.
IL DIRITTO LITURGICO Per quanto riguarda la posizione della croce, l'Ordinamento generale del Messale romano ci fornisce tutte le indicazioni necessarie. Sarà, quindi, sufficiente elencarle, spiegarle e trarne le logiche conseguenze. Innanzi tutto, la croce è annoverata tra le suppellettili indispensabili per la celebrazione della Messa, non solo all'interno di un luogo sacro, ma anche fuori di esso: «La celebrazione dell'Eucaristia, nel luogo sacro, si deve compiere sopra un altare; fuori del luogo sacro, invece, si può compiere anche sopra un tavolo adatto, purché vi siano sempre una tovaglia e il corporale, la croce e i candelabri». Alla sua importanza sul piano simbolico si allude nella rubrica precedente, affermando che sull'altare «si rende presente nei segni sacramentali il sacrificio della croce». Più oltre si legge che la funzione della croce consiste nel «ricordare alla mente dei fedeli la salvifica Passione del Signore»: essa, pertanto, dovrebbe restare «vicino all'altare anche al di fuori delle celebrazioni liturgiche». Del resto, se pensiamo che nella tradizione ecclesiastica, tanto occidentale quanto orientale, l'altare rappresenta simbolicamente Gesù Cristo, non sarà difficile comprendere che la croce posta sopra di esso assolve l'indispensabile compito di rendere esplicita tale corrispondenza. Quanto alle caratteristiche e alla posizione della croce, l'Ordinamento generale prescrive: «Vi sia sopra l'altare, o accanto ad esso, una croce, con l'immagine di Cristo crocifisso, ben visibile allo sguardo del popolo radunato». Collocare la croce sopra l'altare è, dunque, perfettamente legittimo. Ma si può dire di più. Poiché, nella formulazione delle leggi liturgiche, le possibilità alternative vengono di solito disposte in ordine di preferenza, sembra che la dislocazione della croce sopra l'altare sia non soltanto permessa, ma, a parità di condizioni, raccomandata. Le rubriche non forniscono nessuna indicazione, neppure indiretta, circa il punto preciso dell'altare sul quale dovrebbe trovarsi la croce. La scelta, quindi, spetta ai rettori delle singole chiese. E nulla impedisce loro di conformarsi all'uso antico che prevede la collocazione della croce al centro, davanti al sacerdote celebrante, a condizione che le altre disposizioni stabilite dalle rubriche siano rispettate.
LA QUESTIONE DELLA COMUNIONE Chiarita la questione della croce, resta da trattare quella della Comunione. Sull'argomento della Comunione, il testo italiano dell'Ordinamento generale non brilla per perspicuità. In esso si afferma che «i fedeli si comunicano in ginocchio o in piedi, come stabilito dalla Conferenza Episcopale». Viene spontanea una domanda: la congiunzione «o» ha valore esclusivo o inclusivo? Nel primo caso i fedeli dovrebbero adeguarsi all'unica modalità prescritta dalla Conferenza Episcopale, mentre nel secondo entrambe le modalità sarebbero possibili, a patto che la Conferenza Episcopale abbia autorizzato la Comunione in piedi. Per avere una risposta sicura è necessario ricorrere al testo latino, nel quale il termine corrispondente ad «o» è «vel» (inclusivo). Ne consegue che, secondo il diritto liturgico oggi vigente, ricevere la Comunione in ginocchio non è affatto proibito, neppure nei luoghi in cui la Conferenza Episcopale ha autorizzato la Comunione in piedi, ma si configura, per lo meno, come legittima possibilità. Bisogna ammettere, tuttavia, che, per come è esposta nelle rubriche del Messale italiano, la norma che abbiamo appena analizzato si presta a numerosi fraintendimenti, dal momento che la sua corretta interpretazione è legata a una sottigliezza linguistica. Molti, in effetti, ritengono in buona fede che la Comunione in piedi, nei paesi in cui è stata autorizzata, sia un obbligo a cui tutti i fedeli devono attenersi. Queste incertezze hanno dato luogo a diverse situazioni incresciose. Appare dunque indispensabile ricorrere ad altre fonti del diritto liturgico nelle quali il problema in esame sia affrontato ex professo e, quel che più conta, con maggior chiarezza. Per nostra fortuna, esistono due documenti della Sacra Congregazione per il Culto Divino che consentono di risolvere la questione in modo definitivo. Si tratta di due lettere del 1° luglio 2002, inviate, rispettivamente, a un Vescovo e a un laico. Costoro, di fronte al fenomeno di alcuni sacerdoti che erano soliti negare la Comunione a chi si presentava a riceverla in ginocchio, si domandavano se tale atteggiamento fosse lecito. In entrambe le risposte, la Congregazione, dopo aver dichiarato che «qualsiasi rifiuto della Santa Comunione ad un fedele sulla base del suo modo di presentarsi sia una grave violazione di uno dei più fondamentali diritti del fedele cristiano, precisamente quello di essere assistito dai suoi Pastori per mezzo dei Sacramenti (CIC 213)», coglie l'occasione per precisare il senso della rubrica sopra esaminata: «Anche ove la Congregazione abbia approvato norme sulla posizione del fedele durante la Santa Comunione, in accordo con gli adeguamenti ammessi alla Conferenza Episcopale dall'Institutio Generalis Missalis Romani, 160, comma 2, ciò è stato fatto colla clausola per cui su tale base non si potrà negare la Santa Comunione ai comunicandi che sceglieranno di inginocchiarsi». Confrontando queste disposizioni con l'Ordinamento generale del Messale, si possono trarre due conclusioni che riassumono in sé tutta la normativa attuale in materia. Primo, la distribuzione della santa Eucaristia ai fedeli inginocchiati è una prassi del tutto legittima. Secondo, spetta al singolo fedele, senza bisogno di previo accordo col celebrante (salvo ragioni particolari), scegliere la posizione che preferisce: la Congregazione parla infatti di «comunicandi che sceglieranno di inginocchiarsi». Da tutto ciò emerge che ricevere la Comunione in ginocchio non è semplicemente una legittima possibilità, ma un vero e proprio diritto di ciascun fedele, che nessun sacerdote può negare, limitare o ignorare.
RAGIONI A FAVORE DELL'USO ANTICO Abbiamo fin qui cercato di rispondere alla domanda che dà il titolo al presente articolo. Prima di concludere con alcune indicazioni pratiche, resta da vedere se questo uso antico, di cui abbiamo dimostrato la legittimità giuridica, offra anche dei vantaggi a livello liturgico e pastorale rispetto alla prassi comune. A proposito della posizione della croce, il card. Ratzinger osserva: «Anche nell'attuale orientamento della celebrazione, la croce potrebbe essere collocata sull'altare in tal modo che i sacerdoti e i fedeli la guardino insieme. Nel canone essi non dovrebbero guardarsi, ma guardare insieme lui, il trafitto (Zc 12,10; Ap 1,7)». E motiva la sua proposta con argomenti che a me paiono molto convincenti: «Nella preghiera non è necessario, non è anzi nemmeno conveniente, guardarsi l'uno con l'altro, e tanto meno nel ricevere la Comunione. [...] In un uso esagerato e malinteso della "celebrazione rivolta al popolo" si è continuato a rimuovere la croce dal mezzo dell'altare perfino nella basilica di San Pietro a Roma, per non ostacolare la visuale tra il celebrante e il popolo. La croce sull'altare non è però un impedimento alla visuale, ma un punto comune di riferimento. Essa è l'iconostasi, che è scoperta, non ostacola l'andare l'uno verso l'altro, ma media e significa pure per tutti l'immagine che concentra e unisce i nostri sguardi. Ardirei addirittura la tesi che la croce sull'altare non è impedimento ma presupposto della celebrazione versus populum. Diverrebbe così nuovamente ricca di significato la distinzione tra liturgia della parola e canone. Nella prima si tratta dell'annuncio, e pertanto di un indirizzo immediato, nell'altra di un'adorazione comune, nella quale noi tutti stiamo più che mai durante la invocazione conversi ad Dominum: Rivolgiamoci al Signore; convertiamoci al Signore». Mi limito ad aggiungere che, per costituire veramente un «punto comune di riferimento», la croce ha bisogno di essere collocata non solo sull'altare, ma anche in posizione centrale. Al centro della mensa eucaristica, l'immagine di Cristo Crocifisso attira necessariamente su di sé lo sguardo, assolvendo bene la sua funzione simbolica; a lato dell'altare, per grande che sia, finisce per essere praticamente ignorata. Per quanto riguarda la Comunione, riceverla in ginocchio, a mio avviso, favorisce nei fedeli un atteggiamento di maggior devozione, esprime in maniera visibile l'adorazione nei confronti di nostro Signore e costituisce una pubblica manifestazione di fede nella presenza reale. A chi obietta che la disposizione interiore del comunicando non dipende dallo stare in ginocchio piuttosto che in piedi, rispondo che una delle funzioni del rito è appunto quella di stimolare la pietà dei fedeli mediante un saggio uso dei segni esteriori che ci vengono offerti dalla nostra tradizione liturgica. E se è vero che, presa in se stessa, la posizione in piedi non esprime meno devozione di quella in ginocchio, è anche vero che, in una prospettiva storica, questo si verifica. La ragione è assai semplice. I riti non si limitano ad essere rivestimenti esteriori dell'immutabile Sacrificio dell'altare, ma plasmano la mentalità dei fedeli e, con essa, il loro sensus fidei. Così, se per un orientale ricevere la Comunione in piedi è un atto di massima riverenza, perché così gli ha tramandato la sua tradizione, per un occidentale, abituato da secoli a riceverla in ginocchio, passare improvvisamente da un atto di riverenza maggiore a uno minore non è indifferente. Nel migliore dei casi un simile cambiamento si limita a produrre un'impressione di disagio o di confusione. Nel peggiore indebolisce la fede nella Presenza reale. Non è un caso, dunque, che il card. Ratzinger si sia espresso a favore di questa pratica, scrivendo che essa «ha in suo favore una tradizione secolare, ed è un segno particolarmente eloquente di adorazione, completamente adeguato alla luce della Presenza vera, reale e sostanziale di Nostro Signore Gesù Cristo sotto le Specie consacrate». Per concludere, mi sembra opportuno rilevare come, nei due casi presi in esame, il ripristino dell'uso antico non si configura affatto come una sterile operazione di archeologia liturgica o di antichizzazione del rito. Si tratta, piuttosto, di un'iniziativa che prende le mosse da un principio tanto evidente quanto trascurato: quando le rubriche ammettono diverse possibilità, la prassi più comune non è necessariamente la migliore. I singoli pastori di anime dovrebbero interrogarsi sulla reale efficacia pastorale delle scelte liturgiche da essi operate, senza avere timore, se le norme lo consentono, di adottare una soluzione diversa. Il popolo, dopo un'opportuna catechesi, capirà e apprezzerà.
INDICAZIONI PRATICHE Concludiamo il presente contributo con una serie di indicazioni utili per tradurre in pratica i principi teorici finora esposti.
1) Per la croce è preferibile servirsi del modello generalmente in uso prima della riforma liturgica, composto da una base, da un'alzata e dalla croce propriamente detta con l'immagine del Crocifisso. Esso consente di collocarla sull'altare senza bisogno di piedistalli inutili e poco decorosi, e di rimuoverla facilmente quando sia necessario. Quanto alle dimensioni, si ricordi che la rubrica prescrive una croce «ben visibile allo sguardo del popolo radunato» ed anche, naturalmente, del sacerdote celebrante. Sarebbe bene, a mio avviso, che arrivasse più o meno all'altezza del volto del celebrante. In questo modo fungerebbe davvero da fulcro visivo della funzione, verso cui convergono gli sguardi di tutti, e, al tempo stesso, non impedirebbe al popolo la vista dell'altare e in particolare delle sacre Specie durante l'elevazione. Quando l'altare è versus populum, da che parte dev'essere rivolta l'immagine del Crocifisso? Le rubriche non lo specificano, poiché l'indicazione sulla visibilità appena citata si riferisce genericamente alla croce, non specificamente all'immagine del Cristo morente. Varie ragioni consigliano che il Crocifisso sia rivolto al celebrante. Così, infatti, voleva la tradizione antica e così appare meglio, a mio avviso, lo speciale legame che esiste tra il Cristo raffigurato sulla croce d'altare e il sacerdote che agisce in sua persona. Tale soluzione, del resto, è quella adottata dal Santo Padre nelle funzioni da lui presiedute.
2) Avendo parlato del Crocifisso, è impossibile non dire nulla a proposito dei candelieri. Com'è evidente, essi non hanno più da molto tempo la funzione pratica di dar luce all'altare, ma conservano intatto il loro valore simbolico, che allude, con la fiamma, a Cristo luce del mondo, e, con la consumazione della cera, al sacrificio. Si capisce, dunque, che relegarli in un angolo dell'altare (o addirittura fuori da esso), appaiati, piccoli, quasi invisibili, ha poco senso. Molto meglio sarebbe collocarli simmetricamente da una parte e dall'altra della croce, cui il loro simbolismo è strettamente connesso: non necessariamente accanto ad essa, ma anche, e preferibilmente, alle estremità laterali dell'altare, quasi a fare da cornice luminosa alla mensa divina. Quanti devono essere? La rubrica ne prescrive almeno due, ma nulla impedisce che siano quattro o sei (sempre in numero pari, per ragioni di simmetria rispetto alla croce); non di più, quando l'altare è versus populum, e non troppo alti, per evitare, come ammoniscono le norme, che ostacolino eccessivamente la vista.
3) La Comunione può essere distribuita alla balaustra nelle chiese che ancora la conservano? Non credo vi sia nessun ostacolo a questa soluzione. La rubrica, infatti, ordina che i fedeli si rechino all'altare processionalmente; ma non vieta che, una volta giunti davanti ad esso, si dispongano lungo la balaustra. Tuttavia, per chi non potesse o non volesse adottare questo sistema, è consigliabile disporre, all'entrata del presbiterio, un inginocchiatoio piuttosto grande, ricoperto di cuscini, che consenta ai fedeli che intendono comunicarsi in ginocchio di poterlo fare agevolmente. Conviene che la balaustra o la parte superiore dell'inginocchiatoio siano ricoperti, come avveniva anticamente, da una tovaglietta bianca, che alluda al loro uso come «tavola della Comunione» dei fedeli, simbolico prolungamento dell'altare. Questa tovaglia non esime dall'uso, obbligatorio, del piattello. Si ricordi che la scelta sul modo di fare la Comunione spetta al singolo fedele; pertanto, la distribuzione dell'Eucaristia alla balaustra o all'inginocchiatoio non deve costituire un impedimento per coloro che vorranno continuare a riceverla in piedi. È compito del celebrante ricordare nei momenti opportuni, sia durante la liturgia che negli incontri di catechesi, la possibilità di comunicarsi in ginocchio e le ragioni a favore di tale scelta, senza tuttavia trasformarla, esplicitamente o implicitamente, in un obbligo.
4) È necessario ricordare, infine, che l'ordinamento delle norme liturgiche universali, come quelle che riguardano la posizione della croce o il modo di ricevere la Comunione, compete unicamente alla Santa Sede. Le Conferenze Episcopali e i singoli Ordinari non hanno la facoltà di abrogarle, modificarle o restringerne il senso, a meno che ciò non sia loro espressamente consentito dal diritto (nel caso da noi preso in esame, alle autorità locali è concessa soltanto la possibilità di autorizzare la Comunione in piedi). Di conseguenza, laddove le rubriche ammettono diverse possibilità, la scelta spetta al sacerdote celebrante o, quando previsto, al fedele.
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