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Mi sono sempre chiesto: se un migrante richiede asilo politico perché è gay e nel suo Paese d'origine i gay sono perseguitati, come si fa a sapere se dice il vero? Sappiamo che sono in tanti, gli africani soprattutto ma anche parecchi degli asiatici, a fuggire - dicono - da guerre, conflitti etnici e perfino cambiamenti climatici (sic!). Si sa, in effetti, che per la stragrande maggioranza si tratta di migranti economici, cioè gente che viene in Europa a cercare condizioni migliori di vita. Attratti da quel che hanno sentito dire, o da quel che hanno visto in televisione, in buona fede molti sono convinti di venire nel Paese di Lucignolo, e c'è da dire che i governi del Lucignolo fanno di tutto per accontentarli.
Ovviamente c'è qualche nodo burocratico da sciogliere, perciò il migliore sistema rimane quello di protestarsi «rifugiato»: si ha subito un permesso di soggiorno illimitato e quant'altro, vale a dire tutti i benefits a disposizione dei cittadini autoctoni. Ecco perché la qualifica di rifugiato fa gola a tutti i migranti e perché la prima cosa che in tanti dicono, appena arrivati, è «chiedo asilo politico». Ora, sapendo che la fuga dalla guerra non da tutti può essere invocata (i luoghi in cui sono in atto conflitti permanenti non sono moltissimi), anche perché, la guerra, oggi c'è e domani no, una più sicura alternativa è la gayezza: l'Occidente odierno è culturalmente dominato dal politicamente corretto pro-lgbt, e i Paesi afroasiatici in cui gli omosessuali non sono visti di buon occhio sono tanti (quelli musulmani praticamente tutti). Così è invalso il vezzo, crescente, di dichiararsi gay per ottenere lo status di rifugiato.
SCUSI, MA LEI DAVVERO E' GAY?
Ed eccoci allora alla domanda iniziale: come si fa a sapere se chi invoca il rifugio in nome della sua diversità sessuale dice il vero? La spiritosaggine farebbe dire: le autorità preposte assoldino come perito una pornostar e, lì sotto gli occhi degli agenti della polizia di frontiera, il richiedente asilo «dimostri» l'asserita peculiarità sessuale. Naturalmente scherziamo. Ma le autorità incaricate di concedere o negare l'asilo una prova la fanno davvero, perché non è pensabile che chi invoca un privilegio non debba provarne di esserne degno. La prova c'è e consiste in uno o più test psicologici tesi a stabilire, davvero e di fatto, l'orientamento sessuale dell'immigrato richiedente asilo. Così, almeno, veniva fatto fino all'altro ieri.
Ora, invece, colpo di scena: la Corte di Giustizia della Ue dalla sua sede di Lussemburgo ha dichiarato che il test di cui sopra costituisce «una inaccettabile ingerenza nella sfera privata» del migrante. Come se protestarsi gay non fosse di per sé una rinuncia spontanea alla propria privatezza, boh. Il caso è stato offerto da un nigeriano che nel 2015 aveva fallito il test in Ungheria e si era visto respingere la domanda. Fatto ricorso, la Corte gli ha dato ragione. Inutile pensare, malignamente, che la Ue al momento non è molto tenera con la politica ungherese in materia di accoglienza migranti.
SAREMO SOMMERSI DI IMMIGRATI (PRESUNTI) GAY?
La sentenza vale per tutti i Paesi della Ue e c'è da ritenere che creerà non pochi imbarazzi. Si badi: la Corte non ha detto no tout court alle perizie psicologiche, ma solo che l'interessato deve dare il consenso, e che questo deve essere libero. Ma - è qui l'inghippo - se dal test dipende la concessione dello status di rifugiato, ecco che il consenso non si può più dire propriamente libero. Mah. E adesso che succede? Saremo sommersi di nigeriani sedicenti gay? C'è da dire che, in fondo, le aspettative di chi si imbarca sulle carrette del mare alla nostra volta hanno ben donde: l'Europa è davvero il Paese di Lucignolo che accoglie, coccola e vezzeggia i c.d. «disperati». I quali ora sanno anche che i suoi giudici supremi hanno a cuore pure la loro privacy.
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