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I DISASTRI DEL FEMMINISMO
Dopo trent’anni di “uome”, qualcuno finalmente comincia a restituire alle donne un po’ di femminilità.
di Claudio Risè
 

Ormai i dati sono fin troppi. Il modello della donna cattiva e vincente, della “Uoma”, come la chiamava un settimanale femminile italiano nei propri manifesti pubblicitari alla ricerca di uno sperato (ma mancato) rilancio, della donna-Ego, che calpesta il mondo pur di affermare se stessa, si è rivelato per le donne una straordinaria fregatura. Molte hanno ormai fatto tutto quello che il sistema culturale ha loro proposto: messo se stesse al primo posto rispetto a tutti gli altri, limitato le proprie disponibilità sentimentali, rimandato nell’avere bambini, abortito quando sembrava opportuno. Ora si ritrovano, in tutto l’Occidente, spesso sole e infelici, a volte i bambini non arrivano più, o loro non ce la fanno più ad averli, gli uomini sono stati allontanati, ma non ne vengono altri, la solitudine morde, cattiva, e buona parte della vita è passata. La carriera a volte è arrivata, ma nel suo tipico modo: viene e poi se ne va, ti lascia ancora prima che tu possa farne veramente qualcosa, come del resto capita, da sempre, alla gran parte degli uomini. Non è un caso che per la prima volta il ritmo di aumento nel consumo di alcool e droghe è più alto tra le ragazze che tra i maschi: una prospettiva di vita così non è per niente allettante. Trent’anni dopo il femminismo, la femminilità viene negata con una sistematicità deprimente: dalla scuola, dal mercato, dal modello culturale, dalle politiche legislative. E mentre alcune frange diventano ancora più cattive e violente, e sono quelle/i da cui partono insulti e pomodori a Giuliano Ferrara, o il sasso che mette nei guai le costole delle sue candidate, molte altre, le più numerose, capiscono. Anche gli Stati, gli studiosi, i think tank dei grandi paesi d’Occidente cominciano a pensare come cambiare strada. Stanno per riscoprire, sembra, il valore essenziale della donna per la società: quello di essere non già la copia più “glamour” dell’uomo (ottima da usare nei manifesti o nelle pierre), bensì un centro di equilibrio affettivo e relazionale indispensabile perché la comunità non impazzisca. E non perda il gusto della vita, e il sapere/potere della riproduzione, che è molto meno tecnoscientifico di quanto gli ultimi trent’anni abbiano voluto credere, e molto più affettivo, relazionale, istintuale.
Allora ecco il professore di Berkeley Neil Gilbert scrivere la verità finora indicibile, che è costata la carriera a suoi colleghi più anziani: le donne hanno voglia di fare i bambini, e il mercato e i politici al servizio del mercato non glielo consentono. Ma ormai i costi del disagio femminile, e maschile, prodotti dalla falsa ipotesi che i due abbiano uguali desideri e bisogni sono così alti che è meglio pensare a come consentire alla donne di fare prima i bambini, e poi, se vogliono, la carriera. Ed ecco i conservatori inglesi pensare a uno stipendio per le donne che si occupano dei loro figli; e i laburisti costretti a corrergli dietro. Mentre in America partono ambienti di lavoro “misto”, dove le mamme possono portarsi i loro bambini invece di lasciarli a casa a una baby sitter.
Insomma un universo, quello del rapporto tra la donna, la famiglia e il lavoro, finalmente in movimento. Dopo gli ultimi trent’anni, che non hanno emancipato nessuno, e massacrato tutti.

 
Fonte: fonte non disponibile, 1 maggio 2008