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« Torna agli articoli di Ermes Dovico
Quando davvero si può dichiarare morta una persona? La domanda potrebbe sembrare oziosa, ma la risposta che si dà ha invece grandi ripercussioni dal punto di vista morale e sanitario, perché da questa dipende tutto il settore dei trapianti di organi. Ci riferiamo soprattutto ai pazienti reduci da incidenti o pazienti con gravi disabilità. Oggi si dà per scontato il paradigma della "morte cerebrale", ma anche quello della cosiddetta "morte a cuore fermo", da chiamare più propriamente in inglese controlled cardiac-circulatory death (CCCD, ma sono diffuse anche altre sigle; letteralmente "morte controllata cardio-circolatoria"). C'è però chi non si rassegna, soprattutto in ambito cattolico, a questi paradigmi che hanno un'indubbia origine utilitaristica. E intende riaprire il dibattito.
Il paradigma della "morte cerebrale", infatti, è stato definito nell'agosto del 1968, cioè pochi mesi dopo il primo trapianto di cuore, proprio con il fine di ottenere organi funzionanti da pazienti vivi, come un'inchiesta della Nuova Bussola aveva ricostruito.
Meno conosciuto è appunto il paradigma della cosiddetta "morte a cuore fermo", introdotto per quei pazienti che non si possono dichiarare "cerebralmente morti" ma che sono reduci da incidenti o hanno comunque gravi disabilità, spesso neurologiche, e beneficiano di un supporto vitale. [...] Quest'altra definizione, introdotta negli Usa nel 1993, ha chiaramente l'effetto di allargare il parco dei donatori di organi.
Si possono questi paradigmi considerare coincidenti con la morte effettiva? A dare una risposta assolutamente negativa è la professoressa Doyen Nguyen, specializzata in Medicina ematologica e a lungo attiva in questo campo, poi laureata in Teologia morale, specializzata in Bioetica, e oggi docente alla Pontificia Università di San Tommaso d'Aquino (Angelicum). La Nguyen ha dedicato molti studi al tema della definizione di morte e ne ha parlato a un recente convegno a Roma incentrato proprio sulla "morte cerebrale". L'abbiamo intervistata per comprendere meglio le sue ragioni. [...]
Professoressa Nguyen, al convegno dell'Accademia Giovanni Paolo II tenutosi a Roma il 20-21 maggio e incentrato sul concetto della "morte cerebrale", lei ha tenuto una relazione sulla "morte a cuore fermo", sottolineando l'inganno che si cela in entrambi i costrutti. Ci può spiegare di cosa si tratta?
La "morte a cuore fermo", più propriamente controlled cardiac-circulatory death (CCCD), è un altro paradigma accanto a quello della morte cerebrale. Nel 1993, cioè 25 anni dopo la definizione utilitaristica di "morte cerebrale" contenuta nel rapporto di Harvard, è stato predisposto negli Stati Uniti un altro protocollo, quello di Pittsburgh, perché si era in cerca di un maggior numero di organi. È un cosiddetto ritorno al criterio cardio-respiratorio, ma in realtà la controlled cardiac-circulatory death è fondata sul paradigma della "morte cerebrale". In casi del genere il potenziale donatore è un paziente (con organi sani) che non è cerebralmente morto e che ci si aspetta che muoia entro 60 minuti dalla rimozione del supporto vitale.
Quel protocollo stabilisce un'attesa di 2 minuti (Pittsburgh Protocol), ampliata anche a 5 minuti (raccomandazione dell'Institute of Medicine), dopo l'arresto del battito cardiaco. Questo intervallo di 2-5 minuti è chiamato periodo "no touch" o "death watch" [un periodo di osservazione del paziente, ndr]. Il paziente firma prima un permesso a non essere rianimato, il DNR (do not resuscitate), cioè a farlo morire dopo il distacco del ventilatore, e un consenso a donare gli organi. Il paziente è poi portato in sala operatoria. Il supporto vitale viene rimosso. Dopo che si ferma il suo battito cardiaco per 2-5 minuti (l'intervallo varia a seconda degli specifici protocolli), il paziente viene dichiarato morto, e l'espianto degli organi inizia immediatamente. Ora, questo intervallo di 2-5 minuti non basta perché ci sono persone che possono avere un arresto cardiaco e il cui cuore può tornare a battere praticandogli la rianimazione cardiopolmonare (CPR). A volte avviene anche quello che è chiamato "fenomeno di Lazzaro", con la spontanea riattivazione del sistema cardiocircolatorio, riscontrata fino a 33 minuti dopo l'arresto cardiaco [...].
Sono quindi paradigmi che condividono la stessa concezione utilitaristica?
Sì, nel protocollo della controlled cardiac-circulatory death si afferma esplicitamente che esso è stato ideato per espandere il numero di potenziali donatori di organi. Il secondo paradigma si basa alla fine sui presupposti del primo perché è basato sulla tesi (sostenuta dai proponenti della "morte cerebrale") che la morte cerebrale sia la morte sic et simpliciter, che può essere determinata o usando il criterio della "morte cerebrale" o il cosiddetto criterio cardio-respiratorio della controlled cardiac-circulatory death. Comunque, in realtà, l'attesa di 2-5 minuti del periodo "no touch" non è abbastanza lunga per produrre la condizione di "morte cerebrale", figuriamoci la morte vera! In Europa abbiamo invece il protocollo di Maastricht, che adotta un intervallo di 10 minuti [esteso a 20 minuti in Italia, ndr] prima di espiantare gli organi sempre sulla base di una situazione simile alla "morte cerebrale". In base al protocollo di Maastricht, soltanto i reni possono essere espiantati poiché sono più resistenti degli altri organi (per esempio, il fegato, il pancreas, il cuore) alla lesione ischemica [...].
Con il protocollo di Maastricht si possono dunque espiantare solo i reni, mentre con il protocollo di Pittsburgh?
Riguardo a quello di Pittsburgh, dal 1993 al 2008 estraevano i reni e altri organi, eccetto il cuore, perché secondo i criteri del protocollo il cuore doveva essere già "morto" irreversibilmente... quindi, si diceva, come si può fare un trapianto di cuore dopo che il cuore è morto? Ebbene, nel 2008, il dottor Boucek fece tre trapianti di cuore da donatori bambini: nel primo caso aveva atteso 3 minuti, negli altri due casi ancora meno, 75 secondi. Ma questo vuol dire che il cuore nella persona A, con una diagnosi di "morte a cuore fermo", trapiantato con successo nella persona B, avrebbe continuato a battere anche nella persona A, se solo l'avessero rianimata [...]
Quando è lecito allora donare i singoli organi vitali?
Lecito vuol dire dopo la morte, la morte vera, che non è la "morte cerebrale" né quella "a cuore fermo", che sono concetti che si basano sulla mistificazione delle parole. Quando c'è una persona morente gli organi via via ricevono meno sangue, meno ossigeno, e questo significa che la qualità dell'organo si va progressivamente riducendo. [...] Ora, per avere organi buoni, trapiantabili, bisogna prenderli da un corpo ancora vivo. Questo fatto l'avevano capito già prima degli anni Sessanta.
Prima ancora del primo trapianto di cuore (3 dicembre 1967)?
Sì, prima. I trapianti sono iniziati con i trapianti di reni, ma poi hanno visto che la qualità dei reni ottenuti dopo la morte vera era scarsa. Perciò decisero di cambiare la definizione di morte e nell'agosto 1968, pochi mesi dopo il primo trapianto di cuore, il rapporto di Harvard definì il coma irreversibile come un nuovo criterio per la morte. Ora: la morte è un fenomeno, il coma irreversibile è un altro fenomeno. Il nostro concetto di morte deve corrispondere alla realtà, non possiamo imporre sulla realtà ciò che abbiamo in mente. Veritas est adaequatio intellectus et rei (la verità è la corrispondenza tra realtà e intelletto). Se il nostro pensiero prevale sulla realtà, è ideologia.
E durante la vita ci sono donazioni lecite? Per esempio, il beato don Carlo Gnocchi poco prima di morire disse di voler donare gli occhi, o meglio le cornee.
Uno dei reni è lecito donarlo. La donazione delle cornee non equivale alla donazione degli occhi perché la cornea è solo una parte dell'occhio: l'occhio è un organo, la cornea è un tessuto, che non ha bisogno di molto sangue e può durare anche abbastanza dopo la morte. Sì, può essere donata.
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