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« Torna agli articoli di Marco Respinti
La successione al presidente dimissionario della Camera federale di Washington John Boehner, è compiuta. A sostituirlo, dal 29 ottobre, è Paul Ryan, giovane, aitante, di ottime prospettive, capace persino (e non è facilissimo) di far scordare certe magre come l'essere stato il candidato alla vicepresidenza di Mitt Romney nel 2012 e di avere con lui fallito.
Deputato del Wisconsin dal 1998 e sempre con margini superiori al 60% dei voti, il vero salto di qualità Ryan lo ha spiccato alla presidenza della Commissione Bilancio della Camera dal 2011 al 2015, quando non ha solo fatto le pulci ai conti della macchina governativa, ma ha pure proposto quei funzionali piani alternativi di riduzione delle tasse e di contenimento della spesa pubblica che ne hanno fatto un beniamino del movimento dei "Tea Party". Conservatore con le carte in regola a ogni voce di programma (dalla politica interna ai princìpi non negoziabili), Ryan è così divenuto il simbolo vivente della sfida ai vecchi arnesi di partito, vale a dire cioè che con una formula usurata ma sempre efficace viene chiamato "establishment".
SCONFITTO L'ESTABLISHMENT PIÙ DISPONIBILE AL COMPROMESSO
Ora, nel personale di quell'establishment i "Tea Party" avevano da tempo iscritto anche Boehner che proprio per questo, al termine di un lungo braccio di ferro, ha lasciato. Che al suo posto sia arrivato Ryan significa che l'establishment ha perso e che l'ala più barricadera ha vinto. Il candidato più naturale per la successione a Bohner era infatti il deputato della California Kevin McCarthy, buon conservatore pure lui. McCarthy era il favorito un po' perché leader della maggioranza Repubblicana alla Camera, un po' perché in sintonia con lo stesso Boehner, ma gli oltranzisti che hanno avuto ragione di Boehner sono riusciti a bloccare pure lui assicurandosi uno dei posti chiave dell'architettura istituzionale degli Stati Uniti. Sconfitto è insomma l'establishment più disponibile al compromesso con l'Amministrazione Democratica; meglio: quello che l'ala dei Repubblicani facente riferimento ai "Tea Party" percepisce come l'establishment più disponibile al compromesso se non addirittura all'inciucio. Le due cose, infatti, sono molto diverse.
IL TEA PARTY TORNA ALLA GRANDE
Delle molte considerazioni possibili, la prima ha la veste di una notizia. Questa: il mondo dei "Tea Party", ultimamente dato (dai media) per disperso, è tornato, e in verità non se n'è mai andato. È attivo, è forte, e forse lo è più di prima. Certamente più di prima riesce a incidere nel profondo del Partito Repubblicano (dove ha fondato una vera e propria colonia) e, per suo tramite, nelle istituzioni del Paese. All'arco ha ancora molte frecce, temibili in un anno di elezioni quale sarà il 2016.
La seconda considerazione è che con l'avvento di Ryan alla presidenza della Camera il baricentro politico del Partito Repubblicano, in costante spostamento a destra da decenni, ma in fortissima accelerata negli anni della presidenza di George W. Bush (2000-2008) e di Barack Obama (dal 2008), si è mosso ancora più a destra.
La terza è che questo spostamento a destra non avviene affatto ai danni della "Sinistra" interna ai Repubblicani per il semplice fatto che la "Sinistra" interna non c'è più. Storicamente, il cosiddetto establishment ha incarnato l'ala liberal del partito, per lungo tempo maggioritaria, e per questo avversata dai conservatori. Ma proprio perché il baricentro del partito sta da anni puntando a destra, lo spazio politico dei liberal si è assottigliato fino di fatto a scomparire. Il risultato è che quello che viene chiamato establishment oggi non è più la Sinistra liberal interna, ma una Destra diversa da quella movimentista aggregata ai "Tea Party".
UN IMPORTANTE BANCO DI PROVA
Quarta considerazione: con l'uscita di scena di Boehner (e di McCarthy), l'establishment (oramai di destra, benché di una Destra diversa da quelle dei "Tea Party") di fatto evapora lasciando il posto a un "monocolore" movimentista. Fine dello scontro? Forse no. Come dimostrano queste vicende, in casa Repubblicana il termine establishment ha perso i connotati ideologici finendo per significare soltanto politica di governo (dei quadri Repubblicani). Ma se così è, una volta eletto alla presidenza della Camera (politica di governo dei quadri Repubblicani) l'anti-establishment Ryan è già automaticamente il simbolo dell'establishment (nuovo). Vale a dire: o i "Tea Party" sono la nuova "casta" Repubblicana, oppure il vecchio gergo politico è oramai afono. Potrebbero sembrare solo oziose questioni di filologia, se non persino di vacuo nominalismo, ma non lo sono affatto. La presidenza Ryan è infatti il vero banco di prova (qualcuno direbbe le forche caudine) dei "Tea Party", chiamati finalmente a essere il nuovo "sistema" del Partito Repubblicano, con tutto ciò che questo comporta, oppure destinati a non sbocciare mai in un'autentica cultura di governo. Visto che prestissimo dovranno accompagnare la selezione del candidato presidenziale che sfiderà lo sfascismo dei Democratici, e auspicabilmente governare il Paese più importante del mondo, è ora che facciano mente locale. Il poscritto non secondario è che entrambe le Destre del Partito Repubblicano, "casta" e "movimento", hanno espresso figure istituzionali (Boehner e Ryan) di grande serietà e di sicura fede, cattolica.
Nota di BastaBugie: ecco l'articolo che pubblicammo al tempo della campagna elettorale del 2012 per il presidente degli Stati Uniti. All'epoca Paul Ryan era il candidato vicepresidente. Ecco il link all'articolo che contiene anche un video (in inglese) di un discorso di Paol Ryan.
ELEZIONI USA: PAUL RYAN E' IL VERO ASSO NELLA MANICA DI MITT ROMNEY (GRAZIE ANCHE AI VESCOVI AMERICANI CHE SPERANO NON SIA RIELETTO OBAMA)
No all'aborto, no al matrimonio omosessuale, sì alla sussidiarietà: ecco il video del candidato cattolico con idee chiare sui principi non negoziabili che in Europa possiamo solo sognare
di Marco Respinti
https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=2437
REPUBBLICANI CONTRO L'ABORTO
Nella politica americana è quasi completamente assente la disciplina di partito. Tra tutti c'è però un solo tema su cui candidati repubblicani convergono: la sacralità della vita e la lotta all'aborto. Matteo Borghi ci descrive la situazioni delle primarie del partito repubblicano nel bell'articolo su La nuova Bussola Quotidiana il 02-11-2015 dal titolo "Repubblicani uniti contro aborto e Planned Parenthood".
Ecco l'articolo completo:
Se c'è una cosa che nella politica italiana è canonizzata, mentre in quella degli Stati Uniti è quasi completamente assente, è la disciplina di partito. In concreto in America è molto difficile vedere politici intenti a ripetere a macchinetta alle tesi precostituite dei rispettivi vertici di partito. Lo si vede, benissimo, nel dibattito pre-primarie del Partito Repubblicano i cui candidati, invece di limitarsi a dire le stesse cose in modo diverso, fanno di tutto per smarcarsi per attirare l'attenzione dei futuri elettori.
Dei grandi temi che stanno dominando la battaglia elettorale nessun ha la stessa opinione di un altro: in materia economica ci sono - da una parte - falchi come Rand Paul e Marco Rubio, che vorrebbero ridurre lo stato al minimo, e dall'altra i più moderati come Jeb Bush, solo vagamente definibile liberista. Non solo. Anche tra un Rubio e un Paul ci sono vistose differenze: basti pensare che Paul propone una flat tax del 14,5% per tutti, mentre nel suo programma Rubio mantiene la progressività fiscale con tre aliquote dal 15 al 35% sulla base degli introiti individuali o familiari. Lo stesso si dica per la politica estera, dove i candidati hanno opinioni diverse sul ruolo degli Stati Uniti nelle crisi internazionali: se Bush, in coerenza con la politica del fratello George W., è a tutti gli effetti un 'falco', Rand Paul, benché più moderato del padre Ron (convinto che gli Usa non debbano intervenire da nessuna parte), non è convinto che gli Stati Uniti debbano mantenere il ruolo di "poliziotto internazionale". E c'è infine il caso di Donald Trump, che va avanti nel totale disinteresse di qualsiasi tema che non sia legato doppio filo all'immigrazione (che fino a un paio di mesi fa era l'unica issue sul suo sito elettorale, oggi affiancata da tasse e secondo emendamento.
Tra tutti c'è però un tema su cui candidati convergono con piccole differenze: la sacralità della vita e la lotta all'aborto. Rubio la difende strenuamente da cattolico osservante, Carly Fiorina da madre di una ragazza morta per droga, Ted Cruz da conservatore a tutto tondo e Rand Paul da credente convinto del diritto alla vita anche da un punto di vista libertario (nessuno può disporre della vita di un feto che è a tutti gli effetti un essere umano). Jeb Bush ha rivendicato di essere il governatore che ha fatto di più per la lotta all'aborto, mentre il neurochirurgo afroamericano Ben Carson - ad oggi favorito dai sondaggi - ha chiarito che a suo giudizio l'aborto è inammissibile anche in caso di stupro, mentre «se ne può discutere» solo nei rari casi in cui la gravidanza comporti un rischio per la vita della madre. Perfino Trump, che da ex liberal fino a qualche anno fa si dichiarava pro-choice, si è da tempo convertito alle posizioni pro-life: vuoi per un cambiamento ideale ed etico, come sostiene lui, vuoi per convenienza politica, come dicono i detrattori, è significativo che attualmente ogni candidato abbia grosso modo le stesse posizioni sul tema in questione.
Anzi, tutti e dieci (non abbiamo citato i minori come Christe, Huckabee e Kasich) si stanno scagliando contro Planned Parenthood, che sta diventando così la battaglia etica più rilevante della campagna elettorale. Di cosa si tratta? Formalmente Pp è una fondazione indipendente che si occupa di "pianificazione familiare". In concreto è un'agenzia finanziata in gran parte dal governo per promuovere aborti e controllo delle nascite. Per capire più nel dettaglio i finanziamenti e le attività della no-profit più discussa d'America basta guardare il rapporto ufficiale 2013-2014 disponibile online.
Emerge che Pp ha come sponsor proprio il governo degli Stati Uniti che, coi suoi 528 milioni di dollari l'anno pari al 41% del bilancio, è di gran lunga il maggior finanziatore. I sostenitori della no profit sostengono che gli aborti occupino solo una piccola parte delle attività di Planned Parenthood (330mila su 10,6 milioni di interventi, pari al 3%) ma non è così: fra le attività di "contraccezione" ad esempio si fa rientrare la distribuzione di ben 1 milione 440mila «kit di contraccezione di emergenza» che, su richiesta, possono essere recapitati anche a casa. Si tratta delle cosiddette pillole del giorno dopo o dei cinque giorni dopo che, tecnicamente, provocano dei veri e propri aborti incidendo su un feto già in formazione.
Di fatto Planned Parenthood non porta avanti solo una generica difesa dei diritti delle donne ma un programma politico e ideologico ben preciso: «Oggi», scrivono le due presidentesse Alexis McGill Johnson e Cecile Richards nell'introduzione all'Annual report, ««stiamo sperimentando un'esplosione di impegno sociale nella nuova generazione, fra attivisti, pazienti e medici. Queste persone rifiutano di sentirsi in imbarazzo e stigmatizzati per le proprie scelte sessuali, di controllo delle nascite e di aborto». Procedure che oggi «grazie a Planned Parenthood e l'Affordable Care Act (Obamacare ndr), più di 48 milioni di donne possono ricevere senza pagare».
Una forte vicinanza ideologica e politica al governo Obama permette a Pp di ricevere moltissimi fondi nonostante i moltissimi scandali. Molti, come si può immaginare in una fondazione in cui circolano cifre a otto zeri, per corruzione e appropriazione indebita. I più significativi sono forse quelli che emergono da un breve documentario verità realizzato da LiveAction, che attraverso alcuni suoi associati ha messo in luce alcuni aspetti terrificanti delle pratiche di Pp. Alcune ragazzine di 13 anni hanno chiesto consulto per abortire un feto dopo un rapporto non protetto con un trentenne, ottenendo rassicurazioni dalle addette al servizio («non mi interessa», «non ho sentito l'età», «non devi dire niente»). In un caso un'addetta ha solo notare che la legge dell'Indiana non consente l'aborto delle minorenni senza il consenso dei genitori per cui in teoria la ragazza dovrà dichiarare l'età del suo partner. Ma la soluzione è arrivata subito dopo: basta scrivere che si tratta di violenza sessuale e che la ragazza non sa l'età del suo violentatore e l'aborto si può praticare senza alcun problema.
Ma la parte più orrenda è quella in cui un finto donatore chiede che i suoi soldi vengano indirizzati esclusivamente per gli aborti di donne afroamericane. «Ho difficoltà», dice testualmente, «con l'Azione Positiva (programma che promuove l'inserimento con quote lavorative riservate per i neri ndr) e non voglio che i miei figli siano svantaggiati rispetto ai neri […]. Penso che meno bambini neri ci sono la fuori e meglio sia». Una direttrice dell'Idaho gli risponde: «Assolutamente, è fantastico». La battaglia contro Planned Parenthood è insomma un classico esempio in cui la lotta agli sprechi si affianca a un'istanza etica di primo piano. In casi come questi non si possono che dire due parole: forza Repubblicani.
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