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« Torna agli articoli di Massimo Introvigne
Le vittorie repubblicane nelle elezioni per la carica di governatore in Virginia e New Jersey – un chiaro segnale che gli americani sono già stufi di Obama – rischiano di far passare in secondo piano un altro risultato molto atteso. Nel Maine, uno degli Stati americani più progressisti, gli elettori hanno cancellato con un referendum la legge che avrebbe permesso agli omosessuali dello Stato di sposarsi tra loro. Si tratta di una grande delusione per gli attivisti del matrimonio gay e di una vittoria della Chiesa Cattolica e delle altre organizzazioni religiose che sono scese apertamente in campo in questo referendum. Con il Maine, gli Stati USA che hanno sottoposto a referendum il matrimonio tra omosessuali sono trentuno. Il risultato di questi referendum è clamoroso: trentuno a zero per gli oppositori delle nozze gay.
Eppure negli Stati Uniti si continuano a celebrare matrimoni tra omosessuali. Solo in due piccoli Stati – il Vermont, dove i gay si sposano dal 1° settembre 2009, e il New Hampshire, dove cominceranno a farlo dal 1° gennaio 2010 – i matrimoni sono stati introdotti da leggi dei Parlamenti statali, peraltro a rischio referendum. Nel Vermont – con una rara procedura – la legge è entrata in vigore nonostante il governatore, repubblicano, si sia rifiutato di firmarla. Altrove – nel Massachusetts, che ha aperto la strada nel 2003, nel Connecticut (dal 2008) e nell’Iowa (dal 2009) – sono state decisioni dei giudici a introdurre il matrimonio omosessuale. E in California c’è stato un braccio di ferro fra i magistrati della Corte Suprema dello Stato, che volevano a tutti i costi il matrimonio gay, e gli elettori che in quella che pure è la capitale mondiale del movimento per i diritti degli omosessuali, hanno finalmente cambiato la Costituzione dello Stato con un referendum – votato nel giorno stesso dell’elezione di Obama alla presidenza – che definisce il matrimonio come l’unione fra due persone di sesso diverso, così almeno per il momento fermando i giudici.
Siamo di fronte a un grande problema di democrazia. Da una parte i cittadini americani – tutte le volte che sono chiamati a votare nei referendum, senza eccezioni – si pronunciano contro il matrimonio omosessuale. Dall’altra i giudici ignorano la volontà degli elettori e pensano sia loro dovere “educarli”, a costo di non rispettare un voto popolare chiaramente espresso. Nell’enciclica Caritas in veritate Benedetto XVI ha indicato nella tecnocrazia la maggiore minaccia per la libertà dopo la fine delle ideologie. A molti la parola tecnocrazia fa venire in mente solo gli scienziati pazzi di qualche film. Ma per il Papa è tecnocrazia quella di qualunque potere che pensa d’imporre le sue scelte alla maggioranza non in nome del bene comune, e neppure di un mandato elettorale, ma perché pensa di saperne di più rispetto a un popolo bue che per definizione è arretrato – e condizionato da pregiudizi religiosi facilmente liquidati come “fondamentalismo” –, e va dunque educato anche contro la sua volontà. Oggi la più pericolosa tecnocrazia è quella di certi giudici. In America, queste toghe pensano – e lo dicono apertamente – che, se la maggioranza non vuole il matrimonio gay, semplicemente, la maggioranza sbaglia e spetta ai giudici come detentori di un sapere superiore, più avanzato e progressista, rieducarla. Come sappiamo, la rieducazione dell’elettore che sbaglia da parte dei giudici è l’orizzonte tecnocratico di una certa magistratura anche in Italia. Gli elettori del Maine hanno ora dato ai giudici tecnocrati un sonoro schiaffone. Ma la battaglia continua.
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