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Sono circondata da una ventina di bambine delle elementari – qualcuna a dire il vero, come le mie, va ancora all'asilo, qualcuna fa il liceo e forse prepara il corredo. Sono sedute in circolo e ricamano. Dopo la pausa merenda e una mezz'ora di gioco libero, nell'ultima parte della mattinata mentre si ricama si dice il rosario Il tempo è dilatato, non sembra assurdo perdere manciate di minuti a sbrogliare una matassina di filo pescata dalla grossa scatola che la Franca, la sorella del parroco – da cinquanta anni in questa parrocchia – apre sul tavolino alle nove di mattina, e mette a disposizione di tutti.
Sono nel giardino della chiesa in cui sono cresciuta, e dove ho imparato tutto quello che so della dottrina cristiana. Ho portato le bambine alla scuola di ricamo con pochissima speranza che si appassionassero, e invece la sera fino a tardi non lasciano più il loro pezzetto di tela, ricamano mentre ascoltano la favola, orgogliosissime di essere finalmente in grado di fare qualcosa da grandi, e con le loro mani.
Mi verrebbero in mente molti predicozzi da ammannire: sull'importanza del lavoro manuale, sulla femminilità che ha perso alcune competenze a favore di altre, sulla pazienza che si impara ricamando, sulle volte che la Franca respinge al mittente i "non ci riesco, non ce la faccio, non sono capace", e insegna a maneggiare l'ago a bambine che non tengono ancora in mano la penna, e comunica con granitico entusiasmo la sicurezza che si può fare, oppure ancora sulla bellezza di pregare lavorando e via predicando.
Vorrei però prima di ogni altra cosa riflettere sul fatto che le donne non possono avere tutto. Ho scritto e detto ogni volta che ho potuto il fatto che ci siamo conquistate la possibilità di lavorare a un prezzo altissimo, ma forse non avevo messo, tra i prezzi pagati, la perdita di questa abilità manuale, che in modo naturale si trasforma nella cura delle cose, dei beni, dei particolari (quando si è sempre di corsa già ricordarsi di recuperare un figlio da un amico sembra un particolare minimo).
Solo qui, al corso di ricamo, mi è successo di riascoltare parole che pensavo perse nella notte dei tempi, tipo "non sciupate l'acqua" (a Perugia non ci sono problemi di siccità), e "non si cambia il filo finché non è finito" (non è ammesso lo spreco, neanche di un centimetro).
Io di solito sono sempre di corsa, sempre in ritardo, sempre in affanno, e come i neonati vedo poco più che ombre confuse quando sfreccio davanti alle cose, nel tentativo di arrivare a sera con tutti i pezzi a posto. Compro insalate lavate, piatti pronti, pezzi di merende che poi giacciono inerti in fondo alla borsa, prometto regalini nei momenti di scoramento, faccio acquisti disperati all'ultimo secondo senza poter cercare l'offerta migliore, perché infilo sempre il piede sotto una serranda a caso, col negoziante che sta chiudendo e mi strozzerebbe.
Per secoli invece le donne sono state le econome delle case, hanno gestito con cura i beni e le risorse, ma per fare questo ci vuole concentrazione, tempo, dedizione.
Non voglio fare discorsi nostalgici a poco prezzo, visto che so che non abbandonerò il lavoro, non trascorrerò pomeriggi a rammendare e rivoltare cappotti, ma a volte piuttosto che star lì a riparare ricomprerò con leggerezza, talmente poco costano e valgono certe cose.
Voglio invece ricordare, come Anne Marie Slaughter che le donne non possono avere tutto, anche se io lo dico senza rabbia, e anche con un certo sollievo, e gioia. Siamo imperfette, e lo siamo anche più di quanto ci sembra.
Questa perdita della pazienza, della cura, della lentezza, dell'accuratezza è un altro dei prezzi che abbiamo pagato per realizzarci su tutti i fronti: quando devi lavorare, essere informata, in forma, connessa, raggiungibile, è impensabile impiegare tre ore a fare una cornicetta alla tela. Eppure io lo capisco, in qualche modo inarticolato, che in questi giorni sto facendo per le mie bambine qualcosa di fondamentale, anche se forse lo dimenticheranno presto. Eppure, senza questo non potrebbero diventare donne.
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