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Vittorio Messori, nel suo libro dedicato alla Resurrezione, racconta che in occasione della Pasqua del 1976, il quotidiano francese Le Monde pubblicò un’intervista a diversi esponenti della chiesa francese. Veniva posta questa domanda: “Che ne sarebbe della vostra fede se il piccone dell’archeologo, in qualche luogo dell’antica Palestina, dissotterrasse le ossa di Gesù di Nazareth?” Molti semplici fedeli dettero una risposta del tutto logica, fra cui uno sconosciuto parroco di periferia: “Sarebbe la prova che la mia fede non era che un’illusione.” Invece molti preti intellettuali risposero in maniera diversa. Uno di loro, sacerdote e psicanalista, disse: “La scoperta dello scheletro di Gesù rafforzerebbe la mia credenza, perché distruggerebbe il mito della rianimazione di un cadavere. La presenza delle ossa del Nazareno mi rafforzerebbe nella fede, che per essere tale, deve essere del tutto indimostrabile.” Un teologo protestante poi aggiunse: “Questo non m’impedirebbe di credere nella Resurrezione. Anzi, un simile ritrovamento sbloccherebbe la fede, obbligandola a non fidarsi più del visibile.”
LA DEFINIZIONE CATTOLICA DI FEDE
Abbiamo voluto iniziare con queste parole per far capire quanto ai nostri tempi ci si è allontanati dal vero e cattolico concetto di fede. Si pensa, insomma, che questa (la fede) possa prescindere totalmente dal dato oggettivo, razionale e sensibile, per divenire pura accettazione di uno straordinario che può benissimo inserirsi nella sfera dell’assurdo.
Invece, la definizione cattolica di fede è ben precisa ed è questa: la fede è assenso dell’intelletto alle verità rivelate. Certamente in questa definizione si sottolinea il protagonismo della volontà (si parla infatti di “assenso”), ma nello stesso tempo si precisa che in questo assenso deve essere anche coinvolto l’intelletto. Teniamo infatti presente che laddove nella teologia cattolica l’intelletto non può dimostrare, esso è comunque chiamato ad indagare gli elementi di credibilità che sono alla base di determinate verità rivelate.
LA DEFINIZIONE CATTOLICA DI MIRACOLO
Ma non solo la definizione di Fede, anche quella di miracolo ci pone in questa prospettiva. Oggi spesso sentiamo frasi del tipo: è la fede che fa i miracoli. Certamente, se si pensa ai miracoli ottenuti attraverso la fede, ciò è vero; ma questa frase viene detta solitamente per affermare tutt’altro, e cioè che non devono essere i miracoli a fondare la fede ma viceversa. Ciò non solo è sbagliato ma è anche anticattolico. Come conseguenza di una simile affermazione vi è un voler giustificare tanta pigrizia spirituale, del tipo: beato chi ha la fede, io non ce l’ho e quindi non ci posso fare nulla! Ebbene, il Concilio Vaticano I dà una precisa definizione di miracolo che dice: “I miracoli sono segni certissimi della divina Rivelazione adatti all’intelligenza di tutti.” (sess.III, c.3, DB, 1790). Dunque, dinanzi ai miracoli non c’è giustificazione che tenga, perché essi si “adattano all’intelligenza di tutti.” Ed ecco perché il Vangelo di Marco, al capitolo 11, ci racconta: “Allora si mise a rimproverare le città nelle quali aveva compiuto il maggior numero di miracoli, perché non si erano convertite: ‘Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsaida. Perché, se a Tiro e a Sidone fossero stai compiuti i miracoli che sono stati fatti in mezzo a voi, già da tempo avrebbero fatto penitenza, ravvolte nel cilicio e nella cenere. Ebbene, io vi dico: Tiro e Sidone nel giorno del giudizio avranno una sorte meno dura della vostra.”
L’EPISODIO MAL INTERPRETATO DELL’APOSTOLO TOMMASO
Qualcuno, però, potrebbe fare questa obiezione: i miracoli non sono necessari, perché Gesù loda chi non ha bisogno di essi. Infatti, c’è l’episodio che toccò all’apostolo Tommaso che racconta: ‘Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi!’. Poi disse a Tommaso: ‘Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, emettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente!’ Rispose Tommaso: ‘Mio Signore e mio Dio!’. Gesù gli disse: ‘Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!’ (Giovanni 20). Questo episodio viene solitamente utilizzato per affermare che la vera fede è quella che prescinde totalmente dai segni, cioè dal vedere e constatare. E invece le cose non stanno così: Andrea Tornielli, nel suo Inchiesta sulla Resurrezione (Milano 2005), ci dice che questa traduzione non è fondata. Egli riprende l’illustre biblista Ignace de la Potterie, il quale afferma che nell’originale greco il verbo è all’aoristo (pisteusantes) e che anche nella versione latina era messo al passato (crediderunt). Per cui la frase non è: “Beati coloro che senza aver visto, crederanno”, ma deve essere così tradotta: “Beati coloro che senza aver visto (senza aver visto me direttamente), hanno creduto.”
Dunque, Gesù rimprovera Tommaso non perché vuol vedere, ma perché non si è fidato di coloro che già avevano visto. Gesù non rimprovera il “verificare”, che è insito nel credere, ma l’incapacità di Tommaso di affidarsi ai suoi amici i quali tutti ormai affermavano che il Signore era risorto; e lo affermavano non perché si basavano su una fede nell’astratto, ma perché avevano visto. Insomma, è quello che Gesù oggi ci dice: devi credere nella mia resurrezione non perché essa è assurda e inverificabile, bensì perché essa è stata oggettiva e verificata da molti... e a questi molti ti devi affidare.
Altro che fede che debba fare a meno del vedere e del toccare.
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