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Non so chi abbia vinto o perso, e non so neppure se questa terminologia agonistica sia adatta all'uopo, ma quello che ho capito io è che al Sinodo si sono confrontate due visioni del mondo e della fede. Non ci sono arrivata subito, anche perché durante le tre settimane di dibattito nei circoli minori le notizie uscite all'esterno sono state poche (e io non sono una insider). Dopo avere seguito praticamente tutte le conferenze stampa mi sembrava, sì, di avere sentito voci estremamente diverse le une dalle altre, anche qualcosa che non mi tornava tanto a dire il vero (tipo la "misericordia verso il peccato": io ero rimasta alla distinzione tra peccato e peccatore, ma, si sa, quanto a teologia io sto ferma al catechismo della prima comunione), però, nonostante la grande varietà di posizioni sentite ero certa che alla fine sarebbe arrivata una parola chiara e conclusiva. Quando finalmente è arrivata, questa benedetta relazione finale, mi ero messa tranquilla. Okay, le so tutte. Ho il Catechismo, pure in varie copie, cartonato e non, e tutto mi torna: a leggere i punti chiave mi pareva che non fosse cambiato niente nella dottrina su matrimonio e famiglia, e in più ero col cuore pieno di gioia per certe parole meravigliose sulla sessualità, la tenerezza, la castità, i metodi naturali, l'accoglienza alla vita, l'amore tra gli sposi, e anche per la comprensione della fatica che una famiglia fa a consistere.
I GIORNALI ITALIANI
Poi mentre ero ancora in Sala Stampa ho cominciato a leggere agenzie e titoli dei principali giornali italiani che ribaltavano completamente la lettura che avevo dato io, coi ben noti titoloni tipo "per un voto vince la comunione ai divorziati risposati", mentre gli stranieri in contemporanea scrivevano che il Papa che "voleva aprire" era stato sconfitto (ma perché, il Papa tifava per la comunione-libera-tutti?). Come succedeva quando in tv i politici commentavano gli exit poll, all'improvviso sembrava che avessero vinto tutti. E ho cominciato a chiedermi chi avesse ragione, e a sognare che magari la Sala Stampa, che aveva prontamente e fermamente smentito la notizia del tumore del Papa, tirasse le orecchie anche ai titolisti che avevano a loro volta tirato il testo per la giacchetta, per farlo sembrare dalla loro parte.
Adesso, passato qualche giorno, penso che davvero, anche se la dottrina non è cambiata, nel testo ci sia la possibilità di vedere non chiaro qualche punto, per chi voglia trovare un'ambiguità nel testo. È stato un lavoro di sintesi di posizioni lontanissime tra loro, e credo che fosse inevitabile. D'altra parte non è un testo normativo, né dottrinale: è un consulto, in alcuni passaggi chiarissimo, come sull'omosessualità (eppure alcuni, singolarmente, avevano anche espresso posizioni contrarie al catechismo), un consulto di pastori che hanno detto la loro al Papa, adesso si tratta di vedere cosa deciderà lui. Credo che le gerarchie si stiano chiedendo come dialogare con un mondo che, soprattutto sui temi della sessualità e dell'affettività non potrebbe essere più lontano dagli insegnamenti della Chiesa. Il Papa ha scelto la sua parola d'ordine, misericordia. Niente novità nella dottrina, hanno risposto i padri sinodali, ma maggiore comprensione per i divorziati risposati, da valutare caso per caso. E nel modo in cui interpretare quel "da valutare", mi sembra, possono dispiegarsi le due visioni della fede di cui accennavo all'inizio.
SENZA DI ME NON POTETE FAR NULLA
La prima direi che si possa grossolanamente riassumere così: il centro dell'annuncio che Cristo è venuto a portare all'uomo, prima ancora della sua risurrezione con il corpo, è la vita che lui può dare a noi, in Lui. Una vita ontologicamente diversa da quella solo umana, una venuta, quella di Cristo in noi, che ci guarisce della nostra doppiezza, incostanza, fragilità. Cristo è il medico che cura un uomo che sostanzialmente non è capace di bene da solo. Io sono la vite, voi i tralci. Senza di me non potete far nulla. E quindi ogni uomo si trova di fronte alla scelta, se aderire o meno alla vite, se stare attaccato come un tralcio a un Bene assoluto e oggettivo. Secondo questa visione del mondo chi decide di recidere ciò che lo teneva attaccato - come chi vive stabilmente e programmaticamente in modo contrario ai comandamenti - semplicemente è staccato. Non per un giudizio o per la cattiveria dei pastori, ma per la semplice constatazione di un dato di fatto. E se uno decide programmaticamente di rimanere staccato da Cristo, non ieri, che per le cose passate si può chiedere perdono, ma anche oggi e domani e prossimamente (come è per esempio di un divorziato risposato) non ha senso cercare un'unione intima col corpo di Cristo che si è rotta e si vuol continuare a tenere rotta.
Questo non c'entra niente con un giudizio sul valore della persona, ma è una constatazione della sua scelta. Sappiamo che umanamente l'amore può finire, certo, e se finisce non significa che siamo cattivi. Si può incontrare una donna perfetta, un uomo migliore. E non vuol dire che lo si è cercato, né che si è traditori e cattivi. Quello che sappiamo, e che abbiamo bisogno di sentirci annunciare dalla Chiesa è che il matrimonio cristiano è un'altra cosa, è un'altra qualità di amore, è una roba diversa. È un salto ontologico. Non è essere migliori, è vivere di un'altra vita, la vita del battesimo. È la vita in Cristo, ed è per questo che della gente rimane attaccata al proprio matrimonio nonostante tutto, per amore di Cristo, perché lui per gli sposi sta nel coniuge, ha il viso del marito, della moglie. Negare la comunione non è una forma di punizione o di infantile ripicca, ma semplicemente prendere atto della verità, che è pienezza di giustizia. La verità è che chi divorzia, di fronte a una fatica, a una sofferenza, a un dolore sceglie di vivere la sua vita secondo criteri umani, e spesso ne è più che legittimato dalle vicende umane (un matrimonio difficile o sbagliato, un tradimento...), mentre al contrario a volte chi rimane in un matrimonio lo fa perché sceglie Cristo prima di se stesso.
LA TEOLOGIA DI RAHNER
L'altra visione che fronteggiava questa è quella che in modo molto approssimativo possiamo dire ispirata alla teologia di Rahner, secondo cui la Rivelazione non regala all'uomo un punto di vista assoluto e trascendente fuori delle situazioni in cui vive. La Rivelazione di Dio avviene sempre tramite la nostra esistenza storica, e l'uomo si avvicina a Dio sperimentandolo nella sua esistenza: Dio si vede solo nel prossimo, e i dogmi della fede cattolica sono storici, non verità eterne da contemplare. Quindi la fede è un camminare in ricerca, e al fine di questa ricerca il dialogo diventa sostanza, mentre i contenuti dottrinali diventano accidenti (di questa illuminante spiegazione sono debitrice al libro edito dalla Bussola Quotidiana: Matrimonio e famiglia, Chiesa al bivio, di Stefano Fontana). Si capisce quindi che il giudizio sulle vicende esistenziali diventa molto più sfumato, e si può introdurre un criterio di gradualità del bene, come mi è parso di leggere nel paragrafo sulle convivenze prematrimoniali. Diventa necessario non giudicare più le condotte, ma sempre accogliere le persone.
Non so dire quale delle due visioni abbia prevalso, non credo lo si potrà dire fino al pronunciamento del Papa. Poiché già oggi avviene nella prassi che i casi vengano valutati uno per uno, il fatto che sia stata sottolineata questa possibilità mi fa propendere per l'idea che la seconda linea almeno su certi temi caldi sia prevalsa.
Io personalmente mi permetto di chiudere solo con una domanda: se la linea che dovesse prevalere fosse quella di accompagnare sempre tutti nell'errore, con la buonissima intenzione di farci sentire amati, non ci sarebbe precluso un altro livello di vita, una vita in Cristo? Non sarebbe come dire a un bambino: no, questo non lo puoi fare, fai un gioco più semplice, un puzzle con meno pezzi, un videogioco di livello più elementare? Non ci sarebbe tolta una bellezza più alta un'appartenenza più totale, una vita diversa che non è più quella dell'uomo vecchio, che vede il bene ma fa il male come dice san Paolo? Non ci sarebbe negato l'annuncio che può salvarci, la vera buona notizia?
Nota di BastaBugie: interessanti le puntualizzazioni di Tommaso Scandroglio nell'articolo dal titolo "Sinodo: errori e pericolose ambiguità della relatio finalis" pubblicato su Corrispondenza Romana il 28 ottobre 2015.
Ecco l'articolo completo:
Vogliamo porre sotto la lente di ingrandimento alcuni paragrafi del documento finale, puramente consultivo e non deliberativo, del Sinodo sulla famiglia. Nel n. 63 della Relatio si legge: «Conformemente al carattere personale e umanamente completo dell'amore coniugale, la giusta strada per la pianificazione familiare è quella di un dialogo consensuale tra gli sposi, del rispetto dei tempi e della considerazione della dignità del partner».
Vi sono alcune note stonate in questo periodo. Innanzitutto «pianificazione familiare» è espressione semmai cara al Fondo delle Nazioni unite per la Popolazione, non certo al Magistero. È questione prima di senso che linguistica. «Pianificazione familiare» è formula coniata da alcuni organismi internazionali per sdoganare contraccezione e aborto ed assume il principio che siano i coniugi i signori della vita (e della morte) dei propri figli. Figli che vengono visti come merce di cui programmare il marketing strategico. La regolazione della natalità rimanda invece alle regole fisiologiche che governano il ciclo della donna, quindi al rispetto delle leggi di natura.
Desta poi stupore l'uso del termine «partner» a posto di "coniuge". Il primo è confacente ai conviventi non sposati, ma i rapporti sessuali a cui implicitamente fa cenno il n. 63 della Relatio sono leciti solo all'interno del matrimonio. Quindi non partner, bensì coniuge era il lemma corretto da usare. Ma lo snodo concettuale che è più problematico in questo numero della Relatio è quello che fa riferimento ai criteri da seguire per realizzare una «pianificazione familiare» lecita sul piano morale. Questi sono rappresentati dal «dialogo consensuale tra gli sposi», dal «rispetto dei tempi» e dalla «considerazione della dignità del partner».
L'impostazione è assai equivoca se non errata. Per il Magistero la questione della regolazione delle nascite si inserisce nella considerazione che il matrimonio deve essere sempre aperto alla vita.
Solo per seri motivi si possono distanziare le nascite, tramite il rispetto dei periodi infecondi (HV, n. 16 e Familiaris consortio n. 32), questo nel rispetto del principio di ordine morale che predica di non compiere mai il male, ma che legittima l'astensione a volte da un bene per un bene maggiore. Quindi erra chi dice: «Tocca ai coniugi scegliere quanti figli avere». Corretto invece dire: «Bisogna essere sempre aperti alla vita, eccetto in alcuni casi».
Il principio quindi non è quello della pianificazione familiare, ma della paternità e maternità responsabile. Paternità e maternità responsabili che certamente si costruiscono anche - come indica la Relatio - attraverso il dialogo e il rispetto della dignità dei coniugi. Ma - e qui sta il punto - l'osservanza di questi elementi non legittima l'astensione dei rapporti nei periodi fecondi. In altre parole non basta aver preso la decisione, dopo sereno confronto e dialogo, di non avere figli per un po' di tempo perché sia lecito astenersi dai rapporti coniugali.
Non si capisce poi come l'aprirsi alla vita possa essere contrario alla dignità dei coniugi, a meno che - ma qui la Relatio tace - tale apertura nel modo in cui si esplica sia contraria a questa dignità (ad esempio ricorrendo alla violenza). Rimane poi alquanto criptico il riferimento al «rispetto dei tempi». Tale riferimento sarebbe corretto se si alludesse ai periodi infecondi oppure al rispetto dei tempi/condizioni psicologiche e fisiologiche dei coniugi. Ad esempio, un motivo serio per distanziare le nascite potrebbe essere l'insorgenza di una grave patologia in uno dei due sposi oppure una profonda immaturità psicologica e/o affettiva. Insomma questo numero della Relatio oscilla tra l'errore e la pericolosa ambiguità.
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