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Da 10.500 anni l’agricoltura impiega con profitto la CO2 per produrre cibo, per cui l’idea della CO2 come inquinante propostaci dai leader mondiali riuniti a Copenhagen è stata, per usare un’espressione cara a Enrico Fermi, una “Hiroshima culturale” che avrà ripercussioni nefaste sulle giovani generazioni.
I dati osservativi indicano che il cosiddetto “riscaldamento globale” (+0,8°C in 150 anni) è fenomeno che interessa soprattutto le latitudini medio-alte; in ragione di ciò è apparso oltremodo ridicolo quel signore africano che, intervistato a margine della conferenza di Copenhagen, si lamentava del fatto che in Africa faccia troppo caldo per colpa dell’Occidente evoluto.
“Testimoni del clima che cambia” ed “eroi del clima” si sono aggirati per Copenhagen sponsorizzati dal WWF, a testimonianza soprattutto di un tempo che sempre più sostituisce le sensazioni alle misure.
Pare che in tutto i partecipanti all’evento danese siano stati 45.000; una partecipazione avvenuta in gran parte a spese dei contribuenti e sul cui impatto ambientale è meglio stendere un velo pietoso. Frattanto, ai margini del summit, una sapiente regia mediatica alimentava la spasmodica attesa delle masse, informandoci tramite radio, Tv e quotidiani sugli innumerevoli disastri che sono dietro l’angolo; nessuno si è tuttavia peritato di dirci che l’Antartide presenta oggi la copertura glaciale marina più ampia mai riscontrata da quando si fanno misure regolari.
In sintesi il global warming visto da Copenhagen fra il 7 ed il 18 dicembre 2009 ha assunto i connotati della farsa, una farsa di cui purtroppo quasi nessuno ha riso perché erano tutti troppo impegnati a recitare.
Peccato davvero: in passato Copenhagen fu la città di quell’Hans Christian Andersen che coniò l’immortale frase “il re è nudo”, frase che nessuno ha avuto il coraggio di pronunciare in occasione di questo summit.
La storia dell’agricoltura ci insegna che i nemici della produzione di cibo sono le fasi climatiche fredde e quelle caldo-aride. Al contrario, le fasi calde sono da sempre favorevoli all’attività agricola e dunque alla civiltà, a condizione di disporre di acqua. Ciò significa che molto prima di una politica globale della CO2 dovrebbe venire una politica globale delle risorse idriche finalizzate agli usi civili ed alla produzione di cibo.
Ma come conciliare una così lampante esigenza con gli enormi interessi del settore energetico o con l’atteggiamento medio del settore agricolo? Il nostro settore purtroppo, a fronte dell’ingiusta accusa - “inquinate emettendo CO2, metano, protossido d’azoto ecc.” - non solo non è in grado di rispondere che l’agricoltura assorbe molta più CO2 di quanta non ne emetta (e per di più per uno scopo nobile quale la produzione di cibo) ma sempre più spesso si autodichiara “inquinatore” sperando così di ottenere un modesto “piatto di lenticchie”.
Non è dicendo “scusateci se esistiamo” che si fa il bene proprio e della collettività.
Nel 2050 questo pianeta avrà circa 9 miliardi di abitanti; quando avremo dilapidato le nostre risorse per ridurre la CO2 (magari infilandola a caro prezzo nelle viscere della Terra) cosa daremo da mangiare a tutta quella gente? Da leader mondiali saggi e che vedano un poco oltre il loro naso (pardon, “mandato”) mi sarei atteso una risposta chiara e non dilatoria a questa domanda. E, credetemi, non bastano le parole magiche “biologico” o “biodinamico” che oggi mi suonano sempre più simili al motto di tutti gli ancien regimes: “il popolo non ha pane, che mangi brioches”.
Grava su tutti noi la profezia di Richard Lindzen, professore di Fisica dell'atmosfera al Massachusset Institute of Technology, secondo cui “...le generazioni future si meraviglieranno, attonite, di come agli inizi del XXI secolo il mondo sviluppato sia stato colpito da un panico isterico per un aumento della temperatura a livello mondiale di pochi decimi di grado e di come, sulla base di grossolane esagerazioni nelle proiezioni fatte al computer, abbia potuto profetizzare la necessità di un totale rovesciamento dell’era industriale”.
Questi pensieri si accavallano mentre scorro l’accordo di Copenhagen che i capi di Stato e di Governo hanno sottoscritto al termine della Conferenza, un documento onusto di slogan sul cambiamento climatico come grande sfida del nostro tempo, sul contenimento dell’aumento delle temperature entro i 2°C rispetto all'inizio dell'era industriale, sullo sviluppo sostenibile, sui profondi tagli nelle emissioni globali, sull’equità, sullo sradicamento della povertà, sull’ulteriore stretta alle emissioni rispetto a Kyoto, sulla lotta alla deforestazione, sull’aiuto allo sviluppo dei Paesi in via di sviluppo tramite la cooperazione internazionale. Nemmeno una parola invece sull’agricoltura e sulla produzione di cibo.
Tre giorni dopo la conclusione del vertice, 21 dicembre, primo giorno d’inverno, l’Europa si è trovata alle prese con quella che è forse la maggiore ondata di freddo dopo il 1985; fra morti per freddo e trasporti nel caos il global warming torna finalmente in soffitta.
Good bye, Copenhagen.
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