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1) MESSA DELLA NOTTE (Lc 2,1-14)
"Un bambino è nato per noi" ci ha detto la voce del profeta antico: Isaia. Sulle prime non sembra una grande notizia. Perché allora ci siamo mossi in tanti questa notte per venire a renderci conto di un evento apparentemente così feriale e dimesso ("E' nato un bambino")? Perché siamo venuti a rendere omaggio a una creatura così piccola e indifesa? A una creatura "avvolta in fasce" dalla premura materna (ed è una cosa del tutto normale); a una creatura "deposta in una mangiatoia" (ed è sì una cosa insolita, ma unicamente per lo straordinario squallore).
Certo, lo stesso profeta che ci ha dato l'annuncio, ci ha anche chiarito che non si tratta di un neonato comune: "Sulle sue spalle è il segno della sovranità, - ci ha detto - è chiamato Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace, e grande sarà il suo dominio". Titoli solenni, ma troppo sovrastanti per poterci davvero emozionare.
Come mai allora questa nascita arriva a toccare un po' tutti, anche quelli meno sensibili alle tematiche religiose, anche quelli più resistenti alle sollecitudini e ai pensieri che non riguardino gli impegni e le aspirazioni dell'esistenza terrena? E' innegabile che l'incanto del Natale - sia pure con diversa intensità e in forme eterogenee - raggiunge praticamente qualsivoglia dimora umana, e poco o tanto segna e ispira ogni cuore. Del Natale si accorge ogni uomo, anche il più superficiale e distratto. Di questa universale attenzione ci sono delle ragioni forti e profonde, anche se dai più sono percepite confusamente e quasi come luci tenui e disordinate.
Proviamo allora a mettere in chiaro qualcuna di queste ragioni.
1) L'INNOCENTE CHE CI LIBERA DAL PECCATO
Chi è questo bambino? E' l'Innocente che ci libera dal peccato: nasce in un'umanità colpevole, ne assume la condizione e la pena, e ne pagherà col suo sangue il riscatto e la liberazione. "Ecco l'Agnello di Dio, - esclamerà un giorno Giovanni il Battezzatore, additandolo alle folle - ecco colui che toglie il peccato del mondo". Càpita all'uomo – quando è beneficato da un sufficiente stato di lucidità interiore - di provare l'amara percezione di essere scivolato in basso senza rimedio e di essere affondato come in una palude melmosa, dalla quale sa di non riuscire a emergere se qualcuno dall'alto non viene a dargli una mano.
Ebbene, il Signore Gesù, che è nato a Betlemme, è venuto a darci una mano, è sempre pronto a risollevarci e a farci ripercorrere da capo la strada della giustizia, del vero bene, dell'intera osservanza dei comandamenti di Dio.
In una sua omelia, sant'Agostino ha una frase dove risuona la sua esperienza di peccatore raggiunto dalla salvezza (che è poi l'esperienza un po' di tutti): "Saresti morto per l'eternità, - egli dice - se lui non fosse nato nel tempo…Una perpetua miseria ti avrebbe posseduto, se non ti fosse stata elargita questa misericordia…Ti saresti perduto, se lui non fosse arrivato".
L'odierna nascita dell'Innocente è dunque un invito a rinnovare la nostra vita in comunione con il Figlio di Dio, divenuto nostro fratello e nostro Salvatore. La gioia del Natale, nella sua più radicale autenticità, è un riverbero nella nostra coscienza della festa che, secondo la parola di Gesù, si fa in cielo per ogni peccatore che si converte.
2) L'IMMORTALE CHE CI LIBERA DALLA MORTE
Domandiamoci ancora: "Chi è questo bambino?". È l'Immortale che ci libera dalla morte. Egli viene dal giorno eterno di Dio ed entra in questi nostri giorni "infausti e brevi", sui quali incombe una rapida sera. "Viene dall'alto, come sole che sorge, per rischiarare quelli che stanno nell'ombra della morte", era stato profetizzato di lui da Zaccaria nel benedictus che troviamo nelle lodi mattutine.
L'ombra di morte può darsi che talvolta offuschi anche il periodo natalizio che vorrebbe essere sempre lieto e sereno: per esempio, un vuoto recente, che si è aperto nella famiglia o nella cerchia dell'amicizia, può gettare un alone di invincibile tristezza sul nostro animo. In ogni caso, la morte è una certezza per tutti noi. E il Figlio di Maria nasce anche per questo: per dissolvere l'angoscia dell'ombra di morte. "Io sono la risurrezione e la vita; - egli dirà e lo comproverà con la potenza di Dio - chi crede in me anche se muore vivrà, e chiunque vive e crede in me non morrà in eterno".
Credere in lui significa appunto uscire dall'ombra di morte; significa vincere con la speranza cristiana ogni ansia e ogni paura; significa consentire che la luce nuova e gioiosa che si è accesa a Betlemme irraggi senza attenuazioni e senza eclissi nei nostri cuori, nelle nostre case, nei nostri rapporti sociali.
3) L'AMORE CHE CI LIBERA DAL NOSTRO NATIVO EGOISMO
Domandiamoci una terza volta: "Chi è questo bambino?". E' l'Amore che ci libera dal nostro nativo egoismo. La stalla di Betlemme - come sarà poi in modo esauriente e definitivo l'altura del Calvario - è la rivelazione dell'inimmaginabile amore del Creatore dell'universo "che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi". E' l'inizio di quella lunga storia di affettuosa dedizione che è l'intera avventura terrena dell'Unigenito del Padre, nato dalla Vergine Maria. Ciascuno di noi può ripetere per sé le appassionate parole dell'apostolo Paolo: "Mi ha amato e ha dato se stesso per me". Quel bambino nasce per insegnarci con l'esempio e con la parola che la vita vale a misura che è donata: vale se è donata per ricambiare l'amore che ci ha creati e salvati, vale se è donata per Dio e per il vero bene dei nostri fratelli.
Se arriveremo a spendere così la nostra unica vita, saremo nella realtà, e non solo nel sentimento, più vicini alla povera culla dell'Unigenito del Padre, che si è fatto unigenito della Vergine Madre per stare sempre con noi, nel tempo e nell'eternità.
2) MESSA DEL GIORNO (Gv 1,1-18)
Ciò che è avvenuto a Betlemme venti secoli fa può esser qualificato come un'invasione di gioia. Una gioia immensa, una gioia invincibile, per la prima volta è entrata nella storia; in quella storia umana che è più che altro un succedersi ripetitivo di tristezze e di angosce. "Vi annunzio una grande gioia" (Lc 2,10): così nella notte santa l'angelo dà la notizia del Natale agli insonnoliti pastori. Questa gioia, notificata dal cielo, è arrivata fino a noi e contraddistingue e rischiara lietamente questi giorni tra tutti i giorni dell'anno.
La ragione più semplice e immediatamente comprensibile della contentezza che (in misura e in forme diverse) oggi raggiunge ogni uomo, è che l'umanità intera almeno confusamente capisce di aver ricevuto un regalo.
Un regalo, anche se piccolo, è il segno che qualcuno ci vuole un po' di bene; e sentirsi amati è la cosa più bella e gratificante che ci sia.
Ma qui il dono è il più grande e sorprendente che si possa pensare: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16).
La pagina altissima del vangelo di Giovanni, che abbiamo ascoltato, ci aiuta a renderci conto dell'immensa ricchezza che abbiamo ricevuto.
Quel "Figlio unigenito" - quel "Verbo che era presso Dio ed era Dio" (cfr. Gv 1,1) - ci aiuta a risolvere, almeno sul piano esistenziale, i nostri problemi più difficili. Se ci chiediamo, per esempio: da che parte è venuto l'universo?, il Natale ci risponde sciogliendo l'enigma dell'origine delle cose: "Tutto è stato fatto per mezzo di lui - ci è stato detto - e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste" (Gv 1,3). "Per mezzo di lui", cioè per mezzo di quel bambino povero e indifeso che contempliamo effigiato nei nostri presepi, del quale la parola di Dio, che qui è risonata, ci ha rivelato il nascosto prestigio e la forza trascendente: "Ultimamente, in questi giorni, ci ha parlato per mezzo di un figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo" (Eb 1,2).
Ma che cosa rappresenta il bimbo nato a Betlemme per me, per le mie sostanziali aspirazioni di creatura smarrita, che deve affrontare l'arcano inquietante di un pellegrinaggio terreno senza certezze, verso un destino che non mi è noto?
Quel bambino è "la luce vera, quella che illumina ogni uomo" (Gv 1,9), ci è stato risposto. Dopo che lui è venuto, non siamo più dei viandanti che camminano al buio: non solo la nostra origine, ma anche la nostra mèta ci è stata chiarita nell'evento del Natale.
La nostra mèta è quella di assimilarci al Verbo che si è fatto uomo, ed essere come lui "generati da Dio" (cfr Gv 1,13), cioè possessori, rimanendo creature umane, della vita divina; una vita tanto superiore e preziosa da essere in grado di sottrarci alla tirannia della morte e di porci al riparo dagli insulti del male: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16).
"Chiunque crede in lui". La strada per realizzare in noi la realtà del Natale è quella, come si vede, di accogliere la venuta del Signore Gesù con una fede autentica e piena, una fede che trasformi la nostra mentalità irredenta e converta sostanzialmente la nostra vita: "A quanti l'hanno accolto - abbiamo sentito - ha dato potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome; i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati" (Gv 1,12-13).
"E il Verbo si fece carne e venne ad abitare il mezzo a noi" (Gv 1,14).
Abita in mezzo a noi, è ormai dei nostri, nostro familiare e nostro compagno di viaggio: anche questo fa parte dell'intima motivazione della gioia natalizia. E' il dono di poter evadere della solitudine e vincere il disagio dell'incomunicabilità.
Gli uomini vivono oggi addensati e fitti come in nessun'altra epoca. Eppure sono troppo spesso estranei gli uni agli altri, senza il conforto di una sincera comunione di pensieri e di vita.
Ma da quando il Figlio di Dio si è fatto uomo e ha preso dimora fra noi, nessun uomo deve più sentirsi abbandonato e solo. Ognuno che crede e accoglie il Natale nella sua piena verità, arriva alla persuasione che lo fa rinascere e gli fa dire: "C'è un Dio che è con me, un Dio che sa che ci sono e non mi dimentica, un Dio che mi ha raggiunto con il suo amore, un Dio che ha assunto volto e cuore di uomo perché anch'io potessi amarlo come lui mi ama".
Questa è la bellezza e l'incanto più coinvolgente della festa di luce e di vita che oggi ci raduna.
"Ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo" (Lc 2,11): così la voce dell'angelo ha squarciato non solo il silenzio della notte palestinese ma anche la notte oscura che incombe sull'intera vicenda umana.
"Di tutto il popolo"; dunque anche nostra. Nell'evangelo" - nella "buona notizia" che è partita da Betlemme - non ci sono privilegi di ricchezza, di classe, di dominio, di fama.
Questa gioia ineffabile entri allora in tutte le case, si posi come una divina carezza sul capo dei nostri bimbi, come dolce conforto nelle sofferenze dei malati, come una mite consolazione nelle pene dei tribolati, come una presenza rasserenante nel deserto di chi si sente derelitto e solo, come un'energia di vittoria nella debolezza di chi è tentato, come una certezza per tutti di un esistenza più significante e felice.
Questo è l'augurio natalizio più adeguato e più vero.
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