LA DOLCE VITA DI FELLINI E' UN FILM ANTICATTOLICO
Federico Fellini acclamato come maestro e celebrato anche in casa cattolica, di lui si dimentica che ad esempio ne ''La dolce vita'' la religione viene dileggiata e la realtà appare un incubo
di Mario lannaccone
Federico Fellini, il "maestro", è considerato uno dei più grandi artisti italiani del Novecento. I suoi film, giudicati ambasciatori nel mondo del genio italiano, sono stati premiati dall'industria cinematografica, un sistema "politicamente corretto", con una serie insolita di Oscar e premi: La strada (Oscar, 1957), Le Notti di Cabiria (Oscar, 1958), La dolce vita (Palma d'oro a Cannes 1960), 8 e mezzo (Oscar, 1963) sino ad Amarcord (1973), che ha segnato il limite della migliore stagione creativa del regista.
Al di là delle qualità registiche, linguistiche, della capacità di messa in scena, di governo delle masse di attori, della creazione di piani sequenza che hanno fatto scuola, dell'immaginifica ricchezza visiva, cosa racconta Fellini? Perché è giudicato un maestro e per giunta, da alcuni, addirittura un "maestro cattolico"?
Dal punto di vista personale, l'itinerario del regista riminese può essere diviso in due momenti: una prima parte, che va dalla giovinezza al 1960, anno de La dolce vita, nella quale la sua è una formazione italiana tradizionale; e una seconda, successiva al 1960 quando, sotto l'influsso dello psicanalista junghiano, esoterista e parapsicologo, Ernst Bernhardt (1896-1963), si spostò verso uno spiritualismo equivoco, accentuando le componenti oniriche ("felliniane") del suo cinema. Fellini si avvicinò a un mondo che lo aveva già affascinato: l'esoterismo, lo spiritismo, le teorie di Carlos Castaneda. Un esame narrativo e tematico de La Dolce vita, il film che fa da perno al suo itinerario, può essere utile per comprendere Fellini. Sappiamo che Pier Paolo Pasolini definì il film "il più alto, e più assoluto prodotto del cattolicesimo" e su La Civiltà Cattolica il gesuita Angelo Arpa lo giudicò "la più bella predica che avesse mai ascoltato". Giudizi, di certo, influenzati dal clima di esaltazione di quegli anni, ma radicalmente errati.
LA DOLCE VITA
La dolce vita è una contropredica, un compiaciuto racconto della discesa agli inferi di un'umanità degradata e larvale. Lo spettatore attraversa per quasi tre ore un mondo di suoni e apparenze, dove peraltro la religione viene dileggiata e la realtà appare come un incubo.
Il film si apre con un'immagine di una statua di Cristo che pende legata a un elicottero. È quasi una parodia della resurrezione: "Guarda è Gesù, ma dove va?", chiede qualcuno. "Lo portano dal Papa". La figura del Cristo "volante" viene sostituita, mediante uno stacco in montaggio, da un ballerino abbigliato da idolo orientale che danza in un night club, quasi a sottolineare l'equivalenza fra religioni.
Lunghe sequenze successive mostrano il protagonista Marcello, un giornalista disilluso, che s'incontra con una donna, Maddalena, che lo invita ad andare con lui. Lei è annoiata e soltanto l'amore le "dà la carica". Marcello con lei passa la notte in un letto che si trova in un sotterraneo allagato, sorta di simbolo della regressione. Quest'amante che si autodefinisce "prostituta" è messa in contrapposizione a un altro personaggio femminile, Emma, fidanzata materna, che vorrebbe essere madre e sposa. Tradita da Marcello, sempre insultata, lo attende in una casa vuota e non finita, simbolo del rifiuto di lui dell'amore coniugale. Si avvelena per attrarre l'attenzione di lui, invano.
LA DIVA STRANIERA DALLE FORME GIUNONICHE
Queste due figure, la donna libera (accostata a prostitute) e la donna-moglie, vengono oscurate dall'arrivo della loro sintesi, la diva straniera dalle forme giunoniche, Anita Ekberg, che si annuncia con un "Love, love, love". Le immagini e le parole la definiscono come una sorta di personificazione della Dea Madre o Grande Madre, divinità femminile primordiale. Per un servizio fotografico sale, vestita da prete, sulla cupola di San Pietro, sopra la tomba dell'apostolo - centro del cattolicesimo - e lassù perde il cappello sciogliendo i capelli al vento, quasi a liberarsi, a significare la sua venuta, nuova dea sensuale di una nuova èra. Marcello ne è affascinato e le rivolge una sorta di preghiera: "Tu sei tutto. Ma lo sai che sei tutto? Tu sei la prima donna del primo giorno della creazione. Sei la madre, la sorella, l'amica, l'angelo, il diavolo, la terra, la casa". Premettendo che la prima donna è, nell'antico giudaismo, la mesopotamica Lilith, non Eva, la donna interpretata dalla Ekberg, Silvia, rimanda a Rea Silvia, dea romana della terra e delle selve. Lei è il "tutto", come nelle antiche religioni della terra. Più tardi fa il bagno nella Fontana di Trevi come una dea della terra e delle fonti. Ammirandola in estasi, Marcello esclama: "Ha ragione lei, stiamo sbagliando tutto": il vecchio mondo della ragione e della cultura deve cedere agli istinti e alla natura.
A questa apparizione abbacinante si contrappone il vecchio razionalismo di Steiner, intellettuale che si autodefinisce il "diavolo", nichilista, ammirato da Marcello che lo incontra, non a caso, in una chiesa.
Prima della conclusione della tragedia di Steiner si passa nella lunga sequenza (20 minuti) della presunta apparizione della Vergine. I "veggenti" sono due bambini che simulano: bisbigliano fra loro, ridacchiano, corrono, facendosi inseguire da una folla grottesca. La scena evoca bruttezza, ignoranza, desolazione; si svolge in una campagna illuminata da enormi proiettori come fosse un set cinematografico. Un prete segaligno mette in guardia: "I miracoli nascono nel raccoglimento". La sequenza finisce con una pioggia che fa piombare la scena nel buio. La fidanzata "tradizionale" Emma viene colta da un eccesso di fanatismo e si mette a strappare foglie, misere reliquie, da un alberello accanto al quale sarebbe apparsa la Vergine. La sequenza si chiude con la morte di un vecchio, disteso, cui viene data l'estrema unzione nella luce livida dell'alba.
RAPPORTI LIQUIDI E LIBERI
La sera, Marcello torna da Steiner, nella sua casa: lui è colto, ha una bella famiglia ma è infelice, impaurito. Ha due bambini bellissimi, che appaiono a un certo punto vestiti di bianco come due angioletti in prefigurazione della loro morte. In casa sua si riuniscono bizzarri intellettuali: un viaggiatore che esalta la donna orientale, un musicista e una poetessa straniera che incita Marcello a non scegliere mai fra due amori, di restare disponibile, di non legarsi. Prima di congedarsi Steiner sillaba: "È meglio una vita più miserabile che un'esistenza protetta da una società organizzata". La mattina successiva viene trovato suicida e omicida dei suoi figli. Alla scena segue una caccia ai fantasmi da parte di un gruppo di nobili degenerati e tristi e quindi un alterco fra Marcello ed Emma. Alle richieste di lei lui sbotta: "Non vedi che quello che mi proponi è una vita da lombrico? Non sai parlare d'altro che di cucina e di camere da letto. Ma un uomo che accetta di vivere cosi, lo capisci, che è un uomo finito? Questo non è amore, è abbruttimento".
La dolce vita esalta il mondo nuovo, i nuovi rapporti liquidi e liberi dove non ci saranno figli. Nel 1960 prefigurava il futuro desiderato da molti e veniva premiato, per questo, con incredibili onori. Quanto alla religione, Fellini chiude il suo film con un'immagine mostruosa. Dopo l'orgia con travestiti e donne disperate in una villa, un gruppo di amici arriva su una spiaggia, dove alcuni pescatori stanno tirando a riva una gigantesca manta. Qualcuno la crede viva ma s'inganna: "È morta da tre giorni", corregge un pescatore. Cosa significa quest'apparizione? È un pesce morto, un ichtús, acronimo di "Iésus Christòs Theou Uiòs Sotér» (Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore) che non è resuscitato il terzo giorno. Questa è la conclusione del "più assoluto prodotto del cattolicesimo", della "più bella predica mai ascoltata": nel cuore della dolce vita del boom economico c'è la morte, il nulla, la putrefazione. Non è ammonimento, è semplice, forse compiaciuta, registrazione di un dato di fatto.
Titolo originale: Federico Fellini, la dolce dissoluzione
Fonte: Il Timone, novembre 2016 (n.157)
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