CINA: OLIMPIADI E DIRITTI UMANI VIOLATI
«Parlare di diritti è tradire lo spirito olimpico»
di Bernardo Cervellera
«Pechino è pronta!»: lo slogan che tutte le televisioni, radio, giornali, cartelli stradali riportano ad ogni piè sospinto dice qualcosa del nervosismo con cui la capitale cinese si sta preparando a quello che viene visto come l’evento più importante da almeno 50 anni. Il governo della città e la stessa Cina puntano sulle Olimpiadi per mostrare finalmente una Cina alla pari con tutte le maggiori nazioni del mondo, una Cina aperta, amichevole, vittoriosa sul piano dello sport e della cultura, oltre che su quello economico.
Dopo l’inaugurazione del Cubo d’acqua, l’avveniristico quartiere delle piscine e dei tuffi, si aspetta il varo dello Stadio nazionale, il famoso “nido d’uccello”, il cui modello viene presentato ovunque, anche nei ristoranti. Da mesi Zhang Yimou, il regista di «Lanterne Rosse» e «La città proibita» prova e riprova la cerimonia di apertura con migliaia di comparse, pur mantenendo il “segreto di Stato” sui particolari. Si sa solo che vi saranno brani di opera cinese e fuochi d’artificio. Anche la campagna per la buona educazione sta dando frutti: i tassisti – pena delle multe salate – devono lavarsi tutti i giorni, pulire l’auto per togliere cattivi odori, imparare qualche frase in inglese per accogliere gli ospiti stranieri. Ogni buon cinese non deve più sputare per terra, non deve gridare, non deve mai saltare la fila ai biglietti, alla banca, ai negozi. Da giorni 200mila poliziotti stanno ripulendo la città da bande e malviventi e si cerca di migliorare la qualità dell’aria. Pechino ha promesso che per alcuni mesi farà perfino chiudere alcune fabbriche inquinanti per dare agli atleti un’aria pura (o quasi).
Al di là di questi buoni risultati, il nervosismo rimane grande: la Cina in questi mesi sarà sotto i riflettori di tutto il mondo, e la leadership teme critiche dall’esterno perché fanno perdere la faccia e rischiano di alimentare il grande malcontento diffuso nella popolazione.
I fallimenti su cui la Cina è inciampata in questi mesi non sono un buon segno: lo scorso fine ottobre, all’apertura delle prenotazioni dei biglietti per le cerimonie olimpiche, il sistema elettronico è andato in tilt; nei giorni scorsi, a causa del maltempo, le linee elettriche sono saltate in 16 delle 31 province cinesi, mettendo in dubbio la «prontezza» di Pechino, visto che per tre settimane intere città sono rimaste senza riscaldamento e senza luce.
Ma soprattutto Pechino non sembra pronta a farsi conoscere per quello che è, nelle sue cose belle, ma anche nelle sue cose brutte. Solo adesso cominciano ad emergere notizie su quante persone sono state espropriate delle loro case per far posto agli impianti e ai villaggi olimpici: almeno 1,5 milioni. Solo ora il governo confessa che vi sono stati (ufficialmente) 6 morti sui cantieri dei Giochi.
Oltre a questo, la Cina non sembra disposta a condividere di più: pur lasciando «libertà » ai giornalisti stranieri, ha vietato a tutti i giornalisti cinesi di parlare dei problemi del Paese; rivendicando che i Giochi non devono essere usati politicamente, la polizia sta facendo piazza pulita di dissidenti, attivisti per i diritti umani, poveri contadini che si recano nella capitale per presentare petizioni. Ogni richiesta interna ed esterna di usare i Giochi per migliorare la situazione dei diritti umani è scartata come manipolazione politica e come «tradimento dello spirito olimpico». In questo Pechino è aiutata dal Comitato olimpico internazionale (Cio) che ha ridotto le sue pretese. Nel 2001 aveva detto che le Olimpiadi avrebbero migliorato i diritti umani in Cina; oggi dice che il Cio non è un’organizzazione umanitaria e può non preoccuparsi delle violazioni ai diritti umani.
Proprio perché la Cina vuole solo dare spettacolo, ma non farsi conoscere, l’arma migliore non è il boicottaggio dei Giochi, ma il parteciparvi, visitando non solo i monumenti sportivi, ma anche i poveri e i diseredati dell’Impero.
È quanto stanno pensando gruppi di buddisti tibetani, che vogliono entrare in massa a Pechino per pubblicizzare davanti alle telecamere del mondo intero le violenze della Cina contro il Tibet e il Dalai Lama. Anche protestanti brasiliani e americani si preparano da anni, studiando il cinese, a sfruttare la facilità dei visti in occasione delle Olimpiadi per evangelizzare il Paese importando migliaia di bibbie e allestendo incontri informali con la popolazione.
Pechino ha già avvertito che permetterà solo raduni «in accordo con la legge», in cui cerimonie fra fedeli stranieri e cinesi vengano svolte sotto l’egida e la supervisione dalle Associazioni Patriottiche, registrate e controllate. Negli ultimi mesi la Cina ha espulso o deportato oltre 100 presunti missionari, soprattutto di Stati Uniti, Corea del Sud, Singapore, Canada, Australia e Israele. Le espulsioni sono avvenute a Pechino e nelle regioni di Xinjiang, Tibet e Shandong. E a rincarare la dose, ha lanciato una campagna di «normalizzazione» delle comunità protestanti, arrestando migliaia di fedeli delle comunità sotterranee.
Il monito del governo che non è pronto a rivelare il suo vero volto.
Retate, le cosmesi forzate e i divieti in campo religioso.
Articoli su "Comunismo"