COSA DICE LA CHIESA SUL TIBET
All’udienza generale del 19 marzo 2008 il Santo Padre ha lanciato questo appello per il Tibet.
di Leonardi Enrico
“Seguo con grande trepidazione le notizie, che in questi giorni giungono dal Tibet. Il mio cuore di Padre sente tristezza e dolore di fronte alla sofferenza di tante persone. Il mistero della passione e morte di Gesù, che riviviamo in questa Settimana Santa, ci aiuta ad essere particolarmente sensibili alla loro situazione. Con la violenza non si risolvono i problemi, ma solo si aggravano. Vi invito ad unirvi a me nella preghiera. Chiediamo a Dio onnipotente, fonte di luce, che illumini le menti di tutti e dia a ciascuno il coraggio di scegliere la via del dialogo e della tolleranza”.
Nei giorni precedenti si era distinto per una ferma presa di posizione il Vescovo di San Marino-Montefeltro, Mons. Luigi Negri:
“Non posso non ricordare a voi tutti, in questa celebrazione che inizia il nostro cammino dietro il Signore la passione che sta vivendo un popolo a noi carissimo. Il popolo del Tibet al quale noi siamo legati di singolari vincoli di amicizia per la grande testimonianza data quattro secoli fa da uno dei più illustri cittadini di Pennabilli, Francesco Orazio Olivieri della Penna, che è stato missionario cappuccino e ha creato una piccola e vivace comunità cattolica che solo l’invasione comunista ha irreversibilmente distrutto. Il Dalai Lama mi ha confidato più volte che due posti ha nel cuore in Italia: la Sede di Pietro e la Chiesa di Pennabilli. Noi vorremmo poter sostenere questo cammino terribile a cui viene sottoposto un popolo straordinariamente colto e pacifico, sottoposto da decenni ad una dominazione da una potenza che non aveva nessun diritto di occupare il Tibet e che lo occupa e lo impoverisce in dispregio delle norme del diritto internazionale. Noi ci auguriamo, anche se non abbiamo tanta speranza, data la povertà delle classi politiche in occidente, che le Olimpiadi di Pechino vengano boicottate dai popoli civili. Le Olimpiadi di Pechino grondano sangue e non sole del sangue dei monaci e dei civili tibetani che sono stati uccisi in queste ultime 48 ore e che sono infinitamente più vaste di quelle che l’ipocrisia del regime di Pechino dice; ma grondano del sangue di migliaia e migliaia di operai che hanno costruito, in situazioni di assoluta insicurezza, queste enormi costruzioni che debbono gridare al mondo il dominio del capitale comunista; delle migliaia e migliaia di cittadini espulsi dalle loro case abbattute per creare stadi, alberghi ecc. e che hanno trovato la morte di fame e di stenti nella periferia di Pechino. Voi non sapete queste cose perché leggete soltanto quotidiani laicisti che si guardano bene dal dire queste cose. Se aveste letto, qualche volta, il quotidiano cattolico vi avreste incontrato quelle straordinarie testimonianze del più intelligente sinologo che abbiamo in Italia, Padre Bernardo Cervellera che documenta, puntualmente, di questa cosa abominevole che è questo regime che unisce tecnologia e barbarie. I cinesi sono dei barbari tecnocrati; e noi per soldi vendiamo l’anima della nostra civiltà”.
Lo stesso Padre Bernardo Cervellera, intervistato il 17 marzo su “Il Giornale” da Andrea Tornielli dapprima ha offerto un’ampia analisi della situazione:
D. Non le sembra che il momento in cui far scoppiare la rivolta sia stato scelto con cura, alla vigilia delle Olimpiadi?
R. «Ci sono due elementi importanti di cui tenere conto. Il primo è che in questi giorni si conclude a Pechino l’Assemblea nazionale del popolo. E dunque la rivolta è pensata per dare uno schiaffo al governo cinese. Il secondo elemento è rappresentato dalle Olimpiadi: i tibetani sperano che, essendo la Cina sotto i riflettori, la repressione non sia dura come in passato. Le rivolte in Tibet non sono una novità: ci sono stati massacri nel 1950, nel 1959 e nel 1989. Ora, siccome il governo di Pechino ci tiene a presentare la Cina come un grande Paese moderno, si spera che la risposta alla rivolta sia più tranquilla che in passato. Ma nei rivoltosi c’è anche un’altra frustrazione legata alle Olimpiadi…».
D. Quale?
R. «La Cina ha già preparato cerimonie e parate per far vedere che nel Paese coesistono pacificamente varie etnie e minoranze. Nella cerimonia di apertura faranno sfilare dei tibetani, nel villaggio olimpico hanno ricostruito un villaggio tibetano in plastica e una specie di “zoo” delle minoranze etniche. Un’operazione di facciata. I tibetani temono che passi un messaggio del tutto falsato della situazione, mentre loro soffrono un genocidio culturale e religioso. Per questo vogliono pubblicizzare le loro ragioni e cercare di manifestare durante i giochi».
D. Il Dalai Lama però non sembra condividere la rivolta…
R. «Il Dalai Lama non controlla più la popolazione tibetana. I rivoltosi contestano la linea del dialogo portata avanti da lui, vogliono arrivare allo scontro, sono disperati. Le rivolte di questi giorni sono un atto di pura disperazione da parte di molti giovani che in questi anni si rendono conto di non aver ottenuto nulla. Il Dalai Lama è stretto tra i suoi irrequieti giovani e il muro dell’intransigenza cinese».
D. Non crede che la rivolta possa avere un effetto controproducente e bloccare il processo di democratizzazione del regime cinese?
R. «La Cina teme che se fa qualche concessione al Tibet, poi si troverà costretta a farlo con le minoranze di molte altre regioni. Il dialogo è visto dunque come un elemento di debolezza. Pechino è in una situazione difficile. Ma la repressione non risolve i problemi, li rimanda soltanto».
Da ultimo, ha espresso una proposta per le Olimpiadi:
D. Il Dalai Lama è contrario al boicottaggio delle Olimpiadi. Lei come la pensa?
R. «Sono contrario perché boicottare i giochi può essere un modo per lavarsene le mani. Meglio esserci e porre il problema. Ad esempio, mi piacerebbe che tutti coloro che andranno alle Olimpiadi portassero una maglietta con la scritta “Tibet libero”. Se ci fosse unità tra i simpatizzanti per i tibetani e i simpatizzanti per i cattolici, credo che il governo si preoccuperebbe».
Così inoltre si esprime nel suo blog Andea Tornielli:
«Purtroppo, nelle ultime ore, non è stata la lucidità e la chiarezza di questo appello [riguardo alla situazione in Iraq] ad avere spazio sui media, ma il fatto che domenica il Papa non abbia accennato alla situazione del Tibet. Trovo strano che chi accusa la Chiesa di ingerenza e critica ogni appello papale, poi faccia le pulci ai messaggi del Pontefice se non contengono ciò che qualcuno si aspettava. La Santa Sede domenica scorsa non aveva informazioni dirette e precise su ciò che stava avvenendo in Tibet e sono convinto che un accenno Benedetto XVI lo farà nei prossimi giorni, magari nel messaggio pasquale Urbi et Orbi.»
Attenzione a tutti i fattori in campo, intelligenza, sollecitudine, equilibrio, saggezza: questo e non altro esprime la Chiesa verso la grave situazione del Tibet. Per questo non possiamo che riconoscerci in quanto, tempo fa, scriveva il Card. Biffi, che giunge a parlare di “stretta liberticida”:
«Il fatto cristiano appare talvolta stretto da una morsa culturale che oggettivamente, nella sua logica interna, mira alla estromissione di Cristo e della Chiesa dalla vita dell’uomo. Da un lato si muove al fatto cristiano i1 rimprovero della sua latitanza dal mondo e della sua non incisività nella effettiva situazione sociale; che importanza possono avere - si dice - per l’umanità e per le sue domande esistenziali le prospettive spiritualistiche, escatologiche, evasivamente consolatorie, indicateci dal Vangelo? Dall’altro lato si è sempre molto pronti ad accusare la Chiesa di prevaricazione e di indebite interferenze, quando fa sentire la sua parola - che ovviamente non è mai imposta a nessuno ed è sempre proposta a tutti coloro che la vogliono accogliere - sulle questioni dell’esistenza. Sembra che non ci sia scampo: o siamo rifiutati perché alienati e alienanti, o siamo condannati perché vogliamo interessarci di ciò che non ci compete».
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