CAMBOGIA, QUASI DUE MILIONI DI MORTI
Il processo agli uomini di Pol Pot 30 anni dopo
di Rodolfo Casadei
Quant’è strano un paese dove il primo processo contro un regime politico criminale che ha prodotto 1,6 milioni di morti si svolge trent’anni dopo che quel regime è caduto? E dove alla fine i processati saranno solo cinque? Domande troppo spesso evase, le rare volte che della Cambogia si parla sui giornali. Il paese asiatico che per tre anni e mezzo, fra il 1975 e il 1979, ha conosciuto l’incubo genocida del comunismo agrario di Pol Pot e del suo Angkar, il partito organizzazione segreta che spadroneggiava sulla vita e sulla morte degli allora 8 milioni di cambogiani, ha conosciuto uno strano destino mediatico. Il suo ruolo nella guerra del Vietnam venne alla ribalta solo nel 1973, quando già da tre anni il suo territorio era campo di battaglia fra americani e vietnamiti del nord e del sud. Dopo la presa del potere da parte dei khmer rossi (gli uomini di Pol Pot) nell’aprile 1975 la Cambogia ritorna nel dimenticatoio, con la rara eccezione degli articoli e dei libri del padre Piero Gheddo e di François Ponchaud che denunciano gli orrori compiuti dal nuovo regime, ma vengono silenziati dalle smentite della stampa progressista internazionale che li accusa di essere al servizio della propaganda americana contro le forze rivoluzionarie.
Quando nel 1979, al termine di una guerra di pochi mesi fra paesi comunisti, il Vietnam riesce a imporre un governo amico a Phnom Penh e a mettere in fuga i khmer rossi, la verità ha finalmente diritto di cittadinanza su tutti i media internazionali. Escono persino film che vincono premi Oscar come The Killing Fields, apparso in Italia col titolo Urla del silenzio. E il silenzio ridiscende per davvero: da allora della Cambogia non si scrive più se non per rievocare le atrocità dei khmer rossi e per aggiornare sulla loro paradossale vicenda: dopo le inevitabili uccisioni extragiudiziarie all’indomani della caduta del regime, il governo filovietnamita di Hun Sen non ha mai avviato procedure giudiziarie contro i responsabili grandi e piccoli della strage. Solo nel 1997 Onu e governo si accordano per la creazione di un tribunale misto, cambogiano e internazionale, per processare i responsabili apicali. Ma per farlo entrare in funzione ci vorranno altri dodici anni e alla fine saranno rinviate a giudizio soltanto 5 persone (anziché 9, come chiesto dalle Nazioni Unite) cominciando da Khang Khek Ieu, meglio noto come Duch, capo del tristemente famoso centro di tortura S-21, dove furono seviziati e uccisi senza processo 16 mila prigionieri (solo 7 ebbero salva la vita).
Se l’impunità sostanziale dei khmer rossi è uno scandalo sotto gli occhi di tutti, assolutamente poco noti sono i numerosi altri di cui Onu e governi stranieri sono consapevoli, ma che i media internazionali quasi tacciono. Dopo trent’anni di governi filovietnamiti, la Cambogia è uno dei paesi più corrotti e poveri dell’Asia e del mondo. Mentre i paesi vicini (Vietnam, Thailandia e Malaysia soprattutto) coniugano alti tassi di crescita economica con una forte flessione dell’incidenza della povertà, la Cambogia sotto perfusione di aiuti internazionali e col Pil statisticamente in crescita dal 2000, presenta ancora più di un terzo della popolazione sotto il livello della povertà assoluta, un tasso di mortalità infantile dell’80 per mille e la malnutrizione che colpisce il 37 per cento dei suoi bambini.
Il governo, ovviamente, dà la colpa di tutto alla pesante eredità degli anni di Pol Pot. In un ambito almeno la responsabilità del leader stragista è accertata: quello dell’educazione. Nei suoi tre anni e mezzo di durata il regime dei khmer rossi ha sterminato l’80 per cento degli insegnanti allora esistenti e distrutto il 90 per cento degli edifici scolastici. Per eliminare dalla società le “contaminazioni borghesi”, l’Angkar decise di eliminare i potenziali contaminatori. Le conseguenze a lungo termine si vedono oggi: il titolo di studio degli insegnanti attuali è, mediamente, quello della terza elementare, e la loro venalità è leggendaria. Ogni giorno gli studenti entrano in classe ficcando una piccola mancia nella mano del maestro. Che diventerà una cifra rispettabile al momento degli esami. È per questa ragione, e non per scarsa applicazione, che solo il 75 per cento dei bambini cambogiani va a scuola e che in media ciascuno di essi ci mette dieci anni a completare i sei anni delle elementari: i loro genitori sono troppo poveri per reggere il passo delle richieste pecuniarie.
RECORD MONDIALE DI ONG
Sarebbe ingiusto limitarsi a puntare il dito contro i docenti: il loro stipendio mensile ammonta a una cifra pari ad appena 40 dollari. Il governo è troppo povero per pagarli? Questo è vero solo fino a un certo punto: i donatori internazionali forniscono alla Cambogia dai 500 ai 1.000 milioni di dollari all’anno, una cifra pari quasi all’intero bilancio annuale dello Stato. Secondo studi finanziati dall’ambasciata degli Stati Uniti, i pubblici ufficiali dirottano nelle proprie tasche dai 300 ai 500 milioni di dollari all’anno del bilancio pubblico. Da quasi un decennio i donatori minacciano di sospendere gli aiuti se il governo non approverà una legge anticorruzione e hanno anche promosso una raccolta popolare che ha fatto arrivare al parlamento 1,1 milioni di firme.
Tutto inutile: la legge non si fa e nessuno ha il coraggio di sospendere gli aiuti (lo ha fatto una sola volta la Banca Mondiale, per pochi mesi) per non peggiorare le condizioni della popolazione, assistita da duemila organizzazioni non governative, probabilmente il record mondiale pro capite di Ong. In compenso, la nomenklatura del partito al governo (il Ppc, postcomunisti legati al regime vietnamita) e gli imprenditori ad essa collegati si arricchiscono con speculazioni edilizie impadronendosi dei terreni migliori dopo averne cacciato, con l’aiuto della polizia, i poveri diavoli che li occupavano. Le autorità locali forniscono loro falsi titoli di proprietà a sostegno delle loro pretese. Su tremila ricorsi contro le espulsioni dalle terre, solo 50 sono stati accolti dalla National Land Authority. La corruzione investe anche il tribunale che giudica i khmer rossi: gli impiegati della struttura dichiarano di dover devolvere dal 20 al 30 per cento del loro stipendio ai loro superiori.
Fonte: 16 aprile 2009
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