L'OSSESSIONE PER L'UGUAGLIANZA LIVELLA TUTTI NELLA MISERIA
Ridurre le disuguaglianze economiche non riduce la povertà, bensì riduce le risorse utilizzabili in una società... rendendo tutti più poveri (e meno liberi)
di Alessandra Nucci
A un certo punto della storia recente, all'incirca a partire dalla caduta del muro di Berlino, il concetto di giustizia in Occidente si è trasformato da "a ciascuno il suo", basato sul rispetto della proprietà privata e del merito, ad "a ciascuno secondo il bisogno", che suona cristiano ma in realtà era lo slogan di Lenin e di cristiano ha solo, appunto, il suono. Cristo disse quasi esattamente l'opposto di Lenin, quando concluse la parabola dei talenti con "a chiunque ha sarà dato, e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha" (Mt 25,29), ma tant'è. Da diverso tempo i politici, le Ong e i guru del pensiero unico politicamente corretto, nonché ormai anche tanti della sponda opposta, di pensiero conservatore o libertario, dichiarano di impegnarsi non per combattere la povertà ma per ridurre le diseguaglianze, come se i poveri fossero poveri semplicemente perché i ricchi sono ricchi.
In realtà c'è ben poca correlazione fra i tassi di povertà e la diseguaglianza. Nella pratica dei fatti si è visto che ridurre le disuguaglianze economiche non equivale a ridurre la povertà. Anzi. Dal 2008 la recessione negli Usa e nel mondo ha ridotto le disuguaglianze, riducendo la ricchezza in mano ai ricchi ma non certo migliorando le condizioni dei poveri. La perdita di potere d'acquisto da parte dei benestanti non migliora ipso facto le condizioni dei poveri, semplicemente drena le risorse utilizzabili in una società.
La superstar della pubblicistica in tema di diseguaglianze è il francese François Piketty, il cui "Capital in the Twenty First Century" (2014) è il bestseller del settore. Peccato però che non si sia molto diffusa la notizia che il tema centrale della sua opera, l'affermazione secondo cui le diseguaglianze patrimoniali starebbero tornando a livelli di prima della prima Guerra mondiale, risulta minato da formule errate ed errori di trascrizione dalle fonti originali. Non lo dico io ma il Financial Times, secondo cui alcuni dati di Piketty risultano scelti arbitrariamente o costruiti senza una fonte originale al fine di far tornare il risultato voluto, mentre una volta ripuliti i dati e semplificati, i numeri europei dopo il 1970 non dimostrano alcuna tendenza verso l'incremento della disuguaglianza patrimoniale.
LE SBAGLIATE IDEE DI MARX
Il fatto però è che è comunque sbagliato utilizzare l'uguaglianza come misura del benessere economico. Infatti se da una parte non esiste un travaso automatico dalle tasche dei poveri a quelle dei ricchi, dall'altra le opportunità dei cittadini sono collegate fra loro ed è il lavoratore a rimetterci se un imprenditore manca dei mezzi per pagare gli stipendi, o se non investe nelle start-up, oppure se non trova compratori per le merci offerte. Se al privato che produce si sostituisce lo Stato con le sue burocrazie, i mezzi li preleverà dalle medesime forze produttive, ma aggiungendoci i propri costi e depurandoli del necessario per pagare stipendi e costi vari.
L'idea marxiana che i profitti di uno comportino necessariamente delle perdite da parte di un altro corrisponde a una visione ottocentesca dell'economia a somma zero, radicata nella società agraria pre-industriale. Di conseguenza la richiesta politica è sempre quella di interventi per aumentare le tasse sui ricchi (la famigerata nebulosa del "1 %"), al fine di spendere di più sulla scuola, dare più poteri negoziali ai lavoratori ed essere meno tolleranti delle fusioni fra multinazionali. Ma l'economia non è di dimensioni fisse, in cui l'unica variabile è la distribuzione. Grazie alla creatività dell'essere umano, l'intera torta può crescere, mettendo a disposizione di tutti una quantità maggiore di risorse… a patto di lasciare un'effettiva libertà d'impresa, il sistema economico giudicato migliore nell'enciclica sociale Centesimus Annus.
Concentrarsi sulle diseguaglianze anziché sulla povertà, insistendo, come fa ogni anno il conglomerato di Ong denominato Oxfam, che eliminare le disuguaglianze è condizione imprescindibile per agire sulla povertà, attribuisce la responsabilità di ridurle a un'autorità centrale, lo Stato, coltivando quindi nella società l'abitudine all'obbedienza passiva, assieme al sentimento massimamente divisivo dell'invidia (S. Gregg, L'invidia in un'era di disuguaglianza, Acton Institute 2014), oscurando così, come notava l'economista cattolico Michael Novak, l'importanza delle scelte effettuate dai poveri stessi, quali principalmente: la scelta di seguire e portare a termine un corso di studi, la scelta di mantenere rapporti familiari stabili, la scelta di lavorare stabilmente evitando di darsi a "consolazioni" che portano a dipendenze. La stessa lezione si ricava da uno studio condotto nel 2018 nel Regno Unito (J. Cribb, A. Hood, R. Joyce, A. Norris Keiller, Living standards, poverty and inequality, IFS, July 2017) che certifica che nelle regioni britanniche più povere si sono constatate disuguaglianze ridotte, mentre nelle regioni dove i poveri stanno meglio ci sono anche più diseguaglianze.
LA FISSAZIONE PER LE DISUGUAGLIANZE
La fissazione per le disuguaglianze unita al divieto politicamente corretto di elogiare o diffondere la cultura occidentale, ovvero il capitalismo di stampo occidentale, che è quello che di fatto ha sollevato interi Paesi dalla povertà e continua a farlo, porta anche alla moderna ipocrisia dello sfruttamento dell'Africa mascherato da slanci altruistici. Cantanti, celebrità, Ong ed entità varie hanno fatto dell'Africa un business su cui incanalare l'indignazione del mondo occidentale, raccogliendo montagne di soldi di cui non è quasi mai certa l'effettiva destinazione. Con molte eccellenti eccezioni, vi è in Occidente l'abitudine diffusa di inondare l'Africa non tanto di soldi quanto del travaso del nostro superfluo, fra cui talvolta anche prodotti scaduti. Questo ha anche l'effetto negativo di ingessare ogni possibilità di intraprendere attività locali che diano un lucro certo: contro il prodotto gratuito, infatti, si lamentano gli economisti africani, quale concorrenza è possibile?
Negli ultimi 50 anni infatti, in omaggio al principio che la soluzione di tutto sta in una sapiente ridistribuzione delle "risorse", circa mille miliardi di euro sono stati trasferiti dai Paesi ricchi all'Africa sotto forma di aiuti allo sviluppo. Questa alluvione di denaro ha migliorato la vita degli africani? No, sostengono in molti. Lo scrive ad esempio Dambisa Moyo, la quale nel libro "Dead Aid" ("Assistenza morta", un gioco di parole fra dead end – strada senza uscita – e Live Aid, il nome di una grossa iniziativa benefica pro-Africa) fa un confronto fra i Paesi africani che hanno rifiutato gli aiuti dei Paesi ricchi, e hanno prosperato, con altri che sono diventati dipendenti dagli aiuti e sono rimasti intrappolati nel circolo vizioso del debito, della corruzione, della distorsione del mercato e di un'ulteriore povertà e ulteriore bisogno di aiuto.
Che la povertà non sia un male incurabile lo dimostrano gli esempi della Corea del Sud, di Taiwan, di Singapore, di Hong Kong, il cammino impetuoso intrapreso dall'India e, in Europa, la trasformazione dell'Irlanda e più recentemente della Polonia. Diverso è il discorso del capitalismo di Stato della Cina, rigidamente controllato dal Partito unico, comunista: dovremmo poter dare per scontato che assicuri poche disuguaglianze (ma è così se includiamo chi non ha la tessera del PCC?), ma ciò avviene al costo sicuro dei terribili Laogai e di pratiche coercitive disumane di cui abbiamo poche notizie.
COSA SONO I POVERI NEGLI USA?
Si impone infine uno sguardo alla società capitalistica per eccellenza: gli Stati Uniti d'America. Nel 2018 lo speciale Rapporteur dell'Onu sull'estrema povertà e i diritti umani scrisse che negli Stati Uniti "vivono circa 40 milioni di poveri, 18,5 milioni in estrema povertà e 5,3 milioni in condizioni di povertà assoluta da terzo mondo". Questo tipo di accusa è corroborata dalle statistiche del US Census, l'Ufficio del censimento degli stessi Stati Uniti, le cui soglie per applicare la definizione di povero sono molto più alte di altri paesi del mondo. Ma come si spiega che allo stesso tempo i dati raccolti per l'Ufficio Statistica del Bureau of Labor indicano che in media le famiglie povere spendono $2,40 per ogni dollaro di reddito denunciato, ovvero spendono più del doppio di quanto entri loro in tasca. Com'è possibile? È possibile perché per la classifica della povertà non si tiene conto di nient'altro che del reddito corrente in denaro. In altre parole uno può avere i beni mobiliari o immobiliari che vuole, e beneficiare dei corposi sussidi erogati dallo Stato a chi è in condizioni di indigenza (il welfare negli Usa ammonta a 1,1 mila miliardi di dollari all'anno), e ciononostante essere nel novero dei poveri.
Cosa significa dunque essere poveri negli Stati Uniti? Per il 2019 la soglia della povertà per una famiglia di 4 persone è stato stabilito in un reddito lordo di 25.750 dollari, circa 23.200 euro (per individuo singolo la soglia scende a 12.140 dollari ovvero circa 11mila euro; per ogni persona in più si aggiungono 4430 dollari [4026 euro] arrivando a considerare povera ad esempio a 43,430 dollari [39.500 euro] una famiglia di otto persone. Per chi vive alle Hawaii o in Alaska dove il costo della vita è più alto anche le soglie di povertà sono molto più alte. Questo dato numerico però, come dicevamo, non tiene alcun conto delle entrate percepite in forma non-monetaria, come le case popolari, la sanità gratuita Medicaid o le sostanziose tessere per alimenti che possono arrivare fino a 600 euro pro-capite. E soprattutto non viene conteggiato ai fini della definizione di "povero" il patrimonio posseduto, e dunque i risparmi e i beni immobiliari e mobiliari degli individui e delle famiglie. Ciò permette al numero dei "poveri" americani di fluttuare da un anno all'altro in base alla decisione in un determinato periodo di non fare una attività retribuita ma di vivere temporaneamente di risparmi, (cosa che negli Usa è più comune che da noi). Traducendo i numeri in immagini concrete, risulta dagli studi di vari think tank che in USA anche le famiglie considerate in condizioni di "estrema povertà" tipicamente possiedono un computer, un DVD e dei cellulari. I casi di fame, sfratto o taglio delle utenze per morosità sono rari. Se poi si sale dall'estrema povertà ai poveri «normali », per il 42% è proprietario della casa in cui vive, costituita in media da tre camere da letto, un bagno e mezzo, un garage e una veranda, per l'80 per cento essi hanno l'aria condizionata e la tv via cavo o satellite; i tre quarti possiedono un'automobile o un camioncino mentre il 31 per cento ne possiede più d'uno: circa la metà di loro ha un computer, uno su sette ne ha più d'uno, il 43% ha un collegamento Internet e il 40% ha uno o più televisori al plasma. Oltre la metà delle famiglie povere con bambini possiede un sistema di videogiochi come Xbox o PlayStation, e un quarto di esse ha un sistema digitale vcr o dvd.
Uno studio della Heritage Foundation osserva inoltre che gli americani poveri hanno case più spaziose del cittadino medio non-povero dell'Europa occidentale e che quanto al nutrimento, il consumo medio di proteine, vitamine e minerali è praticamente uguale per i bambini di famiglie povere come di famiglie del ceto medio. Secondo, anzi, i dati del ministero dell'agricoltura, la maggior parte dei bambini di famiglie povere risulta iper-nutrita e in prospettiva diventa mediamente più alta e più robusta dei soldati che sbarcarono in Normandia durante la seconda guerra mondiale: questo perché essi consumano in media il 100% di proteine in più rispetto al livello consigliato.
Titolo originale: L'ossessione per l'uguaglianza che livella tutti nella miseria
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 16-18 novembre 2019
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