OLIMPIADI E ANTIDOPING: LA SOCIETA' RELATIVISTA HA BISOGNO DELLE SUE FOGLIE DI FICO, COME LA PROSTITUTA CHE SI VANTA DI NON AVER MAI RUBATO
Veramente penosa la conferenza stampa con piantino del marciatore italiano Alex Schwazer: ormai neanche le mascalzonate si fanno più con dignità
di Paolo Deotto
Non sono un grande appassionato di sport, ma in questi giorni è stato impossibile non seguire le Olimpiadi, perché la radio (sono un felice non-possessore di televisione) ne trasmette di continuo le novità, e la stampa non è da meno.
Diverse cose mi hanno stupito, tra cui la strana propensione ai comportamenti isterici: si piange. Piangono tutti, vincitori e sconfitti. Se ottieni la medaglia, piangi. Se perdi, piangi. Se ritieni di aver subito un'ingiustizia dai giudici di gara, piangi. Sembrano le olimpiadi della Fornero, ma non c'è da stupirsi, perché la società smarrita si affida sempre di meno al ragionamento e tantomeno tiene in conto quei comportamenti che appaiono "datati" e forse troppo virili, quali l'autocontrollo e il senso della dignità.
Ma lasciamo perdere le lacrime; vorrei fare con voi una riflessione su una cosa più seria.
Il marciatore italiano Alex Schwazer risulta positivo al controllo antidoping. Fin qui, nulla di particolarmente interessante. L'uso di sostanze dannose per esaltare le prestazioni fisiche non è certo una novità, ed è pratica fin troppo diffusa e probabilmente inevitabile, perché la corruzione dello sport, divenuto una macchina per far soldi, è una delle mille espressioni della società relativista, marcia e corrotta. Tutto essendo lecito, perché la morale non esiste più, e tutto essendo legato all'immediata materialità (soldi, tanti e al più presto...), perché poi sportivi, allenatori, medici, tutti immersi in una realtà malata, dovrebbero essere limpidi e puri come angioletti?
Ma la società relativista ha bisogno delle sue foglie di fico, come la prostituta che si vanta di non aver mai rubato una lira in vita sua, costruendosi così la sua nicchia di moralità. Chi non ricorda, in apertura del film di Carlo Lizzani "Banditi a Milano" (che narrava la tragica epopea della Banda Cavallero), l'intervista all'ex rapinatore Gino lo Zoppo, che faceva notare che "ai suoi tempi" si rapinava, non si uccideva. "Noi eravamo umani", diceva Gino lo Zoppo, e anche lui, in fondo, poteva così un po' autoassolversi dalla sua attività di rapinatore...
Lo sport non vive sulla Luna, ma nella società relativista, e una delle sue foglie di fico principali è l'attività antidoping. Attività utilissima, beninteso, perché troppi sportivi si distruggono il fisico con sostanze chimiche nocive; ma ciò che mi lascia perplesso è lo stupore ufficiale, lo sdegno, la condanna, senza che mai sorga la domanda sul perché il doping sia ormai così diffuso.
Nel caso di Schwazer c'è poi un di più, un cerimoniale tipico di una società isterica e cretinamente buonista.
Questo marciatore è stato beccato, quindi anzitutto non parliamo di "pentito". Una volta smascherato, ha confessato. Il pentimento serio è ben altra cosa, né sappiamo se lui, in cuor suo, l'abbia realmente fatto, né ci interessa. Quello che di sicuro non doveva fare è quella strana liturgia di autoflagellazione, con annesso l'inevitabile pianto. Ormai scoperto, rovinato come sportivo, sospeso dall'Arma dei Carabinieri, aveva una sola via da seguire: il silenzio e l'anonimato.
Ma che bisogno c'era dell'esibizione lacrimevole, che subito ha fatto scattare lo stupido buonismo di fronte al povero giovine in lacrime? Perché ormai neanche le mascalzonate si fanno con un po' di serietà?
Schwazer ha fatto una mascalzonata, doppia, perché è anche un Carabiniere, e chi veste una divisa, una divisa onorata come quella dell'Arma, ha sulle spalle una responsabilità ben più grande del comune cittadino. Ha voluto peggiorare le cose con la sua conferenza stampa e relativi singhiozzi. No, signor Schwazer, un uomo non piange, e un carabiniere men che meno. È un ragionamento "all'antica"? Può darsi. Ma il "moderno" modo di ragionare (o sragionare) è quello che ci ha immerso nella fogna in cui viviamo.
Chi fa il peccato, faccia la penitenza, ma non pretenda in più di aver la platea per mostrare quanto è triste e infelice.
Da tutta la vicenda ne vien fuori una ben strana morale. Fai le mascalzonate finché non ti scoprono, e se ti scoprono esibisci il tuo dolore, susciterai tanta commozione. E se non ti avessero scoperto? Quanto andavi avanti?
Del resto, la Società che condanna Schwazer è ugualmente ipocrita, perché distrugge la moralità e poi pretende di condannare chi è figlio di questa generale corruzione. Davvero bello ed edificante.
Come non pensare al povero Marco Pantani, abbandonato da tutti, dopo essere stato usato e spremuto da mille falsi amici, e morto in tragica solitudine in un albergo? A Pantani mancò una mano realmente amica, un vero Amore che lo tirasse fuori dal tunnel in cui si era infilato. Ma Pantani non cercò la pubblicità facile del pentito.
Cari amici, lo sport è morto, non da oggi, al di là delle celebrazioni olimpioniche, dei fiumi di retorica, dell'insistente "spirito delle Olimpiadi". Quanto mette in tasca ogni atleta che conquista una medaglia? Tanti soldi, troppi soldi. Poi ci sono le sponsorizzazioni, le pubblicità, e via incassando. Bisogna essere sempre al massimo, tutto corre sul filo dell'isteria dell'affermazione ad ogni costo, tutto si traduce in danaro.
Cosa può venir fuori da un tale disastro morale?
Chiudo con un promemoria. Nel 2007 l'Inter perse la causa per diffamazione che aveva intentato contro Ferruccio Mazzola, calciatore, fratello del più famoso Sandro. Ferruccio Mazzola aveva pubblicato un libro in cui narrava l'abituale pratica di somministrare "pastiglie" ai giocatori, per aumentarne le prestazioni. Si parla del periodo in cui all'Inter dominava il famoso Helenio Herrera. Siamo ai primi anni 60. Insomma, l'uso di sostanze illecite è roba vecchia. E quanti ex sportivi sono morti ancor giovani, in genere di forme tumorali? Il primo caso clamoroso fu quello di Armando Picchi, grande giocatore proprio in quell'Inter di Helenio Herrera, che morì stroncato da un tumore a soli trentasei anni; dopo di lui, tanti altri.
Il doping è una tragedia che va fermata. Ma può una Società intrisa di morte insegnare ai suoi sportivi ad amare la Vita più del danaro?
Fonte: Corrispondenza Romana, 11/08/2012
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