NOI MEDICI SIAMO AMATI PERCHÉ RISPETTIAMO LA VITA
Il giuramento di Ippocrate e le vicende di una professione
di Carlo Bellieni
È interessante parlare con Robert De Jong, neurochirurgo olandese, come mi è accaduto di fare ieri al termine della sua lezione all’assemblea della Pontificia Accademia pro Vita nella quale con candore ha smontato punto per punto il famigerato «Protocollo di Groningen» che teorizza e giustifica l’eutanasia pediatrica.
De Jong aveva già pubblicato le sue critiche in un’importante rivista medica, spiegando – da esperto qual è – come non sia vero che i bambini con spina bifida avvertano dolori insopportabili, che siano destinati a un’esistenza senza prospettive, o che sperimentino una scarsa qualità della vita.
Tutto falso.
Eppure è a questi malati che il Protocollo primariamente si applica. De Jong non è cristiano: è semplicemente realista. Dice : «Mi batto perché rispetto la vita. E la verità». E lui i bimbi con spina bifida li conosce bene, perché li cura. Ciò in cui crede lo specialista olandese è proprio quello che ognuno vorrebbe da noi medici. La gente si attende, ad esempio, che non ci facciamo prendere dall’idea postmoderna per la quale, se si profilano condizioni di salute non perfette, è lecito proporre un’uscita d’emergenza dalla vita; vuole che profondiamo uno sforzo continuo per essere accanto a ciascuno, per salvare vite, per trovare nuovi rimedi; non vuole l’accanimento: teme piuttosto l’abbandono.
Sembra invece che la classe medica si stia specializzando in discorsi vani su chi far vivere e chi lasciar morire, oppure sull’epoca in cui si può abortire. Come ricordava di recente il famoso pediatra Avroy Fanaroff, si tratta di una visione 'necrologica' delle problematiche etiche. Lo diceva con riferimento alle riflessioni che di solito si fanno sull’etica in neonatologia, nelle quali parlare di «decisione etica» equivale a intendere automaticamente «sospensione delle cure». Ma non è difficile cogliere il peso di una visione tanto ristretta dell’etica medica in tutti i dibattiti pubblici, dentro e fuori gli ambienti clinici.
Tutto questo alla gente non piace. Eppure sembra quasi essercisi assuefatta, forse perché sui giornali viene fatto risuonare sempre lo spauracchio dell’accanimento terapeutico e si valorizzano poco gli sforzi di chi fa ricerca seriamente, delle famiglie che curano i malati terminali, della professione infermieristica.
Ma un simile riduzionismo etico non piace neanche a noi medici, che vorremmo far bene il nostro dovere ed essere aiutati a curare. È un problema di portata tale che recentemente il «Journal of the American Medical Association» gli ha dedicato il proprio editoriale con un titolo eloquente: «Perché i medici sono infelici?». Di fronte a deragliamenti quali quelli cui abbiamo assistito nei giorni scorsi non si tratta di invocare obiettivi utopistici ma semplicemente di ricordarci dell’antico giuramento di Ippocrate, centrato sul dovere del medico di curare, sulla sua dignità e su quella del malato. Troppa burocrazia oggi ci impedisce di riappropriarcene dentro ospedali diventati più simili ad aziende, con malati trasformati in 'utenza' e medici divenuti 'operatori sanitari'. La professione rischia di soccombere nel confronto con mansionari e decreti, budget e orari. E finisce col parlare troppo di come morire, o come non far nascere.
Allora è forse giunto il momento perché noi medici reclamiamo che sui giornali si smetta di parlare solo di una medicina «restitutiva» (che vede cioè la mancata guarigione completa come un fallimento) e che si riporti in evidenza quella «abilitativa», il cui scopo è dare al paziente – durante il percorso terapeutico e anche quando se ne vede l’incurabilità – la possibilità di essere se stesso, di non sentirsi ridotto da 'persona' a 'malattia'. È una prospettiva culturale che ancora non si scorge. Ma è questo che vogliamo da chi guida le scelte dei medici in Italia.
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