A CANCUN E' STATA DECISA LA COSTITUZIONE DELL'UTOPISTICO ''GREEN CLIMATE FUND''
Litigando sul contributo da dare, ecco le solite roboanti affermazioni di principio che mancano di un progetto per realizzarle
di Fabio Spina
Il riassunto di Cancun è semplice: il “sistema di relazioni internazionali” legate al clima è salvo (compresi i viaggi ad esso connessi), ma se il futuro del Pianeta dipendesse dalle scelte prodotte sarebbe spacciato. Fortuna vuole che, da questo punto di vista, persone e scienziati sono sempre più convinti che non sia l’anidride carbonica prodotta dall’uomo l’unico responsabile del riscaldamento globale.
Non si può però non osservare che nel caso di Cancun i diplomatici sono stati bravi comunicatori. Visto come era andata Copenaghen (detta COP15), nata con tante aspettative e poi finita con solo alcune fumose promesse, quest’anno hanno deciso di cambiare tutto. La conferenza di Cancun sul clima, detta COP16, è nata sotto i peggiori e catastrofici auspici finendo sempre con le stesse fumose promesse, ma alla gente comune in questo modo è sembrato un successo, o almeno un mezzo successo. I big della politica accorsi in massa al COP15 si sono tenuti alla larga da Cancun, lasciando che altri fossero i responsabili di eventuali impegni e/o fallimenti: nel caso servisse sarebbe sempre possibile smentirli.
Non abbiamo lo spazio per entrare nei dettagli, ma per comprendere come è andata pensate ad un numeroso gruppo di amici (decine di migliaia) che s’impegna da decenni in una colletta per salvare il mondo: ogni anno si riuniscono alcune settimane nelle località più belle del globo per decidere le quote con le quali ognuno deve contribuire. Litigando sul contributo da dare, ogni volta si finisce in extremis, di solito sforando sulla chiusura della conferenza, in roboanti affermazioni di principio che, mancando di un progetto per realizzarle, divengono solo slogan ad uso di numerosi quotidiani, TV, ecologisti e politici. Ogni anno tutto questo è fatto recepire all’opinione pubblica come un passo avanti per il bene comune e quindi è necessario continuare nei successivi passi, e successive trattative.
L’anno scorso il COP15 era finito ingloriosamente con la scia del climategate, a seguito della pubblicazione delle mail tra alcuni scienziati IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, l'organismo ONU che si occupa di cambiamenti climatici) anche sul sito di Wikileaks, e gli errori del rapporto IPCC. Quest’anno all’insuccesso della Conferenza si dice che abbia contribuito la crisi economica globale.
La realtà è che il problema riscaldamento globale è nato in un mondo bipolare per creare un mercato interno ai Paesi occidentali ricchi (vedi Protocollo di Kyoto); nel mondo attuale questi non rappresentano più la parte ricca e da sola determinante, gli equilibri geopolitici stanno cambiando ed eventuali impegni divengono “camicie di forza” che nessuno desidera indossare. Sicché, ad esempio, nel “Green climate fund” il problema da superare, oltre a chi mette i soldi, è stato chi lo gestisce. Alla fine per trovare l’accordo la gestione dall’ONU è passata alla Banca Mondiale.
A Cancun, si scrive sui quotidiani, è stata decisa la costituzione del “Green climate fund” attraverso cui i paesi ricchi, dal 2020, aiuteranno quelli poveri nella lotta al cambiamento climatico con 100 miliardi di dollari l'anno (30 nel periodo 2010-2012), il proseguimento del Protocollo di Kyoto con tagli delle emissioni globali dal 25% al 40% entro il 2020, l'arresto della crescita della temperatura globale terrestre a 2°C (rispetto a quando? Con che errore?). Se però passiamo alla realtà occorrerebbe chiedersi da chi e come sarà finanziato il “Green climate fund”. Quanto dovrà pagare ogni Paese e quali le sanzioni nel caso non lo faccia.
Lo stesso vale per le riduzioni di emissioni nel caso del prolungamento del Protocollo di Kyoto. Si parla solo di riduzioni volontarie, intanto che accadrà al mercato dei crediti dopo il 2012? Durante il COP15 grandi nazioni come Giappone, Russia, Canada e Nuova Zelanda hanno già dichiarato che non parteciperanno ad un semplice “prolungamento” del protocollo attuale, mentre gli USA hanno già annunciato la fine del “Chicago Climate Exchange”.
A queste problematiche si aggiungono i dubbi sulla convenienza della green-economy in tempo di crisi: ad esempio la Francia sembra stia per togliere i finanziamenti al fotovoltaico. Il Ministro dell’Ecologia ha affermato che l’obiettivo di capacità fotovoltaica è stato raggiunto “ma non sono state soddisfatte le attese in materia ambientale e di creazione di nuovi posti di lavoro”, “con il sistema attuale i consumatori francesi sovvenzionano l’impiego e l’indistria in Cina” (ove la produzione di un pannello richiede un’emissione di CO2 di 1,8 volte rispetto ad uno francese).
Insomma quelle di oggi sembrano le stesse grida di successo che seguirono gran parte delle riunioni precedenti, ad esempio il G8 dell’Aquila del 2008, dopo il quale si disse che il Pianeta si salvava tagliando la CO2. I grandi della Terra in quella occasione, Paesi industrializzati in testa, decisero di ridurre le emissioni di gas serra dell'80% al 2050 (del 50% le altre nazioni). Con questi presupposti, rafforzati anche da un'ulteriore intesa ottenuta in ambito Mef (Major economies forum), gettarono le basi per raggiungere un accordo globale (quantomeno ampio e condiviso) attraverso i negoziati che condussero alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Copenaghen. Poi si sa come è andata.
La cosa però che dovrebbe indignare e far riflettere è che alla conferenza FAO di Roma il 3 giugno 2008, all’apertura il Direttore Generale della FAO, Jacques Diouf , facendo un quadro dell’economia globale attuale dichiarò: ”Come possiamo spiegare alla gente di buon senso ed in buona fede che non è stato possibile trovare 30 miliardi di dollari all’anno per permettere a 862 milioni di affamati di godere del diritto umano più basilare: il diritto al cibo e quindi il diritto alla vita?”.
Come tutti sanno per salvare 862 milioni di persone non si sono trovati, mentre per salvare “la faccia” a Cancun sembra di sì.
Fonte: La Bussola Quotidiana, 14-12-2010
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