RADUNO DI ASSISI 2011: EVITATI GLI ASPETTI SINCRETISTICI O RELATIVISTI DELLE PRECEDENTI EDIZIONI (E PER QUESTO I MASS-MEDIA HANNO DEDICATO POCO SPAZIO ALL'EVENTO)
Peccato che l'invito sia stato rivolto anche ad atei ed agnostici scelti tra i più lontani dalla metafisica cristiana... ma nessun dialogo è possibile con chi nega in radice la legge naturale
di Roberto de Mattei
Come firmatario di un appello a Sua Santità Benedetto XVI affinché recedesse dalla decisione di celebrare il venticinquennale del primo raduno interreligioso di Assisi (http://www.corrispondenzaromana.it/2011/01/12/chiesa-cattolica-appello-di-cattolici-al-papa contro-un-assisi-2/), a riunione avvenuta, non posso non esprimere alcune riflessioni su di essa.
Quale che sia il giudizio che si voglia dare sul terzo incontro di Assisi, va sottolineato che esso ha certamente rappresentato una oggettiva correzione di rotta rispetto alle due riunioni precedenti, soprattutto riguardo al pericolo di sincretismo. Va letto, a questo proposito, con attenzione, il discorso del cardinale Raymond Leo Burke al Convegno Pellegrini della Verità verso Assisi, svoltosi lo scorso 1 ottobre a Roma (http://blog.messainlatino.it/2011/10/assisi-2011-istruzioni-per-luso.html), che offre una attendibile chiave di interpretazione dell'evento.
Nella Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo che si è svolta il 27 ottobre, non vi è stato, almeno apparentemente, alcun momento di preghiera comune o parallela da parte dei presenti, come invece era accaduto nel 1986 con i vari gruppi religiosi riuniti in vari luoghi della città di san Francesco. È noto del resto che l'allora cardinale Ratzinger evitò di partecipare all'incontro e la sua assenza fu interpretata come una presa di distanza dagli equivoci che l'iniziativa era destinata a produrre.
Benedetto XVI ha voluto dare al raduno del 27 ottobre un volto diverso dagli incontri precedenti: non tanto quello, ha spiegato il cardinale Burke, «di un incontro interreligioso quanto di un dialogo interculturale sui passi della razionalità, bene prezioso dell'uomo in quanto tale». Due testi ci aiutano a capire il pensiero di Benedetto XVI in materia di "dialogo": il primo è la lettera inviata al filosofo Marcello Pera, già presidente del Senato, in occasione dell'uscita del suo libro Perché dobbiamo dirci cristiani (Mondadori, Milano 2008), in cui Benedetto XVI scriveva che «un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari».
Il secondo documento è anch'esso una lettera, indirizzata il 4 marzo 2011 al pastore luterano tedesco Peter Beyerhaus, che gli aveva manifestato timore per la nuova convocazione della giornata di Assisi. Benedetto XVI gli scrive: «Comprendo molto bene la sua preoccupazione rispetto alla partecipazione all'incontro di Assisi. Però questa commemorazione doveva essere festeggiata in ogni modo e, dopo tutto, mi sembrava la cosa migliore andarvi personalmente, per poter provare in tal modo a determinare la direzione del tutto. Tuttavia farò di tutto affinché sia impossibile un'interpretazione sincretista o relativista dell'evento e affinché resti fermo che sempre crederò e confesserò ciò che avevo richiamato all'attenzione della Chiesa con la Dominus Iesus» (http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1349995).
L'interpretazione sincretistica o relativista dell'evento effettivamente non c'è stata, o è stata attenuata, e i mass-media hanno dedicato, anche per questo, ben poco spazio all'evento.
Un altro aspetto di Assisi 3 suscita però delle perplessità che non possono essere sottaciute. Il dialogo interculturale si può intrecciare con credenti di altre religioni non su base teologica, ma su quella razionale della legge naturale. La legge naturale non è altro che il Decalogo, compendio dei due precetti della carità, amore di Dio e amore del prossimo, espressi nelle due tavole consegnate a Mosé dal Signore stesso.
È possibile che, malgrado le false religioni che professano, vi siano credenti di altre religioni che cerchino di rispettare quella legge naturale che è universale e immutabile, perché comune ad ogni essere umano (cosa peraltro molto difficile senza l'aiuto della Grazia). La legge naturale può costituire un "ponte" per portare questi "infedeli" alla pienezza della verità, anche soprannaturale. Molto più problematico è invece il dialogo con coloro che non credono in nessuna religione, ovvero con gli atei convinti.
La legge naturale non consta infatti di sette comandamenti che regolano la vita tra gli uomini, ma di un insieme di dieci comandamenti, dei quali i primi tre impongono di rendere culto a Dio. La verità espressa dal Decalogo è che l'uomo deve amare Dio al di sopra di tutte le creature e amare queste secondo l'ordine da lui stabilito. L'ateo rifiuta questa verità ed è privo di quella possibilità di salvarsi che è offerta, sia pure in via eccezionale, ai credenti di altre religioni.
E se è possibile l'ignoranza incolpevole della vera religione cattolica, non è possibile l'ignoranza incolpevole del Decalogo, perché la sua legge è scritta «sulle tavole del cuore umano col dito stesso del Creatore» (Rm. 2, 14-15). Esiste certo la possibilità di una ricerca o "pellegrinaggio" verso la verità anche da parte dei non credenti. Ciò avviene quando il rispetto della seconda tavola della legge (l'amore del prossimo) spinge progressivamente a cercarne il fondamento nella prima tavola (l'amore di Dio).
È la posizione dei cosiddetti "atei devoti", come Marcello Pera e Giuliano Ferrara, i quali, come ha giustamente osservato Francesco Agnoli (Io cattolico pacelliano, dico al card. Ravasi che ad Assisi ha sbagliato atei, "Il Foglio", 29 ottobre 2011), «un bel po' di strada insieme ai credenti la hanno fatta e la fanno di continuo, con l'uso della ragione». Essi, oggi, nei confronti di alcuni precetti del decalogo si mostrano più fermi e osservanti di molti cattolici. Ma gli atei convocati ad Assisi non hanno nulla di "devoto": appartengono a quella categoria di non-credenti che ha in spregio non solo i primi tre comandamenti, ma tutta la tavola del Decalogo.
È una posizione che la filosofa e psicanalista Julia Kristeva ha ribadito sul "Corriere della Sera" – che ha ospitato, in extenso, il suo intervento ad Assisi (Un nuovo umanesimo in dieci principi, "Corriere della Sera", 28 ottobre 2011). A differenza di altri studiosi laici, che riscoprono il fondamento metafisico della legge naturale, la Kristeva ha rivendicato, una linea di pensiero che dal Rinascimento arriva all'Illuminismo di Diderot, Voltaire e Rousseau, compreso il marchese de Sade, Nietzsche e Sigmund Freud, ovvero quell'itinerario che, come hanno dimostrato insigni studiosi dell'ateismo da Cornelio Fabro (Introduzione all'ateismo moderno, Studium, Roma 1969) ad Augusto Del Noce (Il problema dell'ateismo, Il Mulino, Bologna 2010), porta proprio a quel nichilismo, che la psicanalista francese, senza negare la propria visione atea e permissiva della società, vorrebbe contrastare in nome di una collaborativa "complicità" tra umanesimo cristiano e umanesimo secolarizzato. L'esito di questa pacifica coesistenza tra il principio ateo di immanenza e un vago richiamo alla religiosità cristiana non può essere che il panteismo, caro a tutti i modernisti, antichi e contemporanei.
Il punto in cui Assisi 3 rischia di segnare un pericoloso passo avanti nella confusione che oggi attanaglia la Chiesa è proprio questo, enfatizzato da tutti i mass-media: l'estensione dell'invito, oltre che a esponenti delle religioni di tutto il mondo, anche ad atei ed agnostici, scelti tra i più lontani dalla metafisica cristiana. Ci chiediamo quale dialogo sia possibile con questi "non credenti" che negano in radice la legge naturale.
La distinzione tra atei "combattivi" e atei "collaborativi" rischia di ignorare la vis aggressiva insita nell'ateismo implicito, non espresso in maniera militante ma proprio per questo più pericoloso. Gli atei dell'UAAR hanno almeno qualcosa da insegnare ai cattolici: professano i loro errori con uno spirito di militanza a cui i cattolici hanno abdicato nel difendere le loro verità. Ciò accade, ad esempio, quando da parte cattolica si criticano le crociate, che non furono una deviazione della fede, ma imprese ufficialmente promosse dai Papi, esaltate dai santi, fondate sulla teologia e regolate, per secoli, dal diritto canonico.
Se allora la Chiesa sbagliò, non potrebbe sbagliare chi oggi predica il buonismo e l'arrendismo di fronte ai nemici, esterni e interni, che incalzano? E se la Chiesa, come sappiamo, non sbaglia nel suo insegnamento, quale deve essere la regola di fede ultima del cattolico in momenti di confusione come l'attuale? Sono domande che ogni semplice fedele ha il diritto di porre, rispettosamente, alle autorità supreme della Chiesa, all'indomani del 27 ottobre 2011.
Fonte: Corrispondenza Romana, 02/11/2011
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