ARMENIA, ECCO COME AVVENNE IL GENOCIDIO SCOMODO
Un secolo fa, il 24 aprile 1915, iniziava il massacro sistematico di un popolo cristiano che dava fastidio all'Impero ottomano
di Vincenzo Sansonetti
Antonio Gramsci meglio di Matteo Renzi? Parrebbe di sì, a giudicare dalla clamorosa assenza di qualunque esponente del governo italiano, neppure un sottosegretario!, all'inaugurazione della mostra Armenia, il popolo dell'Arca, aperta al Vittoriano di Roma fino al 3 maggio 2015; mostra sulla travagliata storia, la splendida cultura, la fede millenaria del popolo armeno, a cento anni esatti dal famigerato genocidio iniziato la notte tra il 23 e il 24 aprile 1915, con arresti e deportazioni di massa. Se Renzi e il Partito democratico erede oggi del Pci tacciono, non ebbe invece paura di parlare, a ridosso di quei tragici eventi, l'intellettuale sardo che fu tra i fondatori (pochi anni dopo) del Partito comunista. Tra le poche voci che si alzarono in Italia, con libertà e audacia, a denunciare l'entità della tragedia armena (un'altra fu quella di Filippo Meda, esponente di spicco del movimento cattolico tra XIX e XX secolo, sostenuto da Benedetto XV), Gramsci scrisse nel marzo 1916: «Sarebbe stato possibile costringere la Turchia, legata da tanti interessi a tutte le nazioni europee, a non straziare in tal modo chi non domandava altro, in fondo, che di essere lasciato in pace. Niente mai fu fatto, o almeno niente che desse risultati concreti». E lo stesso Gramsci così spiegava: «Perché un fatto ci interessi, ci commuova, diventi una parte della nostra vita interiore, è necessario che avvenga vicino a noi, presso genti di cui abbiamo sentito parlare e che sono perciò entro il cerchio della nostra umanità». Concludeva profeticamente: «È un gran torto non essere conosciuti. Vuol dire rimanere isolati, chiusi nel proprio dolore, senza possibilità di aiuti, di conforto. Per un popolo, per una razza, significa il lento dissolvimento, l'annientarsi progressivo di ogni vincolo internazionale, l'abbandono a se stessi, inermi e miseri di fronte a chi non ha altra ragione che la spada e la coscienza di obbedire a un obbligo religioso distruggendo gli infedeli».
DISTRUGGERE GLI INFEDELI
Chi non ha «altra ragione che la spada» e la coscienza di distruggere gli infedeli era ieri l'Impero ottomano, oggi lo è il cosiddetto Califfato islamico, se è vero che tra le vittime del cieco furore ideologico-religioso dell'Isis vi sono anche le minoranze cristiane armene in Siria, con chiese rase al suolo e migliaia di profughi in fuga. «Dopo un secolo continuiamo ad avvertire la stessa ostilità verso il nostro popolo, e ci facciamo i conti tutti i giorni», sostiene Baykar Sivazliyan, docente universitario a Milano e presidente dell'Unione degli Armeni d'Italia. «Il 24 aprile, e per tutto il 2015», afferma, «ricorderemo la diaspora moderna del nostro popolo, che ha pagato un prezzo altissimo (un milione e mezzo di vittime innocenti, per lo più nel silenzio della comunità internazionale), ma soprattutto cercheremo di vivere la memoria nel senso più alto, diffondendo la cultura armena per come essa ha saputo esprimersi nell'Italia e nel mondo». Il professor Sivazliyan ammette di riconoscere «pienamente quello che dal punto di vista culturale ha saputo rappresentare la Turchia»; a maggior ragione, a distanza di un secolo, si è «increduli di fronte alla barbarie che ha saputo esprimere». Come si è increduli di fronte al fatto che oggi la Turchia continua a non riconoscere o a minimizzare ciò che gli storici hanno acclarato e documentato da tempo, «un'ostinazione che la condanna a rimanere, nonostante i proclami e le apparenze, ancora molto lontana dall'Europa». Nessun rancore da parte degli Armeni, anzi una mano tesa. Conclude infatti il presidente dell'Unione degli Armeni d'Italia: «Da parte nostra non c'è nessuna turcofobia. Noi chiediamo solo che ci sia riconosciuto quello che la storia finora ci ha negato». Sono soltanto 21 i Paesi che hanno riconosciuto l'olocausto del popolo armeno. Tra questi, anche l'Italia. Mancano all'appello - fra i tanti - la Gran Bretagna, la Germania, la Spagna, purtroppo Israele, gli stessi Stati Uniti, dove è stata sì approvata una risoluzione del Congresso, ma il presidente Obama non l'ha ancora firmata. Colpa della Realpolitik, che induce a non irritare l'alleato turco, in uno scacchiere delicatissimo come il Medio Oriente? Intanto, in Turchia è reato anche solo nominare il genocidio armeno (è «vilipendio dell'identità nazionale»): si rischia una condanna fino a due anni di carcere.
LE MARCE DELLA MORTE
La parola genocidio indica un crimine di lesa umanità. A dire il vero, il termine fu coniato quasi 30 anni dopo il massacro degli Armeni, quando il giurista ebreo-polacco Raphael Lemkin così chiamò nel 1943 «una serie di atti effettuati con l'intento di distruggere, totalmente o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale». Ma i suoi studi, negli anni in cui Hitler organizzava sistematicamente l'annientamento del popolo ebraico, si basavano proprio sull'efferata eliminazione degli Armeni, e sono alla base della Convenzione dell'Onu per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio.
Quali sono le premesse storiche del massacro degli Armeni di cent'anni fa? Nel 1908 nell'Impero Ottomano si afferma il governo dei cosiddetti Giovani Turchi, formato da Talat Pascià, ministro dell'Interno, Djemal Pascià, ministro degli Esteri ed Enver Pascià, ministro della Guerra. La volontà di eliminare i sudditi armeni che vivono da secoli nell'impero è parte di un piano più ampio di ingegneria sociale (oggi si direbbe anche di «pulizia etnica») che i Giovani Turchi intendono realizzare per costruire un'identità nazionale turca la quale, proprio per affermarsi, deve eliminare come «estranee» le popolazioni non turche. I piani di sterminio sono anche funzionali a un disegno geopolitico teso a creare uno spazio pan-turco.
A fine marzo del 1915 i Giovani Turchi decidono di porre fine alla «questione armena», all'ombra della Grande Guerra. Viene così istituito un braccio militare esecutivo per l'eliminazione degli armeni: l'Organizzazione Speciale. Il genocidio ha inizio il 24 aprile 1915, quando a Istanbul viene arrestata l'intera intelligentsia armena, più di mille persone tra scrittori, docenti universitari, insegnanti, artisti e liberi professionisti. Nessuno di loro farà ritorno a casa. L'intera popolazione maschile armena viene chiamata alle armi, disarmata e sistematicamente eliminata. Segue quindi la deportazione, ad opera dell'Organizzazione Speciale, di tutti gli armeni, compresi vecchi e bambini, verso i deserti della Siria: sono le terribili «marce della morte». Caratterizzate da uccisioni di massa, mutilazioni, stupri, torture, conversioni coatte. Arrivati a destinazione, i sopravvissuti vengono uccisi. Almeno un milione e mezzo le vittime, mentre un altro mezzo milione di armeni è costretto alla diaspora in vari Paesi. Il 24 maggio 1915 Francia, Gran Bretagna e Russia sottoscrivono una dichiarazione congiunta che condanna i massacri degli Armeni in corso e accusa la Turchia di «crimine contro l'umanità e la civiltà». Oggi soprattutto la Francia sembra aver conservato la stessa sensibilità, al punto che nel Paese transalpino la negazione del genocidio armeno è ritenuto reato, alla pari della negazione del genocidio degli ebrei.
LE CROCI FIORITE SEGNO DI SPERANZA
Oggi l'Armenia, Repubblica indipendente da 23 anni, affrancata dal dominio sovietico, conta tre milioni di abitanti in un territorio esteso come la Lombardia: solo una piccolo parte rispetto alla Grande Armenia di qualche secolo fa. Vanta una delle più floride culture del mondo antico, con una storia ricca di fascino, che affonda le radici nella tradizione biblica del Diluvio universale. Proprio alle pendici del monte Ararat, sulla cui cima si era arenata l'Arca di Noè, nel VII secolo avanti Cristo si formò infatti il popolo armeno. Ancor oggi il monte Ararat (pur in territorio turco) è un richiamo simbolico fondamentale per l'Armenia, che nel 301 dopo Cristo divenne il primo Paese al mondo ad adottare il Cristianesimo come religione ufficiale. La Chiesa armena, tra le più antiche, anche se separata ha sempre mantenuto buoni rapporti con Roma; e una sua costola nel XVIII secolo è entrata a far parte della Chiesa cattolica. Nella mostra romana, una sezione è dedicate alle croci che costellano la storia armena: croci sempre fiorite, che germogliano. A testimoniare che la sofferenza di un popolo che ama Dio non è mai vana e porta frutti.
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Titolo originale: Armenia, un genocidio che è ancora scomodo
Fonte: Il Timone, aprile 2015
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